Una scuola per pensare e una scuola per fare!
E’ sufficiente leggere l’incipit del documento sui licei elaborato dalla commissione dei 250 e acquisito formalmente – come sembra – dal MIUR, per avvertire un primo sussulto!
Testualmente! “La scuola liceale ha dietro di sé una lunga tradizione. Tra i suoi caratteri distintivi si può annoverare la capacità di adattarsi ai diversi contesti storici e alle diverse esigenze culturali e professionali. Nondimeno questa scuola ha saputo conservare saldi legami con le sue origini ideali, quel Liceo di Atene dove insegnò Aristotele”.
E’ certo che la tradizione del liceo viene da molto molto lontano! E’ molto meno certa la sua capacità di adattarsi al succedersi dei contesti culturali e professionali! Se così fosse, non ci sarebbe alcun bisogno né di riforma né di 250 cervelli 250 chiamati a dar vita a nuovi percorsi formativi, liceali quanto si vuole, ma che recepiscano almeno qualche briciola del “nuovo” che incombe!
Ed il documento procede con le amenità da sempre risapute e più volte rimasticate! Il Liceo – sempre maiuscolo! – è orientato alla theoria – ovviamente in greco antico – ovvero al “conoscere fine a se stesso”, al “vedere conoscitivo” (sic!), utilizza un po’ di téchne – anche qui il greco – ma questo uso è solo strumentale, finalizzato a produrre nuova teoria! Tutto ciò che nel Liceo può essere pratico è sempre finalizzato alla “conoscenza, per precisare meglio concetti e relazioni tra concetti, per illuminare teorie da sole non intuitive, piuttosto che per dimostrare capacità (professionali)” Ed “emerge da questa diversa finalizzazione della téchne l’intrinseca propedeuticità del Liceo ad ulteriori percorsi formativi teorici e pratici di completamento professionale”. Ed è chiaro che gli ulteriori percorsi sono quelli universitari!
Dal canto loro, invece, “gli istituti dell’istruzione e formazione professionale promuovono ‘sapere’ e ‘cultura’ attraverso le conoscenze e le abilità necessarie per impadronirsi (meglio sarebbe: perché gli studenti si impadroniscano! N.d.a.) di determinate competenze tecnico-professionali più o meno consolidate (il “più o meno” è veramente una chicca!). I Licei intendono raggiungere la medesima finalità (concetto assai poco chiaro! N.d.a) attraverso le conoscenze e le abilità necessarie per poter esercitare le competenze teoretiche funzionali da un lato, ad un ulteriore specializzazione conoscitiva da realizzare nell’ambito dell’università e, dall’altro, all’acquisizione di successive competenze tecnico-professionali complesse da promuovere nei corsi di laurea nella formazione professionale superiore, nell’alta formazione o anche direttamente sul lavoro”.
Così, con una sintassi non sempre ciceroniana, si sottolinea con forza che i Licei sono finalizzati alle conoscenze e, tutt’al più alle competenze teoretiche (ma che cosa sarà una competenza teoretica?!), mentre il canale della istruzione e formazione professionale comporta l’acquisizione di competenze tecnico-professionali – ovviamente non teoretiche! –più o meno consolidate!
Il sistema duale, tanto da molti paventato ma mai chiaramente esplicitato dai riformatori, finalmente viene descritto a tutto tondo! Da una parte c’è il sistema dei Licei che forma solo a conoscenze teoriche, dall’altro c’è quella della istruzione e formazione professionale che forma solo a competenze pratiche! La serie A e la serie B! E’ la gerarchia della scuola della tradizione! La verticalità dei due gradini, quello superiore e quello inferiore!
Un secondo ciclo unitario od un liceo che divide?
Se rileggiamo attentamente le finalità del secondo ciclo, di cui all’articolo 2 della Legge 53/03, comma g), rileviamo che, nel suo insieme, “il secondo ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire, e la riflessione critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l’autonoma capacità di giudizio e l’esercizio della responsabilità personale e sociale; in tale ambito, viene anche curato lo sviluppo delle conoscenze relative all’uso delle nuove tecnologie; il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale; dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro o attraverso l'apprendistato”.
