Info Storia dei generi musicali

Ignazio96

Utente Guru
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9 Marzo 2008
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[SIZE=-1]Dal matrimonio di ritmi, armonie e sonorità del blues, del jazz e del rhythm and blues (variante nera urbana del blues caratterizzata dai ritmi forti e ripetitivi) con la musica popolare dei bianchi d'America, il country, nasce il rock and roll, una miscela esplosiva che sarà alla base di tutta quella che viene definita pop-music. Quale sia l'anno zero del rock poco importa. Tra il 1954 ed il 1955 comunque accadono un paio di cose importanti: un timido giovincello chiede ad un produttore di poter incidere un disco da regalare per il compleanno della mamma, mentre un d.j., Alan Freed, imperversa sulla radio trasmettendo una musica che chiama rock'n'roll. Il giovanotto era Elvis Presley, Sam Phillips era il proprietario dello studio. Quest'ultimo aveva affermato: "Datemi un bianco che canti da nero e io ci faccio su un milione di dollari". Inopinatamente l'aveva trovato. Così inizia la leggenda di Elvis "The King" o "The Pelvis" per il modo provocante di ancheggiare nelle esibizioni: sarà il primo di un'infinita galleria di star con cui i giovani di volta in volta si identificheranno. Seppur di derivazione nera, il rock'n'roll agli inizi è portato al successo dai bianchi. Non è l'unica musica che si suona negli States: oltre alla musica blues ed ai suoi derivati, all'inizio degli anni '60 si accende l'interesse verso il folk. E' l'ora di Dylan. Intanto il fenomeno rock sbarca nel vecchio continente. A Liverpool, praticamente in provincia, appaiono i Beatles: un fenomeno planetario. L'Inghilterra scopre il blues. Il verbo è divulgato da due santoni, Alexis Korner e John Mayall, alla cui corte accorrono giovani musicisti di belle speranze che indicheranno la strada al rock fino alla fine degli anni '70 ed oltre dando vita a gruppi come Rolling Stones, Cream, Fleetwood Mac, Led Zeppelin. Della combriccola fa parte Eric Clapton, il primo grande eroe della chitarra. Poi, curiosamente, il rock ritorna negli States: si parla di "British invasion", vista la capacità delle band inglesi di sbancare le classifiche americane. Il fermento è ormai al massimo: il rock'n'roll di Presley, già riplasmato dai Beatles, arricchito da Dylan, è continuamente influenzato dai caratteri dominanti della musica afro-americana. C'è un vigoroso ritorno del rhythm and blues e trionfano cantanti soul come Otis Redding. I suoni si contaminano; unico segno distintivo: essere la voce dei giovani. La protesta di una generazione arma le canzoni, compare la psichedelia che racchiude l'utopia del sogno giovanile, il rock indurisce i suoni, ma sa diventare grande musica e assoluta poesia. Proprio mentre la Woodstock Nation predica pace, amore e musica, viene scippata di credibilità dall'industria dello spettacolo. Dalle ceneri del sogno calpestato scaturisce però l'energia del punk, che ancora oggi vibra dopo aver rivitalizzato la scena: torna il furore del rock allo stato brado, genuino e sacrosanto. Vecchi ma buoni ritornano antichi menestrelli, segno che l'anima non si è persa né venduta. Anche la musica nera, rispolverata la fierezza della cultura afro-americana, trova la strada del rinnovamento nell'energia del movimento hip hop. Il rock è finalmente cresciuto: la sua maturità è tutta nella dignità e nell'orgoglio di una memoria che ormai gli appartiene. Fonte: Marco Basso[/SIZE]
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La storia del jazz, come quella di molti altri generi musicali popolari, soprattutto quelli che affondano le loro radici nella tradizione degli schiavi afroamericani (primo fra tutti il blues), è assai povera di documenti e riferimenti, in special modo per quanto riguarda le origini e i primi anni. Le prime fonti orali sulla nascita del jazz a New Orleans risalgono ai primi anni del XX secolo mentre le prime fonti scritte al decennio successivo. Il jazz fu creato dagli africani deportati negli Stati Uniti e schiavizzati, che cantavano per alleggerire il lavoro. Il genere si sviluppò in modo esponenziale tra il 1915 e il 1940, diventando la musica da ballo dominante tra il 1930 e il 1940, anni in cui i brani delle big band si trovavano regolarmente ai primi posti delle classifiche. A questo periodo seguirono diversi decenni in cui il jazz si caratterizzò in maniera crescente come una musica d'arte, tipicamente afroamericana. Nel frattempo il pubblico statunitense del jazz si assottigliò, mentre la musica destava un crescente interesse in Europa e nel resto del mondo. Questa tendenza, iniziata col movimento bebop nel 1945, raggiunse l'apice negli anni sessanta con il movimento free jazz, che mirava all'emancipazione totale del musicista. Seguì un periodo di involuzione e di marginalizzazione che terminò negli anni ottanta, durante i quali una generazione di giovani musicisti infuse nuova vita perseguendo diverse tendenze anche in assenza di uno stile dominante: nacquero così diverse scuole di jazz europeo, uno stile main stream, che faceva riferimento al periodo degli anni cinquanta, e diverse contaminazioni che proseguivano l'esperienza fusion arrivando ad uno stile che viene detto acid jazz o che guardavano con interesse a tradizioni musicali etniche in direzione della world music. Anche l'industria discografica tornò ad interessarsi delle sonorità del jazz - se non della sua estetica - promuovendo vari artisti specialisti di smooth jazz, un tipo di jazz estremamente alleggerito. La musica jazz rappresenta oggi circa il 3% della produzione musicale nordamericana,[1] ma ha seguaci in tutto il mondo.
