Scade oggi l'ultimatum al governo:«Migliaia di guerrieri pronti a comabattere»
DOMENICO QUIRICO
Eccola: è l’onda d’urto delle rivoluzioni maghrebine. Le avevamo date per concluse, noi occidentali, astratti raziocinatori, le avevamo applaudite come semplici sbastigliatrici di tiranni. E poi messe da parte. Era appena il primo scossone. Mentre si stanno tingendo di islam Tunisia, Libia e domani Egitto, e Marocco, dallo squarcio il seme si sparge al Sahel, immensa striscia di sabbia, terra di nessuno dove si incrociano contrabbandieri e arruffapopoli con nello zaino il Corano, dove scorrono armi droga sigarette clandestini in cerca dell’Europa, dove la tentazione di diventare briganti per finanziarsi è irresistibile. Dove al Qaeda attende paziente il suo turno. I tuareg sono padroni in questo Sahara per nulla vuoto, anzi, mai è stato frequentato e attivo come oggi. Un mondo intero si è messo irresistibilmente in movimento, scricchiolano regimi già fragili, frontiere, alleanze, la giuntura tra l’Africa araba e nera, uno dei nodi del mondo.
Chi ha badato a quanto accadeva il 18 ottobre a Tacalotte, una immensa china di sabbia e pietre a 35 chilometri da Kidal, nel Nord del Mali? Chi nelle Cancellerie conosce Tacalotte? Il calore qui sale dal suolo, esce dalle rocce, cade dal cielo, le città sono come imbevute di una tristezza opprimente. Il lieto fine quaggiù è raro come la frescura. Eppure i tuareg stagliano la loro audace silhouette sul loro terreno di prodezze. Qui. Terra loro. Nel deserto. Gente che vive senza far rumore.
Doveva essere una festa, negli interessati propositi delle autorità maliane; festa per soldati tornati a casa, superstiti di un sudicio massacro, di un’epopea senza gloria, sconfitti ma vivi. Un invito all’addio alle armi. Nella polvere si schiera una lunga fila di pick-up, zeppi di guerrieri. Li comanda il colonnello Mohamed Ag Bachir, massiccio, brusco, il turbante degli uomini blu che gli nasconde il volto racconta da solo le tempeste di sabbia, i colpi di sole, le siccità apocalittiche, i massacri. Sono tuareg che fino all’ultimo hanno combattuto a fianco di Gheddafi e che sono riusciti a sganciarsi dalla vendetta degli ex ribelli. Le autorità contano i pick-up, scrutano i volti dei reduci, non nascondono un moto di delusione e di paura. Sì, ci sono 400 reduci dalla guerra di Libia: sono pochi e tutti della tribù Imghad, alleata da tempo dei politicanti di Bamako. E gli altri, gli Ifoghas e gli Chamanamasse, almeno altri duemila combattenti tuareg? Hanno rifiutato e si sono già trincerati nelle colline del Nord-Est, ostili, sospettosi, con le armi in pugno. Non hanno dimenticato quanto accadde nel 2006, quando la «milizia Delta», formata da imghad collaborazionisti, decapitò le speranze di liberare l’Azawad. Perché dicono che gli uomini blu sono dei raminghi. Non è vero: una terra ce l’hanno, senza confini e senza mura, migliaia di chilometri di dune e rocce di fuoco che va dalla Mauritania al Niger, dove si parla il tamasheq. Loro, i cosacchi del Sahara, vogliono essere liberi.
Pochi giorni dopo la festa mancata di Tacalotte, il «Gruppo tuareg per la liberazione dell’Azawad» ha scoperto le carte su un giornale arabo: «Siamo pronti a dichiarare l’indipendenza del Nord del Mali e, se non ci verrà concessa, inizieremo le attività militari contro il governo». L’ultimatum al governo scade oggi: «Migliaia di nostri combattenti sono ritornati dalla Libia, ora fanno parte delle nostre forze armate». La lotta per l’indipendenza ha, dunque, di nuovo un esercito. A Minikia, sempre nel Nord, un altro mondo che sembra morto affranto dalla calura, una folla di giovani tuareg, il sangue ribollente di una giusta indignazione, sono già scesi in strada: implorando le milizie tuareg di proclamare l’indipendenza e difendere la loro terra. A Farak, intanto, si riunivano i capi tribù e i politici tuareg cui il regime ha concesso briciole di rappresentanza e di potere. Anche loro intenti a rimetter fronde alla sobillazione indipendentista. Sanno che nella capitale li odiano, li ritengono gente oziosa, attaccabrighe e arretrata.
La crisi libica esporta la sua infezione attraverso i mercenari. Combattere e uccidere, non sanno fare altro. E la libertà del loro popolo è una causa migliore della terza via universale. Spinti dalla carestia e dalla repressione si rivolsero ai reclutatori di Gao: perché Gheddafi non si fidava del suo esercito, voleva un’armata personale. Sono uomini che hanno attraversato il deserto per fare fortuna e sopravvivere. La maggior parte sono nel bello del gioco. Testa o croce? Hanno bisogno di un’altra guerra.