Come mai, allora, questa unitarietà (per certi versi, un po’ traballante sotto il profilo lessicale e quello sintattico) viene assolutamente ignorata, misconosciuta, spazzata via dal documento illustrativo dei licei?
Quella unitarietà allora voleva e vuole essere solo uno specchietto per le allodole? Il legislatore si è così espresso per non scoprire subito le sue carte?
Da parte mia non c’è una opposizione di principio alla distinzione tra il sistema dei licei e quello dell’istruzione formazione professionale, tanto più che, allo stato delle cose (mi stava per sfuggire un sic stantibus rebus!) – il nuovo Titolo V – la bipartizione è norma costituzionale. I sistemi possono essere anche mille – di qui la metafora del millepiedi in un mio recente scritto – purché sia garantita per tutti una solida formazione generale di base!
Oggi, e tanto più domani, in una società fortemente avanzata non c’è essere umano, non c’è persona (è un termine che piace tanto alla nuova amministrazione) che possa accedere nel sociale, nella cultura, nel lavoro, qualunque esso sia, senza una solida formazione iniziale che gli permetta in primo luogo di “leggere” quella complessità che caratterizza la nostra contemporaneità.
Occorre una forte conoscenza di base per tutti
Nicola Cacace in un suo intervento al Convegno internazionale sulle “Antinomie dell’educazione nel XXI secolo” (Università di Roma Tre, 30 gennaio – 1 febbraio 2003) così si esprime:
“La globalizzazione delle economie segna l’avvento di un’era di complessità e variabilità che, rendendo obsolete tecniche e competenze con frequenza superiore al passato, finisce inevitabilmente per rendere più importanti le conoscenze di base rispetto alle specialistiche, la cultura rispetto alla tecnica.
“Specializzazione flessibile e polivalenza, creatività ed autoformazione (o formazione continua) devono diventare gli obiettivi della nuova formazione per i giovani e della formazione continua per tutti.
“Oggi è più di ieri necessario che le conoscenze specialistiche, mutevoli e caduche per la velocità delle innovazioni, siano sempre inserite in un quadro di conoscenze di base e metodologie di analisi che per loro natura non decadono nel tempo”.
E, sulla base di queste premesse Cacace osserva che “appaiono davvero incomprensibili e controtendenza alcune recenti decisioni governative prese in Italia tendenti ad anticipare le scelte scolastico-prfessionali superiori dei giovani invece che ritardarle al fine di rafforzare le conoscenze di base”.
Non sono considerazioni fuor di luogo, ma assolutamente coerenti con quanto viene oggettivamente richiesto dallo scenario della cultura e delle conoscenze nel contesto del Terzo millennio. A queste esigenze rispondevano l’innalzamento dell’obbligo di istruzione (di cui alla Legge 9/99, ora abrogata dalla legge 53/03) e l’istituzione dell’obbligo formativo (di cui alla Legge 144/99, art. 68). Va sottolineato che con la Legge 53 si riconosce la necessità che tutti i giovani siano in formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età (art. 2, comma 1, c). Il che significa che in questo dodicennio vi è tutto il tempo perché quelle conoscenze di base vengano sollecitate dal sistema di istruzione nel suo insieme e conseguite dai giovani, anche perché è un adempimento normativo garantire a tutti il diritto ad un apprendimento efficace ed il successo formativo grazie alla “realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona” (Regolamento dell’autonomia, DPR 275/99, art. 1), qualunque sia il corso di studi frequentato.
Appare, pertanto, una palese contraddizione tra quanto viene affermato dalla normativa sull’autonomia (e dagli impegni assunti per la conservazione dell’obbligo formativo) e quanto viene affermato nel documento sui licei. In quest’ultimo, sul solco della più trita tradizione, si riafferma con prosopopea e spudoratezza che solo con i Licei (la maiuscola, mi raccomando!) si sollecitano conoscenze, e che le competenze sono del sistema dell’istruzione e formazione professionale.
Si sostiene una rigida gerarchia verticale in luogo, invece di una flessibile differenziazione in orizzontale! Un canale privilegiato ed un canale di secondo ordine!
Un documento che non vuole leggere il presente!
