Ricetta:
Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini 'na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s'ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s'assistema nel palmo d'una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell'altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d'ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s'infilano in una padeddra d'oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d'oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!
Storia:
Gli arancini di Montalbano e i segreti di nonna Elvira
Roma - "E così lei vuole sapere da me la storia degli arancini di Montalbano, dei suoi polipetti alla napoletana, dei suoi involtini di tonno arrostito. Vuole farmi arriminare in quella zona della mia memoria dove sono sarbàti i profumi, gli aromi, i sapori, le atmosfere e i segreti della tavola del commissario. Cioè della mia. E va bene, parliamone: questo è un tema che puntualmente spalanca la porta della mia giovinezza, è un piccolo viaggio nel tempo che faccio con piacere. Ma sappia che è una storia lunga, che principia quando io - che oggi ho quasi ottant'anni - ero un picciliddro che aveva sì e no sette anni. Ha voglia di sentirla? E allora s'assittasse.
Da dove cominciamo? Senza dubbio da mia nonna Elvira, che era la generalessa della cucina. Vede, la mia era una famiglia numerosa, nella quale ognuno aveva il suo ruolo preciso. Mia madre e le sue sorelle, che erano le classiche donne di casa siciliane, al momento opportuno avevano il compito primario di assistere mia nonna Elvira. Una cuoca formidabile, sia chiaro. E non solo: fu lei a farmi conoscere il mio primo libro, "Alice nel paese delle meraviglie", leggendomelo capitolo dopo capitolo quando io non avevo ancora imparato a leggere. Ma il suo regno era la cucina. A essere precisi, la cucina della casa di campagna. La quale distava dalla casa di città - stiamo parlando di Porto Empedocle - meno di un chilometro e mezzo. Un chilometro e mezzo di trazzera, però. Ora, in quella casa c'era tutto, eppure bisognava portare sempre qualcos'altro: non ho mai capito perché. Così si andava sulla trazzera col carretto, lentamente, e ogni volta, puntualmente, mio nonno all'arrivo mormorava: "Mamma mia che viaggio terribile!".
A mia nonna piaceva fare il pane. Cominciava a famiare il forno, per portarlo a temperatura, e intanto lavorava l'impasto con lo scanaturi. Alla fine, perché venissero ben schiacciate, lei faceva un salto e si sedeva sopra lo scanaturi, spianando bene tutte le forme prima di infornarle. A me toccava la scanatedda, un panino meraviglioso, croccante e profumato. Lo aprivo col coltello, ci mettevo olio, pepe nero e pecorino e lo mettevo nella pressa del nonno. Così questo panino, sciaff, diventava sottile sottile. Io mi andavo a sedere sotto un albero di carrubo con la mia scanatedda spianata e questo, a dieci anni, mi bastava e avanzava per essere felice.
Poi c'era il rito degli arancini. Gli arancini di Montalbano, certo. Mia nonna diceva che prepararli era lungariusu, ci voleva tanto tempo. Perché bisognava preparare la carne, tanto di maiale e tanto di vitello, spezzettandola col tagghiaturi, la mezzaluna. Ci voleva tempo. Si aggiungevano i piselli, un po' di caciocavallo ragusano e qualche pezzettino di salame, si impastava tutto in un pugno di riso e si passava l'arancino nell'uovo, nella farina e nel pangrattato, per l'impanatura. Ma non si friggevano subito. No, bisognava aspettare una notte, lasciarli riposare in pace. E il giorno dopo, a tavola, si vedeva com'erano venuti. Perché il problema dell'arancino era il dosaggio, che non era mai lo stesso, e dunque ogni volta mia nonna passava un esame. "Comu vinniru stavota?" domandava. "Un tanticchia asciutti. L'autra vota erano megliu" rispondeva mio nonno. Un giorno li fece in un modo davvero sublime, e io stavo per dirglielo. Mio zio Massimo mi diede un cavuciu sotto la tavola. "Boniceddu" mi sussurrò. Ma perché?, gli domandai. "Perché lei deve sempre superare se stessa: se tu le dai soddisfazione, è finita".
Da nonna Elvira ho imparato una ricetta speciale, un piatto inventato da lei e battezzato "a munnizza". Il nome è buffo, d'accordo, ma il piatto è fantastico. Anche lei vuole conoscere questa ricetta? E va bene. Ci vogliono otto o dieci verdure diverse, alcune crude e altre cotte. Poi si prendono delle gallette e si copre il fondo della teglia affinché assorbano l'eccesso di olio e di aceto. Si comincia con uno strato di verdure cotte, e lo si copre con un altro strato di verdure crude. Poi ancora cotte, e di nuovo crude. Tanti strati, insomma, finché non diventa una sorta di panettone coloratissimo. Che va condito con olio, aceto e sale e ricoperto con acciughe, fette di arance amare, capperi, olive verdi, patate, rape e uova sode a fette. Però bisogna mangiarlo il giorno dopo, quando tutta questa roba si è amalgamata a dovere.