Il nome
L'origine della parola jazz (che veniva originariamente scritta jass) è incerta.[SUP][2][/SUP] Un'ipotesi fa derivare da jass dalla parola di etimologia francese jaser (gracchiare, fare rumore, perfino copulare nel dialetto della Louisiana francofona dell'700).[SUP][3][/SUP] La linea etimologica francese jaser-jass sembra avvalorata dai giornali dalla fine dell'800 al 1918 e dalle testimonianze di musicisti di New Orleans, secondo cui questa musica veniva considerata in ambienti tradizionali come "fracasso", "rumore sgradevole", musica "cacofonica" e perfino "orgia sessuale". In contrasto con questa teoria, recenti testimonianze raccolte tra alcuni musicisti in attività a New Orleans all'inizio del XX secolo indicano che la parola non è stata usata a New Orleans per denotare una musica fino al 1917, quando vi arrivò in una lettera che Freddie Keppard spedì da Chicago a Joe "King" Oliver, che la mostrò al suo protetto Louis Armstrong. Un'ipotesi recente è che la parola abbia una provenienza settentrionale, con le prime attestazioni di uso localizzate nell'area di San Francisco.[SUP][4][/SUP] Il ricercatore Gerald Cohen ha appurato che la parola inizia ad apparire sul giornale San Francisco Chronicle nel 1913, come sinonimo di vigore, energia, effervescenza.[SUP][5][/SUP] Il cronista che la usò l'avrebbe mutuata da un altro cronista, che a usa volta l'avrebbe sentita usare da giocatori di dadi durante una partita. Altri associano la parola jazz al gergale to jizz (jism), parola sconcia che indica la virilità maschile o l'atto di eiaculare. Così per alcuni jazz music sarebbe quindi stata "musica da eiaculazione" per la sua presenza nei bordelli, per altri avrebbe inizialmente significato "musica da poco" ovvero - in positivo - "musica effervescente". Se anche questo fosse vero, è molto probabile che questa associazione si fosse persa nel 1913 o difficilmente la parola sarebbe stata stampata su un quotidiano. Ad ogni modo dopo che la parola "jazz" fu resa famosa, essa si arricchì rapidamente di connotazioni anche negative al punto da essere talvolta utilizzata come epiteto: un noto esempio è un articolo molto critico del "Times Picayune". Altri ritengono che la parola jazz derivi da Jar che in inglese significa vaso. In effetti i primissimi suonatori di colore usavano dei vasi rovesciati come delle percussioni da cui dall'inglese "to play jares" suonare dei vasi, delle giare, oppure dei barattoli. Suonare con dei vasi la cui pronuncia è la stessa di "to play jazz". Pian piano sarebbe diventato appunto Jazz Fonte : Wikipedia
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Definizione del termine metal Il metal è una specie musicale del genere rock (come tale, si fa con tre strumenti: chitarra, basso, batteria) propria degli anni 80, che si caratterizza: ideologicamente per una concezione morbosamente e irrimediabilmente pessimistica (da qui l'adozione sistematica e ossessiva del colore "nero"), quando non per ritorsione sadica, della condizione umana e naturale viste come vortici di forze brute talora manicheamente (metal), talora nichilisticamente (heavy metal) intese, comunque sempre basate su una legge del male che appare come costitutiva all'esistenza; musicalmente il metal si caratterizza per uno sviluppo oltranzista della violenza e della velocità ritmica e timbrica del filone hard-rock anni 70, connotato invece da un approccio alla vita più ottimistico ed edonistico, nonché reazionario e attivo, stato che finisce per essere quello opposto e antitetico al metal. Il metal è una musica epica: l'uomo è al centro del cosmo (quando, nelle versioni metal più raffinate e heavy non viene preso a soggetto il cosmo in quanto tale trapassando da un pessimismo storico a uno cosmico) e tutte le forze costituenti quest'ultimo si adoperano programmaticamente per far dannare il primo che volente o nolente, sia per vivere che per morire, deve combattere e farlo all'insegna di un'etica e una nobiltà di fondo e para-religiosa ignara al, e avversata dal, punk. Il messaggio metal finale è magniloquente ed enfatico quando non retorico: propugna ed esige una sopravvivenza incondizionata anche se contro tutto e tutti ovvero proprio perché contro tutto e tutti. Storia e fenomenologia del metal Il metal contrariamente al punk (= Sex Pistols) non fu una rivoluzione ma una lenta evoluzione che parte dalla fine degli anni 60 (Deep Purple) benché si sia affrancato rivoluzionariamente dalla propria preistoria soltanto ad inizio anni 80 e con album e con artisti ben definiti. Come quella punk, quella metal fu una rivoluzione concettuale e musicale, in una parola "culturale". Solo che essendo due culture diverse, l'una del "live fast and die young" (Circle Jerks), l'altra del "born to lose, live to win" (Motorhead) si estrinsecarono l'una in una stagione (1977), l'altra, dopo una decade di preparazione (anni 70), in un'altra decade almeno (anni 80). Tecnicamente le prime avvisaglie metal (e dunque "altro" da esso) si ebbero in Inghilterra con i Deep Purple (vedi "In Rock", 1970) del chitarrista pirotecnico Ritchie Blackmore, che a forza di iniezioni di inusitata velocità e potenza hard-rock al progressive-rock (Cream) si spinsero dove nessuno fino ad allora aveva mai