Quello che più colpisce è che nel documento è assolutamente assente un qualsiasi riferimento a ciò che si è verificato negli ultimi decenni nella cultura, nell’economia, nel sociale, nella organizzazione del lavoro, nei processi lavorativi, nella evoluzione delle discipline, nella epistemologia, nella ricerca educativa, nelle tecnologie! Dopo il Liceo di Atene in cui insegnò Aristotele sembra che nulla sia accaduto! Tutto il dibattito di questi ultimi anni sulla emergenza di nuovi saperi, sulla necessità della ricerca di “nuclei fondanti”, sul nuovo valore che nella didattica e nelle nuove competenze professionali assumono gli intrecci pluridisciplinari è totalmente assente!
Lo stesso Gentile con il suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica appare un progressista a confronto del documento sui Licei (mi raccomando la maiuscola!). Sembra che le stesse suggestioni di un Dewey – e siamo negli anni Venti – a proposito del nesso che corre tra mano e mente, tra teoria e pratica, e che le ricerche di un Snow sulle necessità del superamento delle due culture – e siamo negli anni Cinquanta – siano assolutamente al di là di ogni riflessione dei 250!
Per non dire di un Bruner che – e siamo negli anni Settanta – affermava come fosse l’uso degli strumenti materiali la potente molla dell’evoluzione del cervello umano. Per non dire della relazione stretta che corre per un Gadamer tra il metodo (il fare, se si vuole, il ricercare) e la verità (come sua riduzione alle pretese totalizzanti di certe sistematizzazioni filosofiche). E come non ricordare lo stesso Bateson che afferma come e perché occorra superare il meccanicismo che separa la mente dal corpo in funzione di una concezione dell’individuo come sistema aperto?!
Insomma, tutti gli ultimi anni hanno visto ricerche ed iniziative tese a ricostruire quell’unità tra cultura e natura, tra pensiero e azione, tra riflessione e manualità, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, unità che per troppi secoli è stata negata e conculcata al fine di giustificare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il dominio della classe dominante su quella dei dominati! E non mi si accusi di vetero marxismo! La contiguità tra l’uomo plastico di Marx e il personalismo cattolico è ben più stretta di quanto non si pensi!. Non si può non ricordare, infatti, il tentativo di Mounier, con la sua Rivoluzione personalista, di ricucire la concezione marxiana dell’uomo totale con l’esistenzialismo di Kierkegard!
E qualcuno ha anche pensato che è necessario ricostruire un nuovo patto sociale, una sorta di Nuova alleanza – è il prezioso volume di Ilya Prigogine – in cui le scienze della natura e le scienze dell’uomo ricerchino e ritrovano quell’unità da sempre negata! Ma sono dati degli ultimissimi anni i richiami costanti alle nuove modalità e alle nuove tecniche che il lavoro, l’economia, la struttura sociale ci propongono.
I concetti – e i fatti – di complessità, globalizzazione, sistema, turbolenza, rete, entropia, relatività, modularità – cito i più significativi – che costituiscono i fattori critici delle società tecnologicamente avanzate, terziarizzate, semplicemente non esistono! Perché Aristotele non ne ha parlato!
I documenti dell’Unisco e dell’Ocse: per una educazione unitaria!
E’ Jacques Delors a parlare del fenomeno della dematerializzazione del lavoro, è Edgar Morin a proporci il concetto di una testa ben fatta, più che una testa ben piena – e lo diceva Pascal! – e l’uno e l’altro intervengono autorevolmente a suggerire le strategie dell’educazione per il Nuovo millennio! E sono strategie in cui non vi è alcuna traccia di sistema duale, della scuola fatta per pochi destinati a conoscere e di un’altra fatta per molti destinati a fare!
I quattro pilastri dell’educazione sono per Delors (sono enunciati nel volume Nell’educazione un tesoro, che è stato pubblicato a cura dell’Unesco, e che assume perciò una particolare connotazione sovranazionale!): a) imparare a conoscere; b) imparare a fare (dal concetto di abilità a quello di competenza); c) imparare a vivere insieme; d) imparare ad essere. E non c’è traccia di formazione duale!
