La tv: cattiva maestra o capro espiatorio?

Kabullino

Utente Master
Autore del topic
4 Aprile 2009
2.356
22
Miglior risposta
0
tv.png

La tv può educare? Sono in pochi a sostenerlo. Eppure quando tra il 1922 e il 1936 John Reith, mitico direttore generale della Bbc, elaborò i compiti del servizio pubblico britannico, indicò al primo posto quello di “educare” i cittadini. Le televisioni pubbliche europee continuano a richiamarsi al progetto di Reith. Sintetizzato nella triade “educare, informare, intrattenere”.
E senza dubbio la tv pubblica ha come suo compito primario la crescita civile e culturale dei cittadini. Perciò non dovrebbe spaventare il proposito di una tv “pedagogica”; sottratta al condizionamento degli inserzionisti pubblicitari. Senza un progetto educativo e comunitario, osservò Marcello Veneziani durante la sua esperienza nel Cda Rai, “gli utenti e soprattutto i minori non vengono lasciati liberi e autogestiti ma in balìa di altre agenzie diseducative”.
Permane tuttavia in molti intellettuali un pregiudizio antitelevisivo. Dovuto soprattutto agli esponenti della Scuola di Francoforte emigrati in America: Theodor Adorno e Max Horkheimer. Ma è nei testi letterari dell’utopia negativa del Novecento che si disegna un futuro di oppressione legato all’avvento della televisione. Se si leggono i romanzi “1984” e “La fattoria degli animali” di George Orwell, e anche “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler, si ha un quadro preciso di come funzionano gli ingranaggi per il controllo del pensiero. Al riguardo il sociologo Neil Postman avvertiva: “quando una popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in balbettio infantile, quando, in breve, un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni affare pubblico in vaudeville, allora la nazione è in pericolo; la morte della cultura è chiaramente una possibilità”. Peraltro, aggiungeva Postman, cinema, dischi e radio sono anch’essi destinati all’intrattenimento. E i loro effetti nell’alterare lo stile del discorso non sono certo insignificanti. Eppure, “la televisione è un’altra cosa, perché racchiude ogni forma di discorso”. Non si va al cinema per informarsi di politica o sulle ultime scoperte scientifiche. Ci si rivolge alla tv. Il modo in cui la televisione presenta il mondo diventa il modello di come il mondo deve presentarsi. Perciò essa è anche immediato bersaglio di critiche.
La televisione è insomma il capro espiatorio dei problemi culturali della società d’oggi. Sono altri media, il cinema prima fra tutti, ad accusare la tv di volgarità e conformismo. Il tema è affrontato da Enrico Menduni, docente al Dams dell’Università di Roma Tre, nel suo ultimo libro: “La grande accusata. La televisione nei romanzi e nel cinema” (edito da Archetipolibri).
“1984” di George Orwell (scritto nel 1949) è il più famoso tra i romanzi distopici del Novecento, il primo dopo l’esplosione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945). Immagina che il mondo sia diviso in tre grandi Stati perennemente in lotta tra loro. La popolazione è divisa in classi. Il Partito controlla tutto. Riscrive il passato. Nell’indottrinamento e nel controllo ha un ruolo fondamentale il “teleschermo”. È acceso in tutte le case e non lo si può spegnere. Si deve continuamente assistere a trasmissioni di propaganda. Trasmette e riceve contemporaneamente tutto ciò che avviene nelle case. Lo schermo può interpellarti e rimproverarti rudemente. Il teleschermo batte le ore come un orologio. Determina come il fischio di una sirena la fine dell’orario di lavoro e dà istruzioni sulla ginnastica mattutina. La televisione appare un mezzo di indottrinamento delle masse. E un’applicazione neotecnologica del Panopticon di Jeremy Bentham. In Orwell sembrano tornare i medesimi giudizi della “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno: “la comunicazione provvede ad uguagliare gli uomini isolandoli”. Il regime sorveglia tutti. Il controllo comprende i comportamenti umani del servilismo e della delazione. Si avvale pure di una cartellonistica presente all’interno di tutte le abitazioni, negli edifici pubblici, per la strada. Il soggetto principale è un’immagine ingrandita del Grande fratello.