Ogni volta che la rifaccio, assaporo il piacere di tornare indietro nel tempo. Ho provato, le dico la verità, anche a ripetere altre cose meravigliose della mia infanzia. Come prendere il pane caldo, andare dalla capra e mungere il latte direttamente sulla fetta. Non ci sono mai riuscito. La verità è che i sapori del passato sono irripetibili. Una volta, bevendo l'uovo appena fatto, ti accorgevi subito se la gallina aveva sconfinato nel campo di trigonella. Oggi... lasciamo stare.
Parliamo d'altro. Del gelato, per esempio. A Porto Empedocle aveva il suo tempio nel Caffè Castiglione, che aveva un segreto per i pezzi duri. Meravigliosi. Il giorno che Mussolini passò da lì - fermandosi in tutto 15 minuti - gli offrirono proprio il gelato del caffè Castiglione. Dopo un po' di tempo telefonarono da Roma alla capitaneria di porto avvertendo che stava ammarando un idrovolante per caricare un pozzo di gelato per il duce. Il gelato del Caffè Castiglione. Da quella volta, ogni sabato si ripeteva l'operazione. Così, quando Mussolini inaugurò la prima autostrada italiana, da Roma a Ostia, mio zio Riccardo che era antifascista disse a mio padre, fascistissimo: "Pippi', lo sai picchì Mussolini fici 'sta strata? Picchì si scantava ca i gelati c'arrivavunu squagliati".
Poi venne la guerra, e il cibo cominciò a scarseggiare. Non era facile neanche trovare il pesce. Mio padre una volta riuscì a comprare una partita di linguate, che sarebbero le sogliole. Dunque organizzò una grande cena all'aperto e furono invitati anche gli ufficiali amici suoi. Capitò che proprio nel momento in cui vennero servite queste magnifiche linguate, suonò la sirena dell'allarme aereo. Fu un fuggi-fuggi. I soldati alle mitragliatrici, gli altri nel rifugio. Mio padre non si mosse, restò davanti alla sua linguata. Papà, gli chiesi mentre correvo verso il riparo, e gli aerei? "Mi ni futtu" rispose. Quando uscimmo, lui era ancora lì, e s'era mangiato anche la mia linguata: "Così impari a scantarti".
Dell'arrivo degli americani ho un ricordo nitidissimo. Mi venni a trovare a Serradifalco, proprio sulla linea difensiva tedesca. Ogni giorno bombe e cannoneggiamenti. Si mangiavano due fave cotte e basta. Finché una mattina sentii cantare gli uccelli. Niente bombe. Mi affacciai e vidi che i tedeschi si erano ritirati. Ma la cosa che mi terrorizzò fu una specie di casa gigantesca che avanzava in mezzo alla strada. Non avevo mai visto un carro armato così grande. Il quale si scansò per far passare una jeep con un soldato di colore e, accanto a lui, in piedi, un ufficiale con tre stelle sull'elmetto: era il generale Patton. Fece fermare la jeep proprio davanti a me, perché aveva visto la tomba di un tedesco con una croce di legno sopra. Scese, prese la croce e la spezzò. Poi diede un colpo allo sportello e la jeep ripartì. Io ero pietrificato. E mi trovò così l'ultimo soldato del gruppo, uno con una ghirlanda di bombe a mano attorno al collo. "Baciamo la mani paisà" mi disse. "C'avissi pì casu un poco d'acitu, di chiddu nostru? Aiu a fare l'insalatedda o' mè tenenti. A virduredda di campagna la truvai, e macari l'olio e il sale. Mi manca l'acitu. Ce l'hai?". Ce l'ho, gli risposi, e mi misi a piangere. Lo so, venivano a liberarci dal fascismo: ma per me, in quel momento, quei soldati erano degli invasori. Il soldato tornò dopo due ore. Io gli diedi l'aceto e poi gli mostrai la croce spezzata da Patton. Lui capì: "Come generale non ce n'è uguali. Come omo, è 'na cosa fitusa".