Morin si muove in una analoga direzione quando nel suo Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur, Unesco, 1999 individua quali debbano essere i compiti più importanti che un sistema di istruzione deve darsi, oggi: a) potenziare lo studio dei caratteri cerebrali, mentali, culturali della conoscenza umana per evitare errori o illusioni; b) insegnare a cogliere le relazioni che corrono tra le parti e il tutto in un mondo complesso; c) insegnare la condizione umana per mostrare il legame che corre tra l’unità e la diversità di tutto ciò che è umano; d) insegnare come tutti gli esseri umani siano di fronte agli stessi problemi di vita e di morte; e) insegnare a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze; e) insegnare la reciproca comprensione perché le relazioni umane escano dal loro stato barbaro di incomprensione; f) educare ad una nuova etica: l’essere umano è allo stesso tempo individuo, parte di una società, parte di una specie, in funzione di una cittadinanza terrestre.
“La nostra civiltà – afferma ancora Morin nella Testa ben fatta – e di conseguenza il nostro insegnamento hanno privilegiato la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi… Per pensare localmente si deve pensare globalmente, come per pensare globalmente si deve pensare localmente”. E non c’è traccia di formazione duale!
Analoghe indicazioni ritroviamo anche nelle ricerche dell’OCSE, nell’ormai famoso Libro Bianco della Cresson del ’94 e in tutte le pubblicazioni dell’Unione europea che a diverso titolo, di ricerca o di normativa comunitaria, si occupano di istruzione. Dagli artt. 126 e 127 del trattato di Maastricht al Libro Bianco della Commissione “Crescita, competitività, occupazione” e a quello più recente “Insegnare e apprendere: verso la società cognitiva”; dagli obiettivi fissati da “Agenda 2000” alle linee guida dei Regolamenti sui fondi strutturali europei, gli indirizzi comunitari riconoscono con sempre maggiore incisività che lo sviluppo dei sistemi di istruzione e di formazione rappresenta un obiettivo europeo determinante, al pari degli obiettivi e dei parametri economici. Si vedano anche gli esiti del Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) e la Comunicazione della Commissione sul tema E-learning, pensare all’istruzione di domani (maggio 2000).
Le sfide effettive degli anni 2000: la formazione come condizione del cambiamento
In effetti le sfide più significative di un sistema di istruzione degli anni 2000 nelle società ad alto sviluppo sono almeno tre: a) garantire a ciascuno di acquisire quelle competenze di base che gli permettano una progressiva e produttiva integrazione in una società che si fa sempre più complessa; b) garantire a ciascun lavoratore – qualunque sia la funzione svolta – di migliorare ed incrementare quelle competenze tecnico-professionali che gli permettano di affrontare con successo i periodici cambiamenti in atto nei processi lavorativi e nella organizzazione del lavoro; c) adoperarsi perché ciascun soggetto in apprendimento, qualunque sia la sua origine etnica, culturale, linguistica, riconosca nell’altro non un individuo diverso da sé ma sappia trarre dalle differenze emergenti altrettanti motivi di arricchimento negli stessi interessi del singolo e della collettività.
Vale la pena ricordare un passaggio della Legge 845 del 1978, la legge quadro in materia di formazione professionale. Si tratta dei due commi dell’articolo 1:
“1. La Repubblica promuove la formazione e l'elevazione professionale in attuazione degli articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione, al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l'acquisizione di una cultura professionale.
“2. La formazione professionale, strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l'occupazione, la produzione e l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico”.
Nel primo comma si allude alla necessità di far crescere la personalità e la cultura professionale del lavoratore. Nell’articolo 2, però, si afferma che la formazione professionale è strumento della politica del lavoro. E ciò vanificherebbe l’autonomia dei processi formativi!
La mia riflessione è questa: occorre passare dalla dicotomia all’endiadi! Il sistema di istruzione, liceale o non liceale che sia, deve essere finalizzato alla formazione della persona pur in uno scenario culturale, socioeconomico lavorativo che è in continuo cambiamento. E nella società complessa ed in costante evoluzione l’educazione può e deve assumere un ruolo di primo piano ai fini della promozione del cambiamento e dell’innovazione.
E’ sufficiente leggere l’incipit del documento sui licei elaborato dalla commissione dei 250 e acquisito formalmente – come sembra – dal MIUR, per avvertire un primo sussulto!
