APPUNTAMENTO CON IL GIRO — Venerdì 28 maggio, diciannovesima tappa, la Brescia-Aprica, 195 chilometri. Aprica, Trivigno, Mortirolo e ancora Aprica. Si salvi chi può. Ci sono salite che hanno un solo versante: come le Tre Cime di Lavaredo. Quelle che ne hanno due: come lo Zoncolan. Quelle che ne hanno anche tre: come il Mortirolo. Se non di più. Il versante nobile, cioè il più duro, del Mortirolo è quello nord. Versante è un eufemismo: tanto vale dire parete, parete nord. Da Mazzo, altro nome che rende l’idea di quello che, da lì in poi, ci si debba aspettare. Insomma, dalla Valtellina verso la Valcamonica. Punto di partenza: Mazzo, quota 552. Punto di arrivo: Mortirolo, quota 1852. Totale: 12,4 chilometri di calvario, dislivello 1300 metri, le guide ("Salite della Lombardia - volume 1", Ediciclo) riportano una pendenza media del 10,5% e massima di oltre il 20%. Sarà. Ma vista dalla strada, dalla bici sulla strada, la fatica non molla mai. Sembra di arrampicarsi su un campanile. Si lascia ogni speranza alla fontana di Mazzo: da lì si spreca un chilometrino in un inutile salire e scendere. Poi si entra nel bosco e cominciano i dolori. Fisici e mentali.
Pantani e Berzin nel 1994. Bettini
COME UN TRIBUNALE — Si prende un ritmo. Lento e silenzioso. E si regolano i conti. Con la propria vita. Rampe, spirali, tornanti. Un viottolo asfaltato che si erge a tribunale militare: severo, inflessibile, inoppugnabile. Non fa sconti, non concede deroghe, non rilascia perdoni. Semmai, esecuzione immediata. Il Mortirolo sentenzia e punisce. E non c’è modo di intenerirlo, addolcirlo, addomesticarlo. Perché il passo che si riesce a tenere è comunque il massimo possibile, fattibile, praticabile. Per chi vuole sopravvivere, misurarsi, migliorarsi. Per chi vuole sapere, conoscere, provare, sentire, osare. Il Mortirolo è una forma di espiazione. I corridori vanno su con un passo che, noi umani, non possiamo neanche immaginare di poter adottare. Dicono che, su una pendenza così cattiva, le differenze non si riescano a fare, almeno fra gli uomini di classifica. Se hai le gambe. Invece, se non le hai, becchi delle mezzore. Gli ultimi due chilometri, quando ci si libera dall’incubo del bosco, sarà che si spalanca il cielo, sarà che la strada finalmente cede qualche percento, sarà che s’indovina la fine del calvario prima della propria, ormai hai la consapevolezza di avercela fatta. Poi una foto, un ringraziamento, un sorso di borraccia come se fosse un calice di champagne.
Pantani e Berzin nel 1994. Bettini
COME UN TRIBUNALE — Si prende un ritmo. Lento e silenzioso. E si regolano i conti. Con la propria vita. Rampe, spirali, tornanti. Un viottolo asfaltato che si erge a tribunale militare: severo, inflessibile, inoppugnabile. Non fa sconti, non concede deroghe, non rilascia perdoni. Semmai, esecuzione immediata. Il Mortirolo sentenzia e punisce. E non c’è modo di intenerirlo, addolcirlo, addomesticarlo. Perché il passo che si riesce a tenere è comunque il massimo possibile, fattibile, praticabile. Per chi vuole sopravvivere, misurarsi, migliorarsi. Per chi vuole sapere, conoscere, provare, sentire, osare. Il Mortirolo è una forma di espiazione. I corridori vanno su con un passo che, noi umani, non possiamo neanche immaginare di poter adottare. Dicono che, su una pendenza così cattiva, le differenze non si riescano a fare, almeno fra gli uomini di classifica. Se hai le gambe. Invece, se non le hai, becchi delle mezzore. Gli ultimi due chilometri, quando ci si libera dall’incubo del bosco, sarà che si spalanca il cielo, sarà che la strada finalmente cede qualche percento, sarà che s’indovina la fine del calvario prima della propria, ormai hai la consapevolezza di avercela fatta. Poi una foto, un ringraziamento, un sorso di borraccia come se fosse un calice di champagne.