- 11 Maggio 2008
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Il 29 Novembre 1977 moriva, dopo 13 giorni di agonia, Carlo Casalegno. Giornalista, vicedirettore de La Stampa, era stato gravemente ferito con quattro colpi di pistola in seguito ad un attentato delle Brigate Rosse. Era il primo giornalista assassinato da un commando terrorista (tre anni dopo una simile sorte tocchera` a Walter Tobagi del Corriere della Sera) ed un altro nome da aggiungere allo stillicidio di vittime della violenza che caratterizzò quell’anno. Sulle prime si pensava ad un nuovo Sessantotto. Il 1 febbraio l’Università di Roma veniva occupata dagli studenti che protestavano contro la riforma dell’allora Ministro della ‘pubblica istruzione’ Malfatti che aboliva la liberalizzazione dei piani di studio. Ma il clima rispetto a nove anni prima è cambiato, è più cupo: lo scontro ideologico si è radicalizzato, la tensione sociale (causata anche da una perdurante regressione economica) è altissima....
Lo stillicidio inizia il 1 febbraio: una banda di picchiatori di estrema destra entra nella città universitaria al grido di “morte ai rossi”. Ci sono pestaggi e scontri. E arriva la prima vittima: uno sparo nella baraonda ed un colpo raggiunge alla nuca Guido Bellachioma, uno studente di 22 anni, che lotterà contro la morte per giorni. Il giorno dopo, durante una manifestazione di risposta, in seguito agli scontri tra le Forze dell’Ordine e i manifestanti muore Domenico Arboletti, un’agente di 24 anni e due manifestanti - Leonardo Fortuna e Paolo Tomassini - vengono gravemente feriti. Inizia così il 1977, un anno costellato da un’inaudita violenza, con le drammatiche e tragiche morti di militanti ed attivisti (Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Benedetto Petrone, Angelo Pistolesi), membri delle Forze dell’Ordine (oltre a Domenico Arboletti: Lino Ghedini, Settimio Passamonti, Antonio Custra) e semplici “civili” (come Roberto Crescenzio, vittima di un rogo scoppiato in un bar di Torino a causa di una molotov lanciata da un militante di Lotta Continua). Ma il 1977 è anche l’anno dell’ascesa – a suon di ferimenti ed omicidi – delle Brigate Rosse che a Torino, storica città operaia, uccidono il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce ed appunto Carlo Casalegno.
La storia di Carlo Casalegno è esemplare. Giovanissimo, partecipa alla lotta partigiana militando nelle formazioni “Giustizia e Liberta” appartenenti nel Partito d’Azione, dove collabora al giornale clandestino “Italia Libera”. Dopo la guerra, svolge intensa attività giornalistica: entra nel 1947 nel quotidiano “La Stampa” e ne diventa vicedirettore nel 1968. A partire dalla fine degli anni sessanta, gli articoli di Casalegno si concentrano su temi d’impegno politico. Nella sua rubrica settimanale dal titolo “Il Nostro Stato” emerge chiara e inequivocabile la sua posizione: sostegno alla legalità, ai diritti dei cittadini, all’ordinamento dello Stato e soprattutto aperta condanna della violenza e del terrorismo. Ma non è solo questo che cattura un lettore quando si trova davanti agli scritti di Casalegno. Si trovano i tratti caratteristici di uno strenuo avversario di qualunque estremismo e fanatismo ideologici e di un sincero difensore di un sano spirito democratico. Nell’agosto del 1977, a proposito della strategia della tensione e del terrorismo, Casalegno ad esempio scrive: “Strage di Milano, eccidio dell’Italicus, omicidio di Calabresi e di Occorsio, morte di Feltrinelli, fuga di Dalle Chiaie e di Giannettini; sono torbidi misteri, ma soprattutto punte di un iceberg di violenza, di inefficienza e di corruzione che da otto anni tormenta il Paese”. Carlo Casalegno è anche un giornalista di razza, pronto ad esporsi di persona per “avere le idee più chiare, per capire e per dialogare, o per scontrarsi”.
Nel settembre 1977 a Bologna (la città “rossa” per eccellenza, simbolo del PCI) si
celebra un convegno, organizzato da vari gruppi extra-parlamentari di sinistra, sulla repressione. Il clima è teso: circa due mesi prima il giornale “Lotta Continua” aveva pubblicato un appello firmato da vari intellettuali francesi ed italiani (tra cui Sartre, Focault, Barthes, Glucksmann e Guattari) in cui si sosteneva che il compromesso storico stava realizzando in Italia una specie di repressione di tipo sovietico, annichilando ogni forma di dissenso a sinistra del partito comunista: un tale documento non poteva che provocare un uragano negli ambienti politici di sinistra.