Testualmente! “La scuola liceale ha dietro di sé una lunga tradizione. Tra i suoi caratteri distintivi si può annoverare la capacità di adattarsi ai diversi contesti storici e alle diverse esigenze culturali e professionali. Nondimeno questa scuola ha saputo conservare saldi legami con le sue origini ideali, quel Liceo di Atene dove insegnò Aristotele”.
E’ certo che la tradizione del liceo viene da molto molto lontano! E’ molto meno certa la sua capacità di adattarsi al succedersi dei contesti culturali e professionali! Se così fosse, non ci sarebbe alcun bisogno né di riforma né di 250 cervelli 250 chiamati a dar vita a nuovi percorsi formativi, liceali quanto si vuole, ma che recepiscano almeno qualche briciola del “nuovo” che incombe!
Ed il documento procede con le amenità da sempre risapute e più volte rimasticate! Il Liceo – sempre maiuscolo! – è orientato alla theoria – ovviamente in greco antico – ovvero al “conoscere fine a se stesso”, al “vedere conoscitivo” (sic!), utilizza un po’ di téchne – anche qui il greco – ma questo uso è solo strumentale, finalizzato a produrre nuova teoria! Tutto ciò che nel Liceo può essere pratico è sempre finalizzato alla “conoscenza, per precisare meglio concetti e relazioni tra concetti, per illuminare teorie da sole non intuitive, piuttosto che per dimostrare capacità (professionali)” Ed “emerge da questa diversa finalizzazione della téchne l’intrinseca propedeuticità del Liceo ad ulteriori percorsi formativi teorici e pratici di completamento professionale”. Ed è chiaro che gli ulteriori percorsi sono quelli universitari!
Dal canto loro, invece, “gli istituti dell’istruzione e formazione professionale promuovono ‘sapere’ e ‘cultura’ attraverso le conoscenze e le abilità necessarie per impadronirsi (meglio sarebbe: perché gli studenti si impadroniscano! N.d.a.) di determinate competenze tecnico-professionali più o meno consolidate (il “più o meno” è veramente una chicca!). I Licei intendono raggiungere la medesima finalità (concetto assai poco chiaro! N.d.a) attraverso le conoscenze e le abilità necessarie per poter esercitare le competenze teoretiche funzionali da un lato, ad un ulteriore specializzazione conoscitiva da realizzare nell’ambito dell’università e, dall’altro, all’acquisizione di successive competenze tecnico-professionali complesse da promuovere nei corsi di laurea nella formazione professionale superiore, nell’alta formazione o anche direttamente sul lavoro”.
Così, con una sintassi non sempre ciceroniana, si sottolinea con forza che i Licei sono finalizzati alle conoscenze e, tutt’al più alle competenze teoretiche (ma che cosa sarà una competenza teoretica?!), mentre il canale della istruzione e formazione professionale comporta l’acquisizione di competenze tecnico-professionali – ovviamente non teoretiche! –più o meno consolidate!
Il sistema duale, tanto da molti paventato ma mai chiaramente esplicitato dai riformatori, finalmente viene descritto a tutto tondo! Da una parte c’è il sistema dei Licei che forma solo a conoscenze teoriche, dall’altro c’è quella della istruzione e formazione professionale che forma solo a competenze pratiche! La serie A e la serie B! E’ la gerarchia della scuola della tradizione! La verticalità dei due gradini, quello superiore e quello inferiore!
Un secondo ciclo unitario od un liceo che divide?
Se rileggiamo attentamente le finalità del secondo ciclo, di cui all’articolo 2 della Legge 53/03, comma g), rileviamo che, nel suo insieme, “il secondo ciclo, finalizzato alla crescita educativa, culturale e professionale dei giovani attraverso il sapere, il fare e l’agire, e la riflessione critica su di essi, è finalizzato a sviluppare l’autonoma capacità di giudizio e l’esercizio della responsabilità personale e sociale; in tale ambito, viene anche curato lo sviluppo delle conoscenze relative all’uso delle nuove tecnologie; il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell’istruzione e della formazione professionale; dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le qualifiche si possono conseguire in alternanza scuola-lavoro o attraverso l'apprendistato”.
Come mai, allora, questa unitarietà (per certi versi, un po’ traballante sotto il profilo lessicale e quello sintattico) viene assolutamente ignorata, misconosciuta, spazzata via dal documento illustrativo dei licei?