osato giungere, qualificandosi come la band più rumorosa ed estremista dell'epoca (tutti i componenti del gruppo danno, letteralmente, il massimo nelle loro performance). I testi "scorretti", anti-peace&love, preludono già a quelli che saranno i fasti metallici (fuoco, velocità, esplosione, violenza, male, dimensione cosmica) pur non calandosi ancora nell' "altro mondo", quello delle tenebre (a dire dei metallari, la verità esplicata di questo). Le tastiere che tanta parte hanno nel suono maligno e "in flambé" dei Deep Purple saranno successivamente adottate solo dai complessi metal meno ortodossi e in definitiva meno metal. Se i Deep Purple iniziarono a dare l'ABC tecnico, i Black Sabbath (vedi "Paranoid", 1970), inglesi anche loro, dettero quello contenutistico. A parte il significantissimo apporto alla tecnica-metal di Tony Iommy, che fu il primo a sortire dalla chitarra un suono sistematicamente oscuro, mefistofelico, opprimente, potente, i Black Sabbath furono seminali per quell'aura diabolica che immisero nel mondo rock. Con loro per primi si giunge a quell'universo parallelo, fatto di male, mostri e maledizioni, le immagini eclatanti ed espressionistiche del quale devono servire come allegoria per la comprensione della reale costituzione del mondo quotidiano. I primi a usare la tecnica violenta e tagliente deepurpleiana (a cui aggiunsero l'uso sistematico del doppio pedale alla batteria, simbolo nonché espediente metal per eccellenza) per descrivere il vivere morendo in una necessaria consacrazione alle forze del male proprio dell'universo sabbathiano, furono ancora degli inglesi, i Judas Priest (vedi "Sad Wings Of Destiny", 1976). Mentre come primo gruppo di rilievo proto-metal (specificatamente precursore del progressive-metal) d'oltreoceano si stavano qualificando i canadesi Rush (vedi "2112", 1976), che costruivano un mondo parallelo sì, ma non stregonesco come quello sabbathiano, bensì fantascientifico e, talora, paradisiaco, i Rainbow di Blackmore e Ronnie James Dio portavano all'apice epico (ed ecco l'influenza sabbathiana) la lezione deepurpeliana (vedi "Rising", 1976 ribadito da Dio con "Holy Diver", 1983). Contemporaneamente, mentre il 1976 si era rivelato come l'anno più importante per la preistoria del metal, l'Inghilterra vedeva l'attività di uno spregiudicato gruppo che, forte di tecniche di derivazione fondamentalmente garage-rock quando non rhythm and blues, sortiva i medesimi, se non maggiori, efferati effetti dei gruppi metal, partendo da una dimensione punk (dunque nichilista e non manichea) da sempre estranea e opposta alla congerie metal: erano i Motorhead (vedi "No Sleep 'Til Hammersmith", 1981) i primi a portare il metallo a uso e consumo della descrizione di frustrazioni (per via della svalutazione di tutti i valori) e mali del tutto realistici e quotidiani: saranno seguiti dai newyorkesi Plasmatics, piglio punk e suoni metal, di una delle voci più evocative e terrificanti della storia: Wendy Williams (vedi "Beyond The Valley Of 1984", 1981). Pur per diversi (i primi per la dimensione "punk"; i secondi per quella "underground") motivi ideologicamente non riducibili al filone metal, fondamentali per la sua evoluzione oltranzista furono due dei gruppi più influenti della storia del rock: i D.R.I. che con il loro hardcore supersonico e miniaturizzato ne dettarono la velocità (vedi "Dirty Rotten LP", 1983: l'album più veloce/violento di sempre), e gli Swans che con il loro industrial da cantautorato per zombie possono essere considerati il gruppo dal suono più pesante di tutti i tempi (vedi "Filth", che non solo nel 1983 quando uscì, ma ancor oggi può essere annoverato tra i dischi più estremi in assoluto). Molti gruppi di rilievo e in grado di comporre memorabili brani, tra fine 70 e inizio 80, tentarono di arricchire ed evolvere la lezione dei maestri. Fecero mille passi avanti verso la codificazione del metal (in alcuni brani già tale), ma senza tuttavia riuscire (tramite una significativa opera culturale: un album) a segnare un giro di volta decisivo e radicale come accadrà ad inizio '80 (giro di volta che chiederà del tempo prima di essere assimilato: lo dimostrano i vari gruppi tra metal e hard-rock attivi per tutti gli anni 80 come i newyorkesi Twisted Sister di "Stay Hungry", o i losangelesi "Wasp" dell'omonimo album, entrambi nel 1984). Questi gruppi furono (non a caso, vedi i maestri) tutti inglesi e furono detti far parte del movimento "NWOBHM" (New Wave Of British Heavy Metal), la versione metal del dark di fine '70: erano i rockelleggianti Saxon (vedi "Wheels Of Steel", 1980), le meteore Diamond Head (vedi "Lightning To The Nation", 1980) in grado di fare un album compositivamente tra i più straordinari del rock tutto, ma penalizzati da una produzione scadentissima e da un suono troppo anni '70 (eseguite diversamente, vedi i Metallica, le scritture di questi brani sono già in tutto e per tutto heavy metal), i blacksabbathiani Angelwitch (vedi "Angelwitch", 1980). Fra costoro, all'inizio, fu annoverato anche il gruppo che a posteriori può essere considerato come il primo istituzionalizzatore in assoluto del metal classico: i londinesi Iron Maiden (vedi "Iron Maiden", 1980) che sublimarono contenutisticamente