Finita la guerra, potemmo tornare alla casa di campagna. E nonna Elvira riprese il suo posto di comando. Lei era la vera regina di quella casa, e aveva un rapporto speciale con le cose. Parlava con gli oggetti, per dire. Una mattina la sentii parlare da sola, e sbirciai attraverso la porta socchiusa. Si rivolgeva a una saliera del '700, una cosa meravigliosa. "Tu sì 'na cosa fitusa" diceva. "Tu hai vistu mòriri a mè nonnu, hai visto mòriri a mè patri, e ora si ccà e aspetti che moru io. Ma io ti futtu!". La prese e la buttò dalla finestra: finì in mille pezzi, quella stupenda saliera.
Era capace di inventarsi parole nuove. "Zùnchisi", per esempio. Essere "zùnchisi", in quella casa, voleva dire essere noioso, camurriùso. Gli estranei, ovviamente, non capivano. Cosa che capitò anche quando arrivò da Milano la zia Franca, la donna che aveva appena sposato mio zio. Deve sapere che, a Porto Empedocle, muoversi si dice cataminarsi. Perché il nostro mòviti significa l'opposto: stai fermo. Ora, la povera zia Franca non poteva immaginarlo. E alla fine del pranzo di famiglia organizzato per darle il benvenuto, si alzò in piedi mostrando l'intenzione di dare una mano a sparecchiare. Un gesto di cortesia, che naturalmente non poteva essere accettato. Così tutti cominciarono a gridarle: "Mòviti, Franca!", "mòviti!", "mòviti!". Lei, intimidita, prese qualcosa e corse verso la cucina. E solo allora scoprì che tutti volevano fermarla, intimandole "mòviti". Tirò un sospiro di sollievo: "Per un attimo, confessò, mi sono chiesta dov'ero capitata!".
Mia nonna sorrideva, di queste cose. Era un personaggio unico, che riusciva sempre a catturare l'attenzione. Quando la portammo in udienza da Papa Giovanni, a un certo punto lui disse: "O trovate una sedia per questa signora o le do la mia". Era felice di essere venuta a Roma. Mia moglie la portò a Tivoli, nella villa di Adriano. Dopo averla vista, lei si appoggiò a una ringhiera, mormorando: "Tutto questo è bellissimo". E morì.
(Pubblicato su La Repubblica, 10 luglio 2005. Testo raccolto da Sebastiano Messina)
Fonte :
Oralb Questo è per te :ascelle:
Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta. Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si pripara un risotto, quello che chiamano alla milanìsa, (senza zaffirano, pi carità!), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini 'na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pi carità di Dio!). Il suco della carne s'ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s'assistema nel palmo d'una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell'altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d'ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s'infilano in una padeddra d'oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d'oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta. E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!
Storia:
Gli arancini di Montalbano e i segreti di nonna Elvira
Roma - "E così lei vuole sapere da me la storia degli arancini di Montalbano, dei suoi polipetti alla napoletana, dei suoi involtini di tonno arrostito. Vuole farmi arriminare in quella zona della mia memoria dove sono sarbàti i profumi, gli aromi, i sapori, le atmosfere e i segreti della tavola del commissario. Cioè della mia. E va bene, parliamone: questo è un tema che puntualmente spalanca la porta della mia giovinezza, è un piccolo viaggio nel tempo che faccio con piacere. Ma sappia che è una storia lunga, che principia quando io - che oggi ho quasi ottant'anni - ero un picciliddro che aveva sì e no sette anni. Ha voglia di sentirla? E allora s'assittasse.
Da dove cominciamo? Senza dubbio da mia nonna Elvira, che era la generalessa della cucina. Vede, la mia era una famiglia numerosa, nella quale ognuno aveva il suo ruolo preciso. Mia madre e le sue sorelle, che erano le classiche donne di casa siciliane, al momento opportuno avevano il compito primario di assistere mia nonna Elvira. Una cuoca formidabile, sia chiaro. E non solo: fu lei a farmi conoscere il mio primo libro, "Alice nel paese delle meraviglie", leggendomelo capitolo dopo capitolo quando io non avevo ancora imparato a leggere. Ma il suo regno era la cucina. A essere precisi, la cucina della casa di campagna. La quale distava dalla casa di città - stiamo parlando di Porto Empedocle - meno di un chilometro e mezzo. Un chilometro e mezzo di trazzera, però. Ora, in quella casa c'era tutto, eppure bisognava portare sempre qualcos'altro: non ho mai capito perché. Così si andava sulla trazzera col carretto, lentamente, e ogni volta, puntualmente, mio nonno all'arrivo mormorava: "Mamma mia che viaggio terribile!".