Quella unitarietà allora voleva e vuole essere solo uno specchietto per le allodole? Il legislatore si è così espresso per non scoprire subito le sue carte?
Da parte mia non c’è una opposizione di principio alla distinzione tra il sistema dei licei e quello dell’istruzione formazione professionale, tanto più che, allo stato delle cose (mi stava per sfuggire un sic stantibus rebus!) – il nuovo Titolo V – la bipartizione è norma costituzionale. I sistemi possono essere anche mille – di qui la metafora del millepiedi in un mio recente scritto – purché sia garantita per tutti una solida formazione generale di base!
Oggi, e tanto più domani, in una società fortemente avanzata non c’è essere umano, non c’è persona (è un termine che piace tanto alla nuova amministrazione) che possa accedere nel sociale, nella cultura, nel lavoro, qualunque esso sia, senza una solida formazione iniziale che gli permetta in primo luogo di “leggere” quella complessità che caratterizza la nostra contemporaneità.
Occorre una forte conoscenza di base per tutti
Nicola Cacace in un suo intervento al Convegno internazionale sulle “Antinomie dell’educazione nel XXI secolo” (Università di Roma Tre, 30 gennaio – 1 febbraio 2003) così si esprime:
“La globalizzazione delle economie segna l’avvento di un’era di complessità e variabilità che, rendendo obsolete tecniche e competenze con frequenza superiore al passato, finisce inevitabilmente per rendere più importanti le conoscenze di base rispetto alle specialistiche, la cultura rispetto alla tecnica.
“Specializzazione flessibile e polivalenza, creatività ed autoformazione (o formazione continua) devono diventare gli obiettivi della nuova formazione per i giovani e della formazione continua per tutti.
“Oggi è più di ieri necessario che le conoscenze specialistiche, mutevoli e caduche per la velocità delle innovazioni, siano sempre inserite in un quadro di conoscenze di base e metodologie di analisi che per loro natura non decadono nel tempo”.
E, sulla base di queste premesse Cacace osserva che “appaiono davvero incomprensibili e controtendenza alcune recenti decisioni governative prese in Italia tendenti ad anticipare le scelte scolastico-prfessionali superiori dei giovani invece che ritardarle al fine di rafforzare le conoscenze di base”.
Non sono considerazioni fuor di luogo, ma assolutamente coerenti con quanto viene oggettivamente richiesto dallo scenario della cultura e delle conoscenze nel contesto del Terzo millennio. A queste esigenze rispondevano l’innalzamento dell’obbligo di istruzione (di cui alla Legge 9/99, ora abrogata dalla legge 53/03) e l’istituzione dell’obbligo formativo (di cui alla Legge 144/99, art. 68). Va sottolineato che con la Legge 53 si riconosce la necessità che tutti i giovani siano in formazione per almeno dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di una qualifica entro il diciottesimo anno di età (art. 2, comma 1, c). Il che significa che in questo dodicennio vi è tutto il tempo perché quelle conoscenze di base vengano sollecitate dal sistema di istruzione nel suo insieme e conseguite dai giovani, anche perché è un adempimento normativo garantire a tutti il diritto ad un apprendimento efficace ed il successo formativo grazie alla “realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona” (Regolamento dell’autonomia, DPR 275/99, art. 1), qualunque sia il corso di studi frequentato.
Appare, pertanto, una palese contraddizione tra quanto viene affermato dalla normativa sull’autonomia (e dagli impegni assunti per la conservazione dell’obbligo formativo) e quanto viene affermato nel documento sui licei. In quest’ultimo, sul solco della più trita tradizione, si riafferma con prosopopea e spudoratezza che solo con i Licei (la maiuscola, mi raccomando!) si sollecitano conoscenze, e che le competenze sono del sistema dell’istruzione e formazione professionale.
Si sostiene una rigida gerarchia verticale in luogo, invece di una flessibile differenziazione in orizzontale! Un canale privilegiato ed un canale di secondo ordine!
Un documento che non vuole leggere il presente!