Fonta: lastampa.it
DOMENICO QUIRICO
Eccola: è l’onda d’urto delle rivoluzioni maghrebine. Le avevamo date per concluse, noi occidentali, astratti raziocinatori, le avevamo applaudite come semplici sbastigliatrici di tiranni. E poi messe da parte. Era appena il primo scossone. Mentre si stanno tingendo di islam Tunisia, Libia e domani Egitto, e Marocco, dallo squarcio il seme si sparge al Sahel, immensa striscia di sabbia, terra di nessuno dove si incrociano contrabbandieri e arruffapopoli con nello zaino il Corano, dove scorrono armi droga sigarette clandestini in cerca dell’Europa, dove la tentazione di diventare briganti per finanziarsi è irresistibile. Dove al Qaeda attende paziente il suo turno. I tuareg sono padroni in questo Sahara per nulla vuoto, anzi, mai è stato frequentato e attivo come oggi. Un mondo intero si è messo irresistibilmente in movimento, scricchiolano regimi già fragili, frontiere, alleanze, la giuntura tra l’Africa araba e nera, uno dei nodi del mondo.
Chi ha badato a quanto accadeva il 18 ottobre a Tacalotte, una immensa china di sabbia e pietre a 35 chilometri da Kidal, nel Nord del Mali? Chi nelle Cancellerie conosce Tacalotte? Il calore qui sale dal suolo, esce dalle rocce, cade dal cielo, le città sono come imbevute di una tristezza opprimente. Il lieto fine quaggiù è raro come la frescura. Eppure i tuareg stagliano la loro audace silhouette sul loro terreno di prodezze. Qui. Terra loro. Nel deserto. Gente che vive senza far rumore.
Doveva essere una festa, negli interessati propositi delle autorità maliane; festa per soldati tornati a casa, superstiti di un sudicio massacro, di un’epopea senza gloria, sconfitti ma vivi. Un invito all’addio alle armi. Nella polvere si schiera una lunga fila di pick-up, zeppi di guerrieri. Li comanda il colonnello Mohamed Ag Bachir, massiccio, brusco, il turbante degli uomini blu che gli nasconde il volto racconta da solo le tempeste di sabbia, i colpi di sole, le siccità apocalittiche, i massacri. Sono tuareg che fino all’ultimo hanno combattuto a fianco di Gheddafi e che sono riusciti a sganciarsi dalla vendetta degli ex ribelli. Le autorità contano i pick-up, scrutano i volti dei reduci, non nascondono un moto di delusione e di paura. Sì, ci sono 400 reduci dalla guerra di Libia: sono pochi e tutti della tribù Imghad, alleata da tempo dei politicanti di Bamako. E gli altri, gli Ifoghas e gli Chamanamasse, almeno altri duemila combattenti tuareg? Hanno rifiutato e si sono già trincerati nelle colline del Nord-Est, ostili, sospettosi, con le armi in pugno. Non hanno dimenticato quanto accadde nel 2006, quando la «milizia Delta», formata da imghad collaborazionisti, decapitò le speranze di liberare l’Azawad. Perché dicono che gli uomini blu sono dei raminghi. Non è vero: una terra ce l’hanno, senza confini e senza mura, migliaia di chilometri di dune e rocce di fuoco che va dalla Mauritania al Niger, dove si parla il tamasheq. Loro, i cosacchi del Sahara, vogliono essere liberi.
Pochi giorni dopo la festa mancata di Tacalotte, il «Gruppo tuareg per la liberazione dell’Azawad» ha scoperto le carte su un giornale arabo: «Siamo pronti a dichiarare l’indipendenza del Nord del Mali e, se non ci verrà concessa, inizieremo le attività militari contro il governo». L’ultimatum al governo scade oggi: «Migliaia di nostri combattenti sono ritornati dalla Libia, ora fanno parte delle nostre forze armate». La lotta per l’indipendenza ha, dunque, di nuovo un esercito. A Minikia, sempre nel Nord, un altro mondo che sembra morto affranto dalla calura, una folla di giovani tuareg, il sangue ribollente di una giusta indignazione, sono già scesi in strada: implorando le milizie tuareg di proclamare l’indipendenza e difendere la loro terra. A Farak, intanto, si riunivano i capi tribù e i politici tuareg cui il regime ha concesso briciole di rappresentanza e di potere. Anche loro intenti a rimetter fronde alla sobillazione indipendentista. Sanno che nella capitale li odiano, li ritengono gente oziosa, attaccabrighe e arretrata.
La crisi libica esporta la sua infezione attraverso i mercenari. Combattere e uccidere, non sanno fare altro. E la libertà del loro popolo è una causa migliore della terza via universale. Spinti dalla carestia e dalla repressione si rivolsero ai reclutatori di Gao: perché Gheddafi non si fidava del suo esercito, voleva un’armata personale. Sono uomini che hanno attraversato il deserto per fare fortuna e sopravvivere. La maggior parte sono nel bello del gioco. Testa o croce? Hanno bisogno di un’altra guerra.
Fonta: lastampa.it