Josè Mourinho torna a parlare delle differenze fra il calcio inglese e quello italiano e lo fa con Jamie Redknapp, ex giocatore, cugino di Frank Lampard nonché commentatore del “Sunday Telegraph” e figlio del più celebre Harry, allenatore del Tottenham. L’occasione è il lancio della trasmissione “Football’s Next Star”, che prende il via questa sera e nella quale Redknapp è il mentore di un gruppo di ragazzini che sperano di vincere un contratto con l’Inter.
“PIU’ FACILE ALLENARE IN INGHILTERRA” — “E’ difficile spiegare cosa significhi allenare un calciatore italiano – spiega Mourinho a Redknapp – perché io non ho tanti italiani in squadra, anzi ne ho solo due o tre. Il nostro nome è “Internazionale” e io alleno giocatori di dieci-dodici nazioni differenti. Immagino sia più facile fare l’allenatore in Inghilterra, perché voi avete un concetto diverso sul ruolo del boss e su quello che significa. In Italia, invece, devi sempre essere al massimo nel gestire le emozioni, perché i giocatori sono molto più liberi di esprimere la loro opinione. Ai tempi del Chelsea, stavo facendo qualcosa di simile anche io, perché non mi piace essere un leader che lavora da solo e voglio che le altre persone si sentano coinvolte in quello che faccio. Ma non era una cosa semplice e ci ho messo del tempo, ma quando ci riesci, poi hai i giocatori in pugno”.
“IN ITALIA CONTA IL RISULTATO” — Quanto all’intensità di gioco, anche qui le distanze fra Premier League e Serie A sono notevoli. “In Inghilterra, c’è maggiore intensità in campo, ma in Italia è più difficile giocare, perché ogni squadra è perfettamente organizzata dal punto di vista tattico. E’ vero, gli ultimi anni in Champions League hanno dimostrato che le squadre italiane non sono sullo stesso livello di quelle inglesi, ma se si sposta il discorso al campionato, si vede come le piccole squadre in Italia siano migliori delle piccole squadre in Inghilterra. Certo, qui non ci si preoccupa della qualità dello spettacolo, ma solo del risultato, tanto che se una squadra viene a San Siro e perde 1-0 senza fare un tiro in porta e pensando solo a difendersi, nessuno ha nulla da ridire. Ma se provate a fare la stessa cosa a Stamford Bridge, avrete solo fischi, perché la mancanza di qualità è sinonimo di mancanza di ambizione. Ecco perché in Italia è più difficile per una grande squadra vincere le partite”.
IL PALLONE DEL PICCOLO JOSE — Il discorso scivola poi sui giovani e si scopre così che in casa Mourinho il figlio Jose Jr. “dorme abbracciato ad un pallone e se lo porta anche a scuola”, perché “la passione è la chiave per ottenere qualunque risultato”. Vero, poi ci vuole anche il talento, “perché senza di quello non ci sono possibilità e alla fine non si va da nessuna parte. La cosa più brutta per un allenatore è dire ad un ragazzino di lasciar perdere con il calcio, è davvero straziante e io l’ho provato quando ero giovane e allenavo gli under 16 e gli under 14 del club della mia città”. Ma c’è di peggio: ovvero, vedere un ragazzo di talento che non capisce la fortuna che gli è capitata. In questo caso, Mourinho non fa nomi, ma il pensiero a Mario Balotelli corre spontaneo.
“MOLTI GIOCATORI NON SI RENDONO CONTO DELLA LORO FORTUNA” — “Ho dei ragazzi all’Inter che non si rendono conto di quanto sono fortunati – sottolinea il tecnico nerazzurro – e mi distrugge quando so di avere un giovane di talento e con delle possibilità, che, però, non lo capisce. Molti lo capiscono quando ormai sono a fine carriera e pensano “ho fatto un errore, ho perso la mia occasione”. Ma come deve essere un calciatore per attirare Mourinho? “Deve avere un mix di qualità: ovvero, ambizione, passione e desiderio, ma ovviamente ci deve essere anche una buona tecnica di base e l’intelligenza tattica di capire l’evoluzione di una partita. Poi sta all’allenatore lavorare su questo materiale e nel giro di un anno o due puoi avere il prodotto finito e sentirti orgoglioso. Un esempio? Davide Santon, che ora ha 18 anni e gioca con la Nazionale italiana, ma che prima dei 16 anni e mezzo non era nessuno”.
Gazzetta.it
“PIU’ FACILE ALLENARE IN INGHILTERRA” — “E’ difficile spiegare cosa significhi allenare un calciatore italiano – spiega Mourinho a Redknapp – perché io non ho tanti italiani in squadra, anzi ne ho solo due o tre. Il nostro nome è “Internazionale” e io alleno giocatori di dieci-dodici nazioni differenti. Immagino sia più facile fare l’allenatore in Inghilterra, perché voi avete un concetto diverso sul ruolo del boss e su quello che significa. In Italia, invece, devi sempre essere al massimo nel gestire le emozioni, perché i giocatori sono molto più liberi di esprimere la loro opinione. Ai tempi del Chelsea, stavo facendo qualcosa di simile anche io, perché non mi piace essere un leader che lavora da solo e voglio che le altre persone si sentano coinvolte in quello che faccio. Ma non era una cosa semplice e ci ho messo del tempo, ma quando ci riesci, poi hai i giocatori in pugno”.
“IN ITALIA CONTA IL RISULTATO” — Quanto all’intensità di gioco, anche qui le distanze fra Premier League e Serie A sono notevoli. “In Inghilterra, c’è maggiore intensità in campo, ma in Italia è più difficile giocare, perché ogni squadra è perfettamente organizzata dal punto di vista tattico. E’ vero, gli ultimi anni in Champions League hanno dimostrato che le squadre italiane non sono sullo stesso livello di quelle inglesi, ma se si sposta il discorso al campionato, si vede come le piccole squadre in Italia siano migliori delle piccole squadre in Inghilterra. Certo, qui non ci si preoccupa della qualità dello spettacolo, ma solo del risultato, tanto che se una squadra viene a San Siro e perde 1-0 senza fare un tiro in porta e pensando solo a difendersi, nessuno ha nulla da ridire. Ma se provate a fare la stessa cosa a Stamford Bridge, avrete solo fischi, perché la mancanza di qualità è sinonimo di mancanza di ambizione. Ecco perché in Italia è più difficile per una grande squadra vincere le partite”.
IL PALLONE DEL PICCOLO JOSE — Il discorso scivola poi sui giovani e si scopre così che in casa Mourinho il figlio Jose Jr. “dorme abbracciato ad un pallone e se lo porta anche a scuola”, perché “la passione è la chiave per ottenere qualunque risultato”. Vero, poi ci vuole anche il talento, “perché senza di quello non ci sono possibilità e alla fine non si va da nessuna parte. La cosa più brutta per un allenatore è dire ad un ragazzino di lasciar perdere con il calcio, è davvero straziante e io l’ho provato quando ero giovane e allenavo gli under 16 e gli under 14 del club della mia città”. Ma c’è di peggio: ovvero, vedere un ragazzo di talento che non capisce la fortuna che gli è capitata. In questo caso, Mourinho non fa nomi, ma il pensiero a Mario Balotelli corre spontaneo.
“MOLTI GIOCATORI NON SI RENDONO CONTO DELLA LORO FORTUNA” — “Ho dei ragazzi all’Inter che non si rendono conto di quanto sono fortunati – sottolinea il tecnico nerazzurro – e mi distrugge quando so di avere un giovane di talento e con delle possibilità, che, però, non lo capisce. Molti lo capiscono quando ormai sono a fine carriera e pensano “ho fatto un errore, ho perso la mia occasione”. Ma come deve essere un calciatore per attirare Mourinho? “Deve avere un mix di qualità: ovvero, ambizione, passione e desiderio, ma ovviamente ci deve essere anche una buona tecnica di base e l’intelligenza tattica di capire l’evoluzione di una partita. Poi sta all’allenatore lavorare su questo materiale e nel giro di un anno o due puoi avere il prodotto finito e sentirti orgoglioso. Un esempio? Davide Santon, che ora ha 18 anni e gioca con la Nazionale italiana, ma che prima dei 16 anni e mezzo non era nessuno”.
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