A mia nonna piaceva fare il pane. Cominciava a famiare il forno, per portarlo a temperatura, e intanto lavorava l'impasto con lo scanaturi. Alla fine, perché venissero ben schiacciate, lei faceva un salto e si sedeva sopra lo scanaturi, spianando bene tutte le forme prima di infornarle. A me toccava la scanatedda, un panino meraviglioso, croccante e profumato. Lo aprivo col coltello, ci mettevo olio, pepe nero e pecorino e lo mettevo nella pressa del nonno. Così questo panino, sciaff, diventava sottile sottile. Io mi andavo a sedere sotto un albero di carrubo con la mia scanatedda spianata e questo, a dieci anni, mi bastava e avanzava per essere felice.
Poi c'era il rito degli arancini. Gli arancini di Montalbano, certo. Mia nonna diceva che prepararli era lungariusu, ci voleva tanto tempo. Perché bisognava preparare la carne, tanto di maiale e tanto di vitello, spezzettandola col tagghiaturi, la mezzaluna. Ci voleva tempo. Si aggiungevano i piselli, un po' di caciocavallo ragusano e qualche pezzettino di salame, si impastava tutto in un pugno di riso e si passava l'arancino nell'uovo, nella farina e nel pangrattato, per l'impanatura. Ma non si friggevano subito. No, bisognava aspettare una notte, lasciarli riposare in pace. E il giorno dopo, a tavola, si vedeva com'erano venuti. Perché il problema dell'arancino era il dosaggio, che non era mai lo stesso, e dunque ogni volta mia nonna passava un esame. "Comu vinniru stavota?" domandava. "Un tanticchia asciutti. L'autra vota erano megliu" rispondeva mio nonno. Un giorno li fece in un modo davvero sublime, e io stavo per dirglielo. Mio zio Massimo mi diede un cavuciu sotto la tavola. "Boniceddu" mi sussurrò. Ma perché?, gli domandai. "Perché lei deve sempre superare se stessa: se tu le dai soddisfazione, è finita".
Da nonna Elvira ho imparato una ricetta speciale, un piatto inventato da lei e battezzato "a munnizza". Il nome è buffo, d'accordo, ma il piatto è fantastico. Anche lei vuole conoscere questa ricetta? E va bene. Ci vogliono otto o dieci verdure diverse, alcune crude e altre cotte. Poi si prendono delle gallette e si copre il fondo della teglia affinché assorbano l'eccesso di olio e di aceto. Si comincia con uno strato di verdure cotte, e lo si copre con un altro strato di verdure crude. Poi ancora cotte, e di nuovo crude. Tanti strati, insomma, finché non diventa una sorta di panettone coloratissimo. Che va condito con olio, aceto e sale e ricoperto con acciughe, fette di arance amare, capperi, olive verdi, patate, rape e uova sode a fette. Però bisogna mangiarlo il giorno dopo, quando tutta questa roba si è amalgamata a dovere.
Ogni volta che la rifaccio, assaporo il piacere di tornare indietro nel tempo. Ho provato, le dico la verità, anche a ripetere altre cose meravigliose della mia infanzia. Come prendere il pane caldo, andare dalla capra e mungere il latte direttamente sulla fetta. Non ci sono mai riuscito. La verità è che i sapori del passato sono irripetibili. Una volta, bevendo l'uovo appena fatto, ti accorgevi subito se la gallina aveva sconfinato nel campo di trigonella. Oggi... lasciamo stare.
Parliamo d'altro. Del gelato, per esempio. A Porto Empedocle aveva il suo tempio nel Caffè Castiglione, che aveva un segreto per i pezzi duri. Meravigliosi. Il giorno che Mussolini passò da lì - fermandosi in tutto 15 minuti - gli offrirono proprio il gelato del caffè Castiglione. Dopo un po' di tempo telefonarono da Roma alla capitaneria di porto avvertendo che stava ammarando un idrovolante per caricare un pozzo di gelato per il duce. Il gelato del Caffè Castiglione. Da quella volta, ogni sabato si ripeteva l'operazione. Così, quando Mussolini inaugurò la prima autostrada italiana, da Roma a Ostia, mio zio Riccardo che era antifascista disse a mio padre, fascistissimo: "Pippi', lo sai picchì Mussolini fici 'sta strata? Picchì si scantava ca i gelati c'arrivavunu squagliati".
