- 21 Marzo 2009
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Il toro, che animale stupendo!
Il toro da combattimento ha le corna ma, se è per questo, le hanno anche i tori delle razze mansuete, le hanno anche le vacche da latte. Quando è libero nella dehesa, nei campi sterminati della Castiglia e dell’Andulsia, il toro selvaggio è indolente come tutti i bovini. Non chiede di meglio che essere lasciato in pace a pascolare. Il timore che suscita è contenuto in ciò che non fa, ma tutti sanno che può fare. A distinguerlo dagli altri bovini c’è soltanto il morrillo, il fascio di muscoli che gli gonfia il collo come una gobba. È quello il segno caratteristico di un animale che, a quattro anni, è capace di scattare al galoppo con la velocità di un purosangue, fermarsi, voltarsi e tornare a caricare senza prendere fiato. Quel fascio di muscoli lo distingue dal toro delle razze da carne che nel resto del mondo viene macellato a diciotto mesi, o anche prima, per fare bistecche.
Il toro selvaggio è in grado di sollevare sulle corna un oggetto di qualunque dimensione e di un peso maggiore del suo, e ha ancora forza sufficiente per scagliarlo a qualche metro di distanza. È potentissimo, sa di esserlo, ed esibisce la sua forza per intimorire l’avversario. Non c’è niente come la carica di un toro per generare il panico. Quando esce dal buio del toril la sua apparizione mescola sentimenti contrastanti: paura, stupore, ammirazione. Non c’è ombra di esagerazione nel fatto che la porta aperta all’ingresso del toro nell’arena si chiama porton de los sustos, portone degli spaventi. Se stare a qualche metro da un toro che pascola in campo aperto è un’esperienza che non si dimentica, per stare fermi quando il toro ti si precipita addosso ci vuole qualcosa di speciale. Ogni torero conosce un “numero” che si chiama recibir al toro a porta gayola e consiste nel mettersi in ginocchio a qualche metro dalla porta del toril, aspettare la carica del toro senza muoversi di un millimetro e ingannarlo con la cappa sventolandola in un largo giro da destra a sinistra. Francisco Ruiz Miguel, un simpatico signore che nella sua vita ha toreato millequattrocento corride e ha ucciso quattrocento tori delle razze più pericolose, racconta che lo scherzetto della porta gayola, lui, l’ha fatto solo una volta in tutta la sua carriera e quando il portone si è aperto gli è sembrato di vedersi venire addosso un autobus.
Ricordo una corrida di Miura: la plaza era gremita di spettatori che avevano pagato il biglietto solo per vedere i tori. Quando si aprì la porta ed entrò nell’arena il quarto esemplare, un mostro di settecento chili con il mantello grigio e con due corna enormi che sembravano attaccapanni, ci fu un boato: ventimila persone scattarono in piedi tutte insieme e applaudirono freneticamente. Al toro era bastato presentarsi per dare un pugno nello stomaco a tutti quanti.
Il toro bravo trascende la sua classificazione zoologica. Con il suo aspetto minaccioso eppure armonico è l’immagine stessa della potenza e simboleggia il mistero come la foresta nelle tragedie di Shakespeare. Può caricare in linea retta con la dichiarata intenzione di travolgerti, ma può anche scartare all’improvviso, fare una finta, scrollare la testa e ficcarti un corno nei testicoli, nei glutei, nel collo, in un piede, dovunque. Il toro è imprevedibile come la vita e, come la vita, può essere anche noioso, prevedibile, scipito. Ma proprio lì, in mezzo alla noia, può capitare che scuota la testa al momento sbagliato, come il tir che corre sull’altra corsia dell’autostrada, sbanda e ti piomba addosso. Il toro è il destino.
Il toro da combattimento ha le corna ma, se è per questo, le hanno anche i tori delle razze mansuete, le hanno anche le vacche da latte. Quando è libero nella dehesa, nei campi sterminati della Castiglia e dell’Andulsia, il toro selvaggio è indolente come tutti i bovini. Non chiede di meglio che essere lasciato in pace a pascolare. Il timore che suscita è contenuto in ciò che non fa, ma tutti sanno che può fare. A distinguerlo dagli altri bovini c’è soltanto il morrillo, il fascio di muscoli che gli gonfia il collo come una gobba. È quello il segno caratteristico di un animale che, a quattro anni, è capace di scattare al galoppo con la velocità di un purosangue, fermarsi, voltarsi e tornare a caricare senza prendere fiato. Quel fascio di muscoli lo distingue dal toro delle razze da carne che nel resto del mondo viene macellato a diciotto mesi, o anche prima, per fare bistecche.
Il toro selvaggio è in grado di sollevare sulle corna un oggetto di qualunque dimensione e di un peso maggiore del suo, e ha ancora forza sufficiente per scagliarlo a qualche metro di distanza. È potentissimo, sa di esserlo, ed esibisce la sua forza per intimorire l’avversario. Non c’è niente come la carica di un toro per generare il panico. Quando esce dal buio del toril la sua apparizione mescola sentimenti contrastanti: paura, stupore, ammirazione. Non c’è ombra di esagerazione nel fatto che la porta aperta all’ingresso del toro nell’arena si chiama porton de los sustos, portone degli spaventi. Se stare a qualche metro da un toro che pascola in campo aperto è un’esperienza che non si dimentica, per stare fermi quando il toro ti si precipita addosso ci vuole qualcosa di speciale. Ogni torero conosce un “numero” che si chiama recibir al toro a porta gayola e consiste nel mettersi in ginocchio a qualche metro dalla porta del toril, aspettare la carica del toro senza muoversi di un millimetro e ingannarlo con la cappa sventolandola in un largo giro da destra a sinistra. Francisco Ruiz Miguel, un simpatico signore che nella sua vita ha toreato millequattrocento corride e ha ucciso quattrocento tori delle razze più pericolose, racconta che lo scherzetto della porta gayola, lui, l’ha fatto solo una volta in tutta la sua carriera e quando il portone si è aperto gli è sembrato di vedersi venire addosso un autobus.
Ricordo una corrida di Miura: la plaza era gremita di spettatori che avevano pagato il biglietto solo per vedere i tori. Quando si aprì la porta ed entrò nell’arena il quarto esemplare, un mostro di settecento chili con il mantello grigio e con due corna enormi che sembravano attaccapanni, ci fu un boato: ventimila persone scattarono in piedi tutte insieme e applaudirono freneticamente. Al toro era bastato presentarsi per dare un pugno nello stomaco a tutti quanti.
Il toro bravo trascende la sua classificazione zoologica. Con il suo aspetto minaccioso eppure armonico è l’immagine stessa della potenza e simboleggia il mistero come la foresta nelle tragedie di Shakespeare. Può caricare in linea retta con la dichiarata intenzione di travolgerti, ma può anche scartare all’improvviso, fare una finta, scrollare la testa e ficcarti un corno nei testicoli, nei glutei, nel collo, in un piede, dovunque. Il toro è imprevedibile come la vita e, come la vita, può essere anche noioso, prevedibile, scipito. Ma proprio lì, in mezzo alla noia, può capitare che scuota la testa al momento sbagliato, come il tir che corre sull’altra corsia dell’autostrada, sbanda e ti piomba addosso. Il toro è il destino.