e formalmente la lezione di Black Sabbath e Judas Priest: dopo di loro nessun album potrà dirsi metal se non prenderà come punto di riferimento i dettami (velocità, violenza, impianto sinfonico, testi e copertine horror) da loro stabiliti. Gli Iron Maiden furono l'ultima e più matura propaggine partita dall'evoluzione del Deep Purple sound. Fino al 1980 il metal può essere considerato come un qualcosa di eminentemente inglese. Come il punk. L'America a quest'ultimo stava rispondendo con l'hardcore. Via hardcore troverà forma anche il "metal americano" (poi per estensione "heavy metal"). Prima di giungere a quel fatidico 1983, tre anni di espansione del discorso metal in tutto il mondo nonché di seminali quanto non decisivi ulteriori progressi (soprattutto in campo tematico) da parte di una serie di band storiche e indimenticabili: i tedeschi Accept (vedi "Restless & Wild", 1982) e Scorpions (vedi "Blackout", 1982) molto legati all'hard-rock vecchio stile tuttavia eccellenti per alcuni brani d' "avanguardia metallica": i primi predissero quello che sarà il "power-metal", i secondi si avvalsero di tecniche di registrazione in grado di dare un suono terrificante e inusitatamente brutale per l'epoca (battuto solo da quello dei Motorhead); gli americani Warlord gettarono le basi del power-epic-metal (vedi "Deliver Us", 1982), gli inglesi Venom (vedi "Black Metal", 1982) introdussero per primi l'espediente vocale del "topo-in-gola" e si distinsero per una veloce-violenza giù preludente i Metallica nonché per un satanismo feticistico e spettacolare; i canadesi Exciter (vedi "Violence & Force", 1983) consolidarono la preistoria del power-epic-metal che sarà, intensificando e semplificando vari espedienti Judas Priest; gli americani Motley Crue (vedi "Too Fast For Love", 1982) sono tematicamente (causa "edonismo") un gruppo hard-rock come gli Scorpions ma come questi hanno avuto un qualche ruolo nell'evoluzione del metal grazie a un suono senza compromessi, di una violenza, pesantezza e velocità mai sentite prima e ancor oggi (tra i pochi) in grado di assordare letteralmente l'udito. Dopo che il 1982 era stato per il metal quello che fu il 1966 per il rock (proto-tutto ma ancora nulla di esplicitato prima dell'annus mirabilis 1967) nel 1983 i losangelesi Metallica fondano hardcore americano e metal inglese (già i Motorhead avevano avuto un'intuizione simile benché in modo meno sistematico e benché avessero avuto a disposizione esclusivamente garage-rock, hard-rock e rhythm and blues), compiendo una rivoluzione pari solo a quella dei Sex Pistols. L' "heavy metal" si differenzia dal "metal" non soltanto (almeno agli inizi) geograficamente ma fondamentalmente per quell'"heavy" in più, qualcosa di apparentemente semplice ma che il rock ha impiegato quasi 20 anni per attuare. L'estremo si fa carne: velocità, potenza, ossessività, percussività compiute e formalizzate alla perfezione. Possiamo parlare di invenzione senza alcun dubbio. Il prima, in campo "heavy" può essere detto un niente. Dalle tematiche, per quanto orride, comunque "fantastiche", per quanto alla ricerca di una interpretazione del nostro modo figurativamente attraverso un mondo parallelo degli Iron Maiden, si passa a puri concetti: realtà concrete in quanto universali e facenti tanto più paura e riflettere in quanto inchiodate sul punto del nichilismo, della morte, della sofferenza, del male di vivere. Per la prima volta non si reagisce più. Nemmeno il punk era arrivato a tanto. Nel punk si moriva veloce ma almeno prima si viveva qui (ed è lezione del "disumano" hardcore) viene messa in dubbio la consistenza ed il valore della vita in quanto tale. "Kill 'Em All" inventa il "thrash-metal" e lo "speed-metal" talora considerati come sottogruppi dell'"heavy-metal" (quindi ancora non siamo propriamente giunti all'"heavy metal" istituzionalizzato) ma che è più giusto tenere distinti da questo (dato che di questo vi è un esempio concreto e differente dal presente). Il "thrash-metal" è la versione più estrema meno melodiosa più essenziale del metal inizio 80. Forte di una particolare tecnica alla chitarra ritmica ("palm muting"), può dirsi la versione metal dell'hardcore dei D.R.I. (salvo identificare anche il suono di questi come thrash). Brani relativamente brevi (3-4 minuti) liriche-manifesto e di ambientazione metropolitana, trascuratezza negli arrangiamenti: tutti devono "picchiare" ("to thrash") i loro strumenti nel modo più violento e ossessivo possibile (come un battipanni o una mitragliatrice, a seconda dei casi), poi un agonia di ritornello che ad altri volumi potrebbe dirsi quasi melodioso e quasi rock: comunque rigorosamente nessuno stacco, nessun rallentamento. Per questi c'è lo "speed-metal" che è una forma perfezionata, articolata, nobilitata e retoricamente arricchita del "thrash": la batteria inizia a dialogare con gli altri strumenti che si lanciano in assoli distinguibili e più o meno hard-rock, le tematiche possono essere delle più varie e narrative, i tempi dei brani si allungano (spesso sopra i 5 minuti). Lo speed richiede, oltre che ovviamente una grande velocità esecutiva, anche un'elevata tecnica: il suo suono è più chiaro, preciso e pulito di quello del thrash e le note devono