Quello che più colpisce è che nel documento è assolutamente assente un qualsiasi riferimento a ciò che si è verificato negli ultimi decenni nella cultura, nell’economia, nel sociale, nella organizzazione del lavoro, nei processi lavorativi, nella evoluzione delle discipline, nella epistemologia, nella ricerca educativa, nelle tecnologie! Dopo il Liceo di Atene in cui insegnò Aristotele sembra che nulla sia accaduto! Tutto il dibattito di questi ultimi anni sulla emergenza di nuovi saperi, sulla necessità della ricerca di “nuclei fondanti”, sul nuovo valore che nella didattica e nelle nuove competenze professionali assumono gli intrecci pluridisciplinari è totalmente assente!
Lo stesso Gentile con il suo Sommario di pedagogia come scienza filosofica appare un progressista a confronto del documento sui Licei (mi raccomando la maiuscola!). Sembra che le stesse suggestioni di un Dewey – e siamo negli anni Venti – a proposito del nesso che corre tra mano e mente, tra teoria e pratica, e che le ricerche di un Snow sulle necessità del superamento delle due culture – e siamo negli anni Cinquanta – siano assolutamente al di là di ogni riflessione dei 250!
Per non dire di un Bruner che – e siamo negli anni Settanta – affermava come fosse l’uso degli strumenti materiali la potente molla dell’evoluzione del cervello umano. Per non dire della relazione stretta che corre per un Gadamer tra il metodo (il fare, se si vuole, il ricercare) e la verità (come sua riduzione alle pretese totalizzanti di certe sistematizzazioni filosofiche). E come non ricordare lo stesso Bateson che afferma come e perché occorra superare il meccanicismo che separa la mente dal corpo in funzione di una concezione dell’individuo come sistema aperto?!
Insomma, tutti gli ultimi anni hanno visto ricerche ed iniziative tese a ricostruire quell’unità tra cultura e natura, tra pensiero e azione, tra riflessione e manualità, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, unità che per troppi secoli è stata negata e conculcata al fine di giustificare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il dominio della classe dominante su quella dei dominati! E non mi si accusi di vetero marxismo! La contiguità tra l’uomo plastico di Marx e il personalismo cattolico è ben più stretta di quanto non si pensi!. Non si può non ricordare, infatti, il tentativo di Mounier, con la sua Rivoluzione personalista, di ricucire la concezione marxiana dell’uomo totale con l’esistenzialismo di Kierkegard!
E qualcuno ha anche pensato che è necessario ricostruire un nuovo patto sociale, una sorta di Nuova alleanza – è il prezioso volume di Ilya Prigogine – in cui le scienze della natura e le scienze dell’uomo ricerchino e ritrovano quell’unità da sempre negata! Ma sono dati degli ultimissimi anni i richiami costanti alle nuove modalità e alle nuove tecniche che il lavoro, l’economia, la struttura sociale ci propongono.
I concetti – e i fatti – di complessità, globalizzazione, sistema, turbolenza, rete, entropia, relatività, modularità – cito i più significativi – che costituiscono i fattori critici delle società tecnologicamente avanzate, terziarizzate, semplicemente non esistono! Perché Aristotele non ne ha parlato!
I documenti dell’Unisco e dell’Ocse: per una educazione unitaria!
E’ Jacques Delors a parlare del fenomeno della dematerializzazione del lavoro, è Edgar Morin a proporci il concetto di una testa ben fatta, più che una testa ben piena – e lo diceva Pascal! – e l’uno e l’altro intervengono autorevolmente a suggerire le strategie dell’educazione per il Nuovo millennio! E sono strategie in cui non vi è alcuna traccia di sistema duale, della scuola fatta per pochi destinati a conoscere e di un’altra fatta per molti destinati a fare!
I quattro pilastri dell’educazione sono per Delors (sono enunciati nel volume Nell’educazione un tesoro, che è stato pubblicato a cura dell’Unesco, e che assume perciò una particolare connotazione sovranazionale!): a) imparare a conoscere; b) imparare a fare (dal concetto di abilità a quello di competenza); c) imparare a vivere insieme; d) imparare ad essere. E non c’è traccia di formazione duale!
Morin si muove in una analoga direzione quando nel suo Les sept savoirs nécessaires à l’éducation du futur, Unesco, 1999 individua quali debbano essere i compiti più importanti che un sistema di istruzione deve darsi, oggi: a) potenziare lo studio dei caratteri cerebrali, mentali, culturali della conoscenza umana per evitare errori o illusioni; b) insegnare a cogliere le relazioni che corrono tra le parti e il tutto in un mondo complesso; c) insegnare la condizione umana per mostrare il legame che corre tra l’unità e la diversità di tutto ciò che è umano; d) insegnare come tutti gli esseri umani siano di fronte agli stessi problemi di vita e di morte; e) insegnare a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze; e) insegnare la reciproca comprensione perché le relazioni umane escano dal loro stato barbaro di incomprensione; f) educare ad una nuova etica: l’essere umano è allo stesso tempo individuo, parte di una società, parte di una specie, in funzione di una cittadinanza terrestre.
“La nostra civiltà – afferma ancora Morin nella Testa ben fatta – e di conseguenza il nostro insegnamento hanno privilegiato la separazione a scapito dell’interconnessione, l’analisi a scapito della sintesi… Per pensare localmente si deve pensare globalmente, come per pensare globalmente si deve pensare localmente”. E non c’è traccia di formazione duale!
Analoghe indicazioni ritroviamo anche nelle ricerche dell’OCSE, nell’ormai famoso Libro Bianco della Cresson del ’94 e in tutte le pubblicazioni dell’Unione europea che a diverso titolo, di ricerca o di normativa comunitaria, si occupano di istruzione. Dagli artt. 126 e 127 del trattato di Maastricht al Libro Bianco della Commissione “Crescita, competitività, occupazione” e a quello più recente “Insegnare e apprendere: verso la società cognitiva”; dagli obiettivi fissati da “Agenda 2000” alle linee guida dei Regolamenti sui fondi strutturali europei, gli indirizzi comunitari riconoscono con sempre maggiore incisività che lo sviluppo dei sistemi di istruzione e di formazione rappresenta un obiettivo europeo determinante, al pari degli obiettivi e dei parametri economici. Si vedano anche gli esiti del Consiglio europeo di Lisbona (marzo 2000) e la Comunicazione della Commissione sul tema E-learning, pensare all’istruzione di domani (maggio 2000).
Le sfide effettive degli anni 2000: la formazione come condizione del cambiamento
In effetti le sfide più significative di un sistema di istruzione degli anni 2000 nelle società ad alto sviluppo sono almeno tre: a) garantire a ciascuno di acquisire quelle competenze di base che gli permettano una progressiva e produttiva integrazione in una società che si fa sempre più complessa; b) garantire a ciascun lavoratore – qualunque sia la funzione svolta – di migliorare ed incrementare quelle competenze tecnico-professionali che gli permettano di affrontare con successo i periodici cambiamenti in atto nei processi lavorativi e nella organizzazione del lavoro; c) adoperarsi perché ciascun soggetto in apprendimento, qualunque sia la sua origine etnica, culturale, linguistica, riconosca nell’altro non un individuo diverso da sé ma sappia trarre dalle differenze emergenti altrettanti motivi di arricchimento negli stessi interessi del singolo e della collettività.
Vale la pena ricordare un passaggio della Legge 845 del 1978, la legge quadro in materia di formazione professionale. Si tratta dei due commi dell’articolo 1:
“1. La Repubblica promuove la formazione e l'elevazione professionale in attuazione degli articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione, al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l'acquisizione di una cultura professionale.
“2. La formazione professionale, strumento della politica attiva del lavoro, si svolge nel quadro degli obiettivi della programmazione economica e tende a favorire l'occupazione, la produzione e l'evoluzione dell'organizzazione del lavoro in armonia con il progresso scientifico e tecnologico”.
Nel primo comma si allude alla necessità di far crescere la personalità e la cultura professionale del lavoratore. Nell’articolo 2, però, si afferma che la formazione professionale è strumento della politica del lavoro. E ciò vanificherebbe l’autonomia dei processi formativi!
La mia riflessione è questa: occorre passare dalla dicotomia all’endiadi! Il sistema di istruzione, liceale o non liceale che sia, deve essere finalizzato alla formazione della persona pur in uno scenario culturale, socioeconomico lavorativo che è in continuo cambiamento. E nella società complessa ed in costante evoluzione l’educazione può e deve assumere un ruolo di primo piano ai fini della promozione del cambiamento e dell’innovazione.