In “Fahrenheit 451” di Roy Bradbury (1953) i libri, simboli di inutile complessità e di pericolosa varietà di opinioni, sono proibiti. E bruciati insieme alle case dove sono scoperti. La televisione è a grandezza parete, su tre lati di un’apposita stanza. Lo spettacolo televisivo coincide con la vita stessa: un grande reality show; che non rifugge dalla spettacolarizzazione degli eventi più crudi. Nel sistema commerciale della tv dei primi anni Cinquanta Bradbury già individua la deriva che porterà all’estetica del reality. La televisione, secondo Bradbury, è nemica della memoria. Dipinge l’irrealtà. “Questi romanzi parlano al futuro, presentano innovazioni tecnologiche futuribili ma testimoniano delle dotazioni mediali e delle rispettive pratiche, proprie dell’epoca in cui sono scritti”, rimarca Menduni.
Nei confronti della televisione anche il cinema nutre sentimenti conflittuali. Al punto che si è parlato di una sua “videofobia”. La televisione è connessa con vari traumi: l’abbandono della visione nelle sale per la concorrenza della visione domestica, il prevalere sul piccolo schermo di forme narrative ritenute più approssimative e volgari, la necessità dei “diritti d’antenna” per far quadrare il bilancio dei film (quando non è la stessa tv a fare da produttore). Qual è la prima apparizione della televisione nel cinema? Probabilmente si tratta de “L’inhumaine” di Marcel l’Herbier (1924). Un film muto che in Italia fu distribuito col titolo “Futurismo”. Collaborarono a realizzarlo artisti protagonisti del cubismo e del surrealismo (come il pittore Fernand Léger allora in fase cubista). La televisione ancora non esisteva. È mostrata come un apparecchio del futuro. Essa è vista come mezzo dotato di una bidirezionalità che non avrà mai. Ma che poteva sembrare possibile nell’era del passaggio dalla radiotelegrafia al broadcasting.
In altri film la televisione è descritta come strumento di cinica promozione sociale. La televisione ipnotizza e stordisce, accusano i cineasti. Crea una realtà fittizia e illusoria. Dopo il 1970, negli anni della centralità televisiva, la critica del cinema verso la televisione incorpora un altro tema: la tv sfrutta gli altri. Siano gente comune o i suoi stessi protagonisti. Soprattutto nei loro guai. In cui vede una preziosa risorsa per conquistare ascolto. La tv dà aiuto alle persone comuni. Ma poi le stritola. Non appena cessano di essere funzionali. Come in “Quinto potere” di Sidney Lumet.
Dal viaggio di Menduni tra i film che a vario titolo parlano di televisione emerge la scarsità di testi filmici che bilancino i giudizi negativi. Così trasparenti in tutti i testi. Questi film sono rari. Prevale in essi la nostalgia. Si dedicano infatti alla rivisitazione della televisione della nostra infanzia: come “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974), e “Pleasantville” di Gary Ross (1998).
La tv è in genere presentata come un campo di battaglia per le scorrerie della politica e l’avidità dei pubblicitari. Una sorta di droga che sfrutta il desiderio di comparire di chi cerca vanamente visibilità, ricchezza. O perfino giustizia per i torti subiti. Creando una realtà fittizia, illusoria, effimera. E quindi una forma di volgarità assoluta, trash, spazzatura, corruzione, fiera delle vanità di vario ordine e grado.
La televisione, rileva Menduni, è sopravvissuta a queste critiche. Forte del suo massiccio consenso popolare. Forse addirittura se ne è giovata. Perché comunque si parlava di lei. Inoltre, “divi e dirigenti sono stati narcisisticamente gratificati da questo consenso e ciò non li ha aiutati ad accettare quel tanto o poco di giusto che c’era nelle critiche, anche le più prevenute e malevole”. Così la televisione non è morta, ma è invecchiata. Ha perso centralità nel sistema mediale e fra i giovani, se non ancora nella società nel suo complesso. La tv è “una signora anziana che non fa più paura, né ai bambini, intenti alle loro playstation, né ai giovani che chattano, twittano e postano; una ragazza del secolo scorso un po’ spaesata in un mondo così diverso”.
 
Riferimento: La tv: cattiva maestra o capro espiatorio?

Era un mattone da leggere, comunque rimanendo in ambito televisione sono del parere che la televisione possa aiutare a crescere mentalmente, ma di sicuro non è un oggetto che alla fine deve creare dipendenza, come si suol dire il troppo storpia.
 
Riferimento: La tv: cattiva maestra o capro espiatorio?

Beh , tra documentari e roba varia , la televisione può aggiornarci e avvolte può funzionare meglio di un libro per imparare a persone cose nuove , nuove scoperte e funzionalità del mondo esterno ;)

Di solito guardo documentari di Animali di tantissime specie , e facilmente riesco a memorizzare le informazioni , invece questo non accade quando vado a leggere un libro .