essere riconoscibili. Sia speed che thrash nacquero in contrapposizione al "melodico" NWOBHM, in uno scontro che può vedersi come quello tra città e campagna, nuovo e vecchio, realtà e fantasia, brutto e bello, e nichilismo manicheismo. Con "Ride The Lightning" (1984) i Metallica inventano l'heavy metal sintetizzando speed e thrash all'interno di un unico brano che così diventa: lungo (sopra i 5 minuti), potente e veloce (ma spesso in alternanza di piano/forte fino a giungere a parti acustiche), tecnico, cantato senza urla punk, ma con compostezza più epica seppur non meno brutale: le tematiche esplicano concetti in esempi contestualizzati e non sono più o non solo un'arringa punk. Nata la matrice si aspettano le varianti. Prima di queste però vi sono ancora varie fasi intermedie. Dall'altra parte dell'America i newyorkesi Manowar (estranei anche geograficamente all'hardcore) parallelamente ai Metallica seguivano la loro via al metal, giungendo a sonorità per intensità pari a quelle dei Venom e quindi tra le più brutali in assoluto. Anche a livello di ideologia i Manowar si presentarono subito come portavoci di un mondo parallelo, come la scuola metal inglese più ortodossa (elusi quindi i suoi elementi più hard-rock) voleva, e non come diretti interessati al reale (salvo diventare il loro mondo come tale o comunque interpretante questo). All'inizio praticarono la loro missione ancora imbrigliati dall'hardrock ma già sul secondo album-capolavoro (vedi "Into Glory Ride", 1983) approdarono a un heavy-metal (poi detto "epico", ma ancora molto "esistenziale" cioè non d'evasione e quindi con tanto più valore concettuale) loro peculiare: né thrash, né speed, né Metallica. Tuttavia, come accade nelle invenzioni scientifiche coeve e indipendenti, il futuro metal si baserà tutto sui Metallica (che così possono esserne detti i padri), mentre solo una branca di questo (l'"epic") si richiamerà ai Manowar che all'inizio "epic" non erano (né formalmente: molto meno power; né contenutisticamente: molto più interessati alla realtà) e in ogni caso passerà sempre attraverso la scuola Metallica. Oltre che sui Manowar i Metallica vinceranno anche sugli Iron Maiden, essenziale più di tutti ponte di unione tra vecchio e nuovo, tuttavia storicamente succube di una sorte simile (anche l'impianto tra realtà e fantasia, epos e quotidiano, del gruppo era simile) ai Manowar. Era una veloce violenza ciò che i Metallica avevano più di tutti gli altri e che costituirà l'ABC per il metal a venire (soprattutto degli anni 90) che può configurarsi così come una seri di sottospecie dell'heavy. Prima di questo avvenire troviamo il caso inglese dei blacksabbathiani Mercyful Fate, un gruppo combattuto tra vecchio e nuovo perché nato nel bel mezzo della rivoluzione Metallica, che dimostra (a tanto maggiore merito dei Metallica) con un album capolavoro (vedi "Melissa", 1983) come era più facile evolversi in campo "power" che in quello "thrash-speed". Agli inglesi, come ai newyorkesi, era l'hardcore quello che mancava o che non sapevano utilizzare in funzione metal. Per lungo tempo (fino a che non v'è stata un'inconscia interiorizzazione ad inizio '90 allorché si è capito che i medesimi contenuti potevano essere espressi tanto più agevolmente quanta più forza e potenza si aveva a disposizione) l'heavy si è identificato con il trash e lo speed contrapponendosi al power e all'epic che si rifacevano al metal classico degli Iron Maiden. La metà degli anni 80 è l'epoca d'oro per il thrash e lo speed, soprattutto in America, dove operano i thrasher Exodus (vedi "Bonded By Blood", 1985) e i Megadeth dell'ex membro dei Metallica Dave Mustaine (vedi "Peace Sells... But Who's Buying, 1986). In Germania notevolissimi sono i Kreator (vedi "Pleasure To Kill", 1986). Il 1985 rappresenta un giro di boa dopo il quale vi sarà per cinque anni una concentrazione di gruppi rivoluzionari in grado di usare lo strumento-Metallica per i più svariati fini, tutti comunque imperniati verso una violenza e potenza sempre più crescente di suono. In questa galleria verso il raggiungimento del suono oltre il quale è concepibile solo il disumano, troviamo per primi i maestri del thrash Slayer, losangelesi (non a caso), in grado di giungere (forti di un batterista eccezionale: Dave Lombardo) dove nessuno era mai riuscito prima e di consacrare definitivamente la fusion hardcore-metal: come se i Metallica interpretassero i D.R.I: "Reign In Blood" (1986) è l'album rock più estremo di tutti i tempi. Contemporaneamente, viene fuori il fattore "scandinavo": come c'è stato il NWOBHM ecco lo "scandinavian metal": un filone che giunge fino ai nostri giorni e che ha fato la parte del leone in campo metal per tutto questo periodo. Ciò grazie alla sua estremità, a partire dalla quale (essendo un limite o tetto) possono essere modulate tutte le ambientazioni e applicazioni desiderate. Al fondo, vi è il concetto "fantasioso" Black Sabbath (estraneo ai "realisti" Metallica) di un mondo mefistofelico popolato di forze maligne leggendarie e sanguinarie, epiche e sadiche (si noti: mentre Black Sabbath e Iron Maiden erano grandi proprio perché mantenevano o usavano i mondi paralleli per spiegare il nostro, qui la corrispondenza viene a mancare e il nostro mondo non offre più alcun interesse). Più che un mondo d'evasione si crea un mondo di tortura, nel migliore dei casi buono come elemento catartico per gli stress del nostro: suoni e voci (vedi "topo-in-gola") estremi e da incubo, battaglia o tortura. Un martellare e persistere poi in questi che quando riesce sfigura la realtà sbaragliandone l'essenza più profonda e brutale, quando non rimane (come in tante band di oggi) un fine a se stesso stupido e impacciato. Ai tempi di nascita il filone "black" (poi, nella sua variante più "urbana" ed estremista "death") fu una grande rivoluzione (chissà se i padri Venom sarebbero arrivati a tanto con altri mezzi a disposizione?) e tanto più quanto veniva da terre fredde ed estranee oltre che dal centro della civiltà occidentale, dal rock. I Bathory erano svedesi (vedi "Under The Sign Of The Black Mark", 1986), i Mayhem norvegesi e i primi dopo gli ispiratori Mercyful Fate (il cui leader King Diamond nel 1986 dà l'atmosferico power-sabbath di "Fatal Portrait") per davvero satanici (vedi "Deathcrush", 1987). Seme per il filone estremo ed epico-satanico-gotico venne da un'altra terra sorprendente: la Svizzera; si incarnò nei Celtic Frost (vedi "Into The Pandemonium", 1987). Gli svedesi Candlemass (vedi "Nightfall", 1987) impreziosiscono il dark-metal inventando l'"epic" moderno da cui deriverà il "progressive-metal" di oggi (debitore anche del power-speed dei tedeschi Halloween, di cui vedi "Walls Of Jericho", 1986) che tecnicamente deve molto alla magniloquenza chitarristica neoclassica dello svedese (. guarda un po') Malmsteen (vedi "Rising Force", 1984). Mentre i newyorkesi Antrax tengono alto impreziosendolo lo stato thrash (vedi "Among The Living", 1987), l'estremismo sonoro si libera dalla gabbia feticistico-satanico-epica delle terre scandinave per tornare agli incubi cittadini e a un realismo espressionistico trucemente ossessivo e pervasivo, che vede l'essenza del tutto in una cieca conflagrazione di forze guidate dal caso: dalla Florida i Death (che ripartono dal "dark" dei Bathory e dei Mayhem) trasfigurano violentandolo il thrash e fanno uso sistematico dell'effetto vocale (il rantolo gutturale e profondo tutto-deformante bestiale e autodistruttivo in un'autodistruzione che è necessità di sopravvivere come necessità del patire proprio del metal-estremo) "topo-in-gola" inventando il "death metal" (vedi "Leprosy", 1988); gli inglesi Napalm Death (i primi della madrepatria ad accogliere la lezione fusion metal-hardcore) inventano fondendo death (topo-in-gola), thrash e hardcore il "grind-metal" (vedi "Scum", 1987). Intanto i Testament da San Francisco mantengono alte le sorti dell'heavy metal più ortodosso comunque impreziosito di toni epico-retorici (vedi "The Legacy", 1987), i canadesi Voivod portano (con cambiamenti di tempo vertiginosi, partiture geometriche e ipnotiche, modi disumani, apatici ed extraterrestri) l'heavy (di cui dimostrano la versatilità, e della cui violenza si servono solo quando serve) a vertici post-industriali atti a esprimere contenuti post-mederni (vedi "Nothingface", 1989), e i losangeliani Jane's Addiction giocano sul metal a mezzo funk e cabaret per un'ironia amara e alienata che vuole rappresentare la malinconia esistenziale (vedi "Nothing's Shocking", 1988). Il metal può dirsi concluso nella sua missione con l'opera di cinque gruppi che portano alle estreme e insuperabili conseguenze la sua scala evolutiva verso sonorità sempre più violente, veloci e disumane: gli svedesi Entombed applicarono il "death" a mezzo onnicomprensivo di espressione deformante dei più svariati contenuti (nella fattispecie horror-fantasy pur sempre attaccati alla realtà: vedi "Left And Path", 1989); i Carcass svilupparono il "grind-metal" inglese incorniciandolo nelle nefandezze di una sala operatoria sadica e post-industriale con un suono così estremo in termini di velocità e ossessività potente da, risultando intelligibile, sortire quasi l'effetto contrario (vedi "Necroticism: Descanting The Insalubrious, 1991); i losangelesi Dark Angel del misantropo e complessato batterista Gene Hoglan, tra death e thrash realizzarono un tour de force infernali tra i più estremi alienati e disumani della storia e tutto imperniato nella vita tragica e mostruosa metropolitana (vedi "Times Does Not Heal", 1991); i texani Pantera sono i padri del metal-rock del 2000 (senza senso detto "nu-metal") innestando in un impianto death-thrash espedienti e tematiche american-hard rock (nessun mondo parallelo: solo realtà e della più cruda) con un aggressivo e oltraggioso speaking-rap (vedi "Vulgar Display Of Power", 1992); gli inglesi inventori del "gothic" (altra applicazione del "death" di grande diffusione tra le band in cerca di mondi paralleli e fantasy nell'ultimo decennio) furono i Paradise Lost (vedi "Gothic", 1991). Negli anni 90 sono stati resi solo più popolari e fruibili (facili nel messaggio) i vari filoni metal già espressi negli anni 80. Questi erano sostanzialmente riconducibili a tre: metal classico (da cui prenderà le mosse il power-epic e solo qualche cadenza il pur permanente metal-hard rock tradizionale), heavy metal (nelle sue varianti speed e thrash) e death metal (con il seguito di dark