Nonostante non fosse il suo compito, Casalegno chiede ad Arrigo Levi (a quei tempi direttore del La Stampa) di poter seguire il congresso di Bologna. E` pericoloso per Casalegno andare a Bologna, visto che il giornalista è additato, sia dagli estremisti che da alcuni intellettuali (i sostenitori del suddetto manifesto), come “nemico del popolo”. Come ha scritto Arrigo Levi sulla Stampa in occasione del 25esimo anniversario dell’attentato a Casalegno (16 novembre 2002) “Carlo andò con tutta la sua autorevolezza …perche` voleva capire. Tutti allora volevamo allora capire i nostri figli, che avevamo educato nel culto dell’antifascismo e dell’amore per la democrazia e che inseguivano, per vie diverse, la loro ricerca della verità; col rischio di ripetere antichi errori”. I suoi resoconti sono lucidi ed imparziali. Gli intellettuali disinvolti che predicavano la rivolta e teorizzano una campagna contro una repressione di stampo “sovietico” sono “gli sconfitti del convegno…neppure la follia dei manifestanti ha preso sul serio la campagna contro la repressione in Italia. La libertà, assicurata al convegno dalle istituzioni ‘repressive’, e la civile accoglienza di Bologna hanno coperto di ridicolo l’ardore da martiri con cui erano scesi nella fossa dei leoni”. C’è poi una gioventù che si riconosce in “un movimento magmatico, diviso in tante correnti, privo di strutture organizzative e gerarchiche, carico di spinte irrazionali e violente, agitato da uno spontaneismo anarcoide e che alla fine non ha voluto lo scontro.” Infatti la manifestazione di chiusura del convegno, tenutasi domenica 25 settembre 1977, si svolge senza incidenti: “Così il pomeriggio di domenica Bologna ha potuto offrire un bellissimo esempio di convivenza democratica”.
Ma un giornalista serio ed imparziale che decide di scandagliare il confuso magma dell’estremismo delle formazioni eversive e del terrorismo diventa scomodo per chi vuole innalzare il livello dello scontro sociale. Giornalisti come Casalegno entrano nel mirino delle formazioni eversive ed estremistiche. Si passa dallo slogan degli autonomi “Giornalista, sbirro maledetto, te lo scriviamo noi l’articolo perfetto” al documento interno delle Brigate Rosse completato nel giugno del 1977 in cui c`è un capitolo dal titolo significativo: “Colpire la stampa di regime strumento della guerra psicologica”. Ed inizia l’offensiva contro la stampa: vengono feriti Vittorio Bruno, Indro Montanelli, Emilio Rossi, Antonio Garzotto, Leone Ferrero. Casalegno però non si ritira a vita privata, anzi. Il terrorismo, la minaccia eversiva diventano elementi sempre più importanti delle sue lucide riflessioni: è ormai più di un anno che scrive in maniera regolare sul pericolo del terrorismo. Il suo primo articolo, datato 15 aprile 1976 è lucidamente impietoso: “Le Br, minoranza ribelle e violenta collocata oltre la sinistra extraparlamentare, divisa fra la rivolta fine a sé stessa e le velleità rivoluzionarie, che unisce teppisti e fanatici e che persegue, attraverso il crimine, la politica del tanto peggio tanto meglio“. Quando a Torino il primo processo contro le Br viene sospeso, nel suo articolo del 4 maggio 1977 emerge ancora una volta la sua difesa coerente della legalità: “La legge e i principi stessi della convivenza civile hanno subito nella giornata di ieri un’altra sconfitta. Si infittiscono i segni di sgretolamento dello Stato. A Torino, il maggior processo indetto finora contro i brigatisti rossi è finito prima di cominciare; dopo la fuga in massa dei giurati, la Corte ha constatato l’impossibilità di costituire il collegio giudicante e rinviato il dibattito a nuovo ruolo..Miopi calcoli, negligenze, paura danno spazio crescente all’illegalià”. Ormai il vicedirettore del la Stampa è nel mirino delle Brigate Rosse, che stanno organizzando un attentato. Forse la goccia che fa traboccare il vaso è il suo ultimo articolo, uscito il 9 novembre dal titolo “Chiusura dei covi. Basta applicare la legge”. In quest’ultima testimonianza giornalistica, Casalegno afferma senza indugi che le norme in vigore – senza cioè l’introduzione di leggi speciali sulla sicurezza – “offrono tutti i mezzi per combattere l’eversione”, ovvero che la “chiusura dei covi non è liberticida”. Il resto, purtroppo è storia: l’attentato del 16 novembre e la lunga agonia all’ospedale delle Molinette che si conclude tragicamente il 29 novembre. Il tutto in un clima sempre più incandescente. Casalegno è tra la vita e la morte quando, il 19 novembre appare su “Lotta Continua” un intervista, curata da Gad Lerner e Andrea Marcenaro, ad Andrea Casalegno, figlio di Carlo. E` una testimonianza lucida, in cui si parla di “assoluta disumanizzazione” della lotta armata e dove emerge il dolore sincero di un figlio per le gravi condizioni in cui si trova il padre alla stessa stregua della difesa da parte di un figlio dell’indipendenza ed onestà del padre. L’intervista provoca una fiumana di lettere in cui emergono posizioni assai oltranziste. Ma anche altri organi di stampa sono al centro dell’attenzione: il direttore Arrigo Levi nei suoi editoriali fa emergere una “chiamata di correo” nei confronti dei fiancheggiatori dichiarati o “passivi” del terrorismo. Gianpaolo Pansa, inviato di Repubblica, registra una certa freddezza tra gli operai nel grado di solidarietà nei confronti di Casalegno.
La vicenda legata all’uccisione del giornalista ha poi un’epilogo giudiziario nel 1983, quando la corte di Assise di Torino emette la sua sentenza a carico della colonna torinese delle Brigate Rosse: fra i suoi delitti si cita appunto l’assassinio del vice-direttore de La Stampa.
La storia di Carlo Casalegno però non è solo una vicenda drammatica e piena di desolazione, ma è anche una storia in cui emerge una persona a tutto tondo, lucida, professionale e portatrice di valori fondamentali: sicuramente un esempio da seguire e da non dimenticare.
p.s. Questo articolo non e` frutto di ricordi personali : nel 1977 avevo solo 9 anni, e il mio primo vivido ricordo degli anni di piombo rimane il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il materiale qui rielaborato e` frutto di varie letture. In particolare, ho usufruito dell’ottima ricostruzione di quello che accadde nel 1977 eseguita da Concetto Vecchio nel suo libro “Ali di piombo” (BUR, 2007) e di vario materiale reperito sulla rete (la scheda su Carlo Casalegno dell’associazione italiana vittime del terrorismo e gli articoli sul giornalista raccolti dal consiglio regionale della Lombardia dell’ordine dei giornalisti)
fonte:
Lo stillicidio inizia il 1 febbraio: una banda di picchiatori di estrema destra entra nella città universitaria al grido di “morte ai rossi”. Ci sono pestaggi e scontri. E arriva la prima vittima: uno sparo nella baraonda ed un colpo raggiunge alla nuca Guido Bellachioma, uno studente di 22 anni, che lotterà contro la morte per giorni. Il giorno dopo, durante una manifestazione di risposta, in seguito agli scontri tra le Forze dell’Ordine e i manifestanti muore Domenico Arboletti, un’agente di 24 anni e due manifestanti - Leonardo Fortuna e Paolo Tomassini - vengono gravemente feriti. Inizia così il 1977, un anno costellato da un’inaudita violenza, con le drammatiche e tragiche morti di militanti ed attivisti (Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi, Benedetto Petrone, Angelo Pistolesi), membri delle Forze dell’Ordine (oltre a Domenico Arboletti: Lino Ghedini, Settimio Passamonti, Antonio Custra) e semplici “civili” (come Roberto Crescenzio, vittima di un rogo scoppiato in un bar di Torino a causa di una molotov lanciata da un militante di Lotta Continua). Ma il 1977 è anche l’anno dell’ascesa – a suon di ferimenti ed omicidi – delle Brigate Rosse che a Torino, storica città operaia, uccidono il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Fulvio Croce ed appunto Carlo Casalegno.
La storia di Carlo Casalegno è esemplare. Giovanissimo, partecipa alla lotta partigiana militando nelle formazioni “Giustizia e Liberta” appartenenti nel Partito d’Azione, dove collabora al giornale clandestino “Italia Libera”. Dopo la guerra, svolge intensa attività giornalistica: entra nel 1947 nel quotidiano “La Stampa” e ne diventa vicedirettore nel 1968. A partire dalla fine degli anni sessanta, gli articoli di Casalegno si concentrano su temi d’impegno politico. Nella sua rubrica settimanale dal titolo “Il Nostro Stato” emerge chiara e inequivocabile la sua posizione: sostegno alla legalità, ai diritti dei cittadini, all’ordinamento dello Stato e soprattutto aperta condanna della violenza e del terrorismo. Ma non è solo questo che cattura un lettore quando si trova davanti agli scritti di Casalegno. Si trovano i tratti caratteristici di uno strenuo avversario di qualunque estremismo e fanatismo ideologici e di un sincero difensore di un sano spirito democratico. Nell’agosto del 1977, a proposito della strategia della tensione e del terrorismo, Casalegno ad esempio scrive: “Strage di Milano, eccidio dell’Italicus, omicidio di Calabresi e di Occorsio, morte di Feltrinelli, fuga di Dalle Chiaie e di Giannettini; sono torbidi misteri, ma soprattutto punte di un iceberg di violenza, di inefficienza e di corruzione che da otto anni tormenta il Paese”. Carlo Casalegno è anche un giornalista di razza, pronto ad esporsi di persona per “avere le idee più chiare, per capire e per dialogare, o per scontrarsi”.
Nel settembre 1977 a Bologna (la città “rossa” per eccellenza, simbolo del PCI) si
celebra un convegno, organizzato da vari gruppi extra-parlamentari di sinistra, sulla repressione. Il clima è teso: circa due mesi prima il giornale “Lotta Continua” aveva pubblicato un appello firmato da vari intellettuali francesi ed italiani (tra cui Sartre, Focault, Barthes, Glucksmann e Guattari) in cui si sosteneva che il compromesso storico stava realizzando in Italia una specie di repressione di tipo sovietico, annichilando ogni forma di dissenso a sinistra del partito comunista: un tale documento non poteva che provocare un uragano negli ambienti politici di sinistra.
Nonostante non fosse il suo compito, Casalegno chiede ad Arrigo Levi (a quei tempi direttore del La Stampa) di poter seguire il congresso di Bologna. E` pericoloso per Casalegno andare a Bologna, visto che il giornalista è additato, sia dagli estremisti che da alcuni intellettuali (i sostenitori del suddetto manifesto), come “nemico del popolo”. Come ha scritto Arrigo Levi sulla Stampa in occasione del 25esimo anniversario dell’attentato a Casalegno (16 novembre 2002) “Carlo andò con tutta la sua autorevolezza …perche` voleva capire. Tutti allora volevamo allora capire i nostri figli, che avevamo educato nel culto dell’antifascismo e dell’amore per la democrazia e che inseguivano, per vie diverse, la loro ricerca della verità; col rischio di ripetere antichi errori”. I suoi resoconti sono lucidi ed imparziali. Gli intellettuali disinvolti che predicavano la rivolta e teorizzano una campagna contro una repressione di stampo “sovietico” sono “gli sconfitti del convegno…neppure la follia dei manifestanti ha preso sul serio la campagna contro la repressione in Italia. La libertà, assicurata al convegno dalle istituzioni ‘repressive’, e la civile accoglienza di Bologna hanno coperto di ridicolo l’ardore da martiri con cui erano scesi nella fossa dei leoni”. C’è poi una gioventù che si riconosce in “un movimento magmatico, diviso in tante correnti, privo di strutture organizzative e gerarchiche, carico di spinte irrazionali e violente, agitato da uno spontaneismo anarcoide e che alla fine non ha voluto lo scontro.” Infatti la manifestazione di chiusura del convegno, tenutasi domenica 25 settembre 1977, si svolge senza incidenti: “Così il pomeriggio di domenica Bologna ha potuto offrire un bellissimo esempio di convivenza democratica”.
Ma un giornalista serio ed imparziale che decide di scandagliare il confuso magma dell’estremismo delle formazioni eversive e del terrorismo diventa scomodo per chi vuole innalzare il livello dello scontro sociale. Giornalisti come Casalegno entrano nel mirino delle formazioni eversive ed estremistiche. Si passa dallo slogan degli autonomi “Giornalista, sbirro maledetto, te lo scriviamo noi l’articolo perfetto” al documento interno delle Brigate Rosse completato nel giugno del 1977 in cui c`è un capitolo dal titolo significativo: “Colpire la stampa di regime strumento della guerra psicologica”. Ed inizia l’offensiva contro la stampa: vengono feriti Vittorio Bruno, Indro Montanelli, Emilio Rossi, Antonio Garzotto, Leone Ferrero. Casalegno però non si ritira a vita privata, anzi. Il terrorismo, la minaccia eversiva diventano elementi sempre più importanti delle sue lucide riflessioni: è ormai più di un anno che scrive in maniera regolare sul pericolo del terrorismo. Il suo primo articolo, datato 15 aprile 1976 è lucidamente impietoso: “Le Br, minoranza ribelle e violenta collocata oltre la sinistra extraparlamentare, divisa fra la rivolta fine a sé stessa e le velleità rivoluzionarie, che unisce teppisti e fanatici e che persegue, attraverso il crimine, la politica del tanto peggio tanto meglio“. Quando a Torino il primo processo contro le Br viene sospeso, nel suo articolo del 4 maggio 1977 emerge ancora una volta la sua difesa coerente della legalità: “La legge e i principi stessi della convivenza civile hanno subito nella giornata di ieri un’altra sconfitta. Si infittiscono i segni di sgretolamento dello Stato. A Torino, il maggior processo indetto finora contro i brigatisti rossi è finito prima di cominciare; dopo la fuga in massa dei giurati, la Corte ha constatato l’impossibilità di costituire il collegio giudicante e rinviato il dibattito a nuovo ruolo..Miopi calcoli, negligenze, paura danno spazio crescente all’illegalià”. Ormai il vicedirettore del la Stampa è nel mirino delle Brigate Rosse, che stanno organizzando un attentato. Forse la goccia che fa traboccare il vaso è il suo ultimo articolo, uscito il 9 novembre dal titolo “Chiusura dei covi. Basta applicare la legge”. In quest’ultima testimonianza giornalistica, Casalegno afferma senza indugi che le norme in vigore – senza cioè l’introduzione di leggi speciali sulla sicurezza – “offrono tutti i mezzi per combattere l’eversione”, ovvero che la “chiusura dei covi non è liberticida”. Il resto, purtroppo è storia: l’attentato del 16 novembre e la lunga agonia all’ospedale delle Molinette che si conclude tragicamente il 29 novembre. Il tutto in un clima sempre più incandescente. Casalegno è tra la vita e la morte quando, il 19 novembre appare su “Lotta Continua” un intervista, curata da Gad Lerner e Andrea Marcenaro, ad Andrea Casalegno, figlio di Carlo. E` una testimonianza lucida, in cui si parla di “assoluta disumanizzazione” della lotta armata e dove emerge il dolore sincero di un figlio per le gravi condizioni in cui si trova il padre alla stessa stregua della difesa da parte di un figlio dell’indipendenza ed onestà del padre. L’intervista provoca una fiumana di lettere in cui emergono posizioni assai oltranziste. Ma anche altri organi di stampa sono al centro dell’attenzione: il direttore Arrigo Levi nei suoi editoriali fa emergere una “chiamata di correo” nei confronti dei fiancheggiatori dichiarati o “passivi” del terrorismo. Gianpaolo Pansa, inviato di Repubblica, registra una certa freddezza tra gli operai nel grado di solidarietà nei confronti di Casalegno.
La vicenda legata all’uccisione del giornalista ha poi un’epilogo giudiziario nel 1983, quando la corte di Assise di Torino emette la sua sentenza a carico della colonna torinese delle Brigate Rosse: fra i suoi delitti si cita appunto l’assassinio del vice-direttore de La Stampa.
La storia di Carlo Casalegno però non è solo una vicenda drammatica e piena di desolazione, ma è anche una storia in cui emerge una persona a tutto tondo, lucida, professionale e portatrice di valori fondamentali: sicuramente un esempio da seguire e da non dimenticare.
p.s. Questo articolo non e` frutto di ricordi personali : nel 1977 avevo solo 9 anni, e il mio primo vivido ricordo degli anni di piombo rimane il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Il materiale qui rielaborato e` frutto di varie letture. In particolare, ho usufruito dell’ottima ricostruzione di quello che accadde nel 1977 eseguita da Concetto Vecchio nel suo libro “Ali di piombo” (BUR, 2007) e di vario materiale reperito sulla rete (la scheda su Carlo Casalegno dell’associazione italiana vittime del terrorismo e gli articoli sul giornalista raccolti dal consiglio regionale della Lombardia dell’ordine dei giornalisti)
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