Poi venne la guerra, e il cibo cominciò a scarseggiare. Non era facile neanche trovare il pesce. Mio padre una volta riuscì a comprare una partita di linguate, che sarebbero le sogliole. Dunque organizzò una grande cena all'aperto e furono invitati anche gli ufficiali amici suoi. Capitò che proprio nel momento in cui vennero servite queste magnifiche linguate, suonò la sirena dell'allarme aereo. Fu un fuggi-fuggi. I soldati alle mitragliatrici, gli altri nel rifugio. Mio padre non si mosse, restò davanti alla sua linguata. Papà, gli chiesi mentre correvo verso il riparo, e gli aerei? "Mi ni futtu" rispose. Quando uscimmo, lui era ancora lì, e s'era mangiato anche la mia linguata: "Così impari a scantarti".
Dell'arrivo degli americani ho un ricordo nitidissimo. Mi venni a trovare a Serradifalco, proprio sulla linea difensiva tedesca. Ogni giorno bombe e cannoneggiamenti. Si mangiavano due fave cotte e basta. Finché una mattina sentii cantare gli uccelli. Niente bombe. Mi affacciai e vidi che i tedeschi si erano ritirati. Ma la cosa che mi terrorizzò fu una specie di casa gigantesca che avanzava in mezzo alla strada. Non avevo mai visto un carro armato così grande. Il quale si scansò per far passare una jeep con un soldato di colore e, accanto a lui, in piedi, un ufficiale con tre stelle sull'elmetto: era il generale Patton. Fece fermare la jeep proprio davanti a me, perché aveva visto la tomba di un tedesco con una croce di legno sopra. Scese, prese la croce e la spezzò. Poi diede un colpo allo sportello e la jeep ripartì. Io ero pietrificato. E mi trovò così l'ultimo soldato del gruppo, uno con una ghirlanda di bombe a mano attorno al collo. "Baciamo la mani paisà" mi disse. "C'avissi pì casu un poco d'acitu, di chiddu nostru? Aiu a fare l'insalatedda o' mè tenenti. A virduredda di campagna la truvai, e macari l'olio e il sale. Mi manca l'acitu. Ce l'hai?". Ce l'ho, gli risposi, e mi misi a piangere. Lo so, venivano a liberarci dal fascismo: ma per me, in quel momento, quei soldati erano degli invasori. Il soldato tornò dopo due ore. Io gli diedi l'aceto e poi gli mostrai la croce spezzata da Patton. Lui capì: "Come generale non ce n'è uguali. Come omo, è 'na cosa fitusa".
Finita la guerra, potemmo tornare alla casa di campagna. E nonna Elvira riprese il suo posto di comando. Lei era la vera regina di quella casa, e aveva un rapporto speciale con le cose. Parlava con gli oggetti, per dire. Una mattina la sentii parlare da sola, e sbirciai attraverso la porta socchiusa. Si rivolgeva a una saliera del '700, una cosa meravigliosa. "Tu sì 'na cosa fitusa" diceva. "Tu hai vistu mòriri a mè nonnu, hai visto mòriri a mè patri, e ora si ccà e aspetti che moru io. Ma io ti futtu!". La prese e la buttò dalla finestra: finì in mille pezzi, quella stupenda saliera.
Era capace di inventarsi parole nuove. "Zùnchisi", per esempio. Essere "zùnchisi", in quella casa, voleva dire essere noioso, camurriùso. Gli estranei, ovviamente, non capivano. Cosa che capitò anche quando arrivò da Milano la zia Franca, la donna che aveva appena sposato mio zio. Deve sapere che, a Porto Empedocle, muoversi si dice cataminarsi. Perché il nostro mòviti significa l'opposto: stai fermo. Ora, la povera zia Franca non poteva immaginarlo. E alla fine del pranzo di famiglia organizzato per darle il benvenuto, si alzò in piedi mostrando l'intenzione di dare una mano a sparecchiare. Un gesto di cortesia, che naturalmente non poteva essere accettato. Così tutti cominciarono a gridarle: "Mòviti, Franca!", "mòviti!", "mòviti!". Lei, intimidita, prese qualcosa e corse verso la cucina. E solo allora scoprì che tutti volevano fermarla, intimandole "mòviti". Tirò un sospiro di sollievo: "Per un attimo, confessò, mi sono chiesta dov'ero capitata!".
Mia nonna sorrideva, di queste cose. Era un personaggio unico, che riusciva sempre a catturare l'attenzione. Quando la portammo in udienza da Papa Giovanni, a un certo punto lui disse: "O trovate una sedia per questa signora o le do la mia". Era felice di essere venuta a Roma. Mia moglie la portò a Tivoli, nella villa di Adriano. Dopo averla vista, lei si appoggiò a una ringhiera, mormorando: "Tutto questo è bellissimo". E morì.
(Pubblicato su La Repubblica, 10 luglio 2005. Testo raccolto da Sebastiano Messina)
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