e grind). Se negli anni 80 il metal-medio era quello thrash, negli anni 90 divenne quello power-progressive. Il progressive (reso famoso dai Queensryche e commerciale dai Dream Theater a fine anni 80, che lo presero da Accept, Malmsteen, Mercyful Fate e Halloween) è un filone enfatico e magniloquente che si basa su tecnicismi vocali (il falsetto) e strumentali (uno speed da scuola e spesso fine a se stesso) per declamare un pomposo post-romanticismo conteso tra ambientazioni epico-fantastiche e metropolitane-hard rock. Nella sua variante epic-power è un pullulare, sulla scorta della new-age, di storie-ambientazioni ripescate qua e là dagli scrittori fantasy, comunque situazionalmente più apprezzabili di quando il progressive fa il romantico-retorico coll'hard-rock. Si veda per l'epic-power i sinfonici tedeschi Blind Guardian di "Nightfall In The Middle-Heart" (1998) e per il progressive-fantasy gli svedesi Stratovarious di "Visions" (1997). Sempre nel settore "mondi-paralleli" pur non inventando nulla di nuovo, si distinsero nel "post-metal" per particolari lavori apprezzabili attualizzatori del "doom" sabbathiano (l'effetto chitarristico inventato da Iommy che dà al suono quell'incedere scuro, lento e stregonesco) gli inglesi e molto affascinanti nel loro compromesso tra romanticismo e attualità Anathema (vedi "The Silent Enigma", 1995) e i portoghesi e black gothic Moonspell (vedi "Wolfheart", 1995). Più decisi sul black-metal satanico e sinfonico gli svedesi Emperor (vedi "In The Nightside Eclipse", 1995). Alla "scuola di Goteborg" appartiene il death-metal essenziale ed esistenzialistica (molto hardcore) degli At The Gates (vedi il capolavoro "Slaughter Of The Soul", 1995) considerabili come l'ultima metal-band della storia. Dalla parte esistenzialistica-realistico-concettuale prendono le mosse dagli estremisti underground-noise Helmet (vedi il capolavoro nichilista-Swans "Strap It On", 1990) e Pantera (metal-industrial-hardcore-rap per cui vedi "Vulgar Display Of Power", 1992) le più dirette fonti di copiatura dei nu-metal attuali (siamo in ambiente americano): i Korn (vedi "Korn", 1994) e i Deftones (vedi "Around The Fur", 1997) in grado di fare occasionalmente ottime e catartiche composizioni, e preceduti dai più rock-rap Rage Against The Machine ("Rage Against The Machine", 1992). In questo medesimo contesto, un discorso a parte meritano i floriadiani Marilyn Manson, che hanno riproposto l'estremo garage-rock (vedi Stooges) dei Plasmatics in chiave post-moderna (vedi il metal-industrial, ispirato dagli Swans, dei Nine Inch Nails di "Pretty Hate Machine", 1989) tra esistenzialismo (vero) ed esaltazione sovrannaturale (più o meno truccata) comunque sempre sotto l'egida di un nichilismo totale e irremovibile (vedi "AntiChrist Superstar", 1996). Il thrash enfatico dei Testament viene ottimamente "industrializzato" verso il post-modernismo dagli americani Machine Head ("Burn In My Eyes", 1993) e Fear Factory ("Demanufacture", 1995), reso addirittura "etnico" dai brasiliani Sepultura ("Roots", 1996). Eccelsi prodotti post-metal hanno poi dato due gruppi newyorkesi nati a metà anni 80: gli alienati, nichilisti al pari solo dei padri "industrial" Swans, Prong (vedi il capolavoro "totale" falcidiante e scoratissimo "Rude Awakening", 1996) e i classic-metal/hard rock Savatage del concept tanto enfatico quanto riuscito "Streets" (1991). Pienamente d'epoca post-metal possono essere considerati i newyorkesi Type O Negative (vedi "Slow, Deep And Hard", 1991) che con il loro underground-industrial-gotico fanno però l'opposto degli altri complessi post-metal (basandosi comunque sulla lezione del sinfonico-thrash dei nichilisti ed erotomani post-era-industriale Dark Angel): mentre questi semplificano enfatizzandoli e contaminandoli (rendendoli in definitiva più "chiari" e "diretti", in forza anche di un generale progresso squisitamente tecnico soprattutto in fase di registrazione e amplificazione) gli stilemi metal anni 80, il post-metal Type O Negative, molto debitore della no-wave e del noise, può essere considerato come uno "slow-metal" in "lo-fi" più vicino ai Pussy Galore o agli Slint che ai Death: o come se questi rifacessero i primi; più vicino all'atteggiamento nichilista in sordina post-rock (Fugazi, Jesus Lizard) che al nichilismo esplosivo (e non implosivo) post-metal (Korn, Fear Factory). Gli album post '91 possono essere considerati la risposta post-metal al post-rock di Fugazi, Jesus Lizard e Jon Spencer Blues Explosion. Il post-metal ha commercialmente spopolato nelle sue varianti progressive-power (soprattutto) e death-black, e ancor oggi con il nu-metal che, non sapendo più cosa prendere, è ritornato al vecchio rock-rap peraltro tuttora (anche se stancamente) in voga. Ed è sicuramente più popolare il post-metal del post-rock, visto questo come musica "alternativa": infatti il post-rock deve vedersela con l'onda commerciale delle petulanti rock-band retrò attuali, mentre il post-metal (ovviamente ritenuto new-metal) non ha un movimento a sé esterno che si rifaccia più direttamente, e in modo da plagiarli, ai classici. Tutti i gruppi non menzionati in questa scheda sono da ritenersi o non-metal o non importanti per lo sviluppo del genere.

Fonte: Ondarock
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David Bowie è David Jones, aspirante star del pop nel nascente circuito mod londinese. I suoi King Bees pubblicano un singolo, “Liza Jane”, nel 1964, ma David li abbandona subito dopo per unirsi ai Manish Boys con i quali registra “I Pity The Fool”. Nessuno dei due brani, tuttavia, sale in classifica e, così, il vagabondo Jones passa ai Lower Third. “Can’t Help Thinking About Me” esce su etichetta Pye nel 1966, ma nessuno sembra notare il nuovo pezzo. Sconfortato, David decide di dedicarsi solo a se stesso e, nel 1967, ottiene dalla Deram il permesso di registrare un primo album. Da “David Bowie” viene estratto il singolo “Love You Till Tuesday” che, prevedibilmente, non riesce a guadagnare alcun riconoscimento. La svolta, tuttavia, arriva ad agosto quando David incontra l’artista-mimo Lindsay Kemp e, ispirato dal capolavoro di Stanley Kubrick “2001: Odissea Nello Spazio”, inizia a scrivere nuovo materiale per un album successivo. Quando, nel 1968, viene pubblicato l’immaginifico singolo “Space Oddity”, le riviste specializzate entrano in fermento così come le vendite, spinte dalla trovata della Bbc di usare il brano come colonna sonora dell’atterraggio sulla luna da parte degli Stati Uniti. Sulle ali dell’entusiasmo, Bowie forma una nuova band, gli Hype, nel 1970 e pubblica, dedicato a sua moglie Angie, il singolo “Prettiest Star”. E’ il preludio all’inquietante disco “The Man Who Sold The World” sulla cui copertina David indossa uno sgargiante vestito femmineo. La Grande Confusione è alle porte. Marc Bolan è Marc Feld, esuberante modello per la rivista Town con una sola ambizione: essere lo specchio patinato della nuova tendenza mod. La sua prima incarnazione musicale è Toby Tyler per poi trasformarsi nuovamente in Marc Bolan e firmare un contratto per la Decca, pubblicando il singolo “The Wizard” nel 1965. Il brano va a vuoto nelle classifiche così come i successivi “The Third Degree” e “Hippy Gumbo”. Nel 1967 Marc firma per la Track e si unisce ai John’s Children, band imbevuta di pop psichedelico, diventando subito il loro principale autore. “Desdemona” viene apprezzato dagli addetti ai lavori, ma non ottiene alcun esito commerciale, costringendo i John’s Children a sciogliersi. Bolan si unisce, così, al percussionista Steve “Peregrine” Took e forma un duo acustico a nome Tyrannosaurus Rex. Le influenze hippy dell’estate dell’amore si fanno immediatamente sentire nel singolo di debutto “Debora” e nel relativo album “My People Were Fair And Had Sky In Their Hair, But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brow”. Il folk visionario, contaminato da scorie psichedeliche, sembra attirare le orecchie inglesi che mandano il singolo al numero 34 e l’album nei Top 20. Apprezzato dal dj John Peel, il duo realizza una seconda piccola hit, “One Inch Rock”, che anticipa il successivo Lp “Prophets, Seers And Sages, The Angels Of Ages”. La formula magica funziona e, nel 1969, Bolan e Took fanno il botto con il disco “Unicorn” che arriva a sfiorare la Top 10 inglese. Nel 1970 Took abbandona il compagno e viene sostituito da Mickey Finn che lavora al disco “A Beard Of Stars”, ultimo lavoro a nome Tyrannosaurus Rex. Nell’ottobre, infatti, Bolan decide di firmare per la Fly Records e di abbreviare il nome nel più immediato T-Rex, ma, soprattutto, di elettrificare la sua musica. “Ride A White Swan” è l’alba di questo nuovo corso e, di fatto, l’alba del glam-rock. Rod Stewart è Roderick David Stewart, giovane calciatore del Brentford Football Club poi busker in giro per l’Europa e beatnik in lotta nella marcia anti-nucleare di Aldermaston, Berkshire. Meglio conosciuto come “Rod The Mod”, il ragazzo possiede evidenti doti canore, entrando nella scena inglese prima con i Long John Baldry & The Hoochie Coochie Men e poi con il Jeff Beck Group. Il punto di svolta arriva nel 1969 quando Rod si unisce ai resti degli Small Faces, rimpiazzando Steve Marriott e, abbandonato lo Small, firmando per la Warner Brothers. Qualche mese più tardi, i Faces spopolano e Rod si esalta con il suo disco “Every Picture Tells A Story” e il relativo singolo “Maggie May” che scalano le classifiche sia inglesi che americane. Come un fulmine a ciel sereno, il glam sembra ormai dominare il mondo. Elton John è Reginald Dwight, martellante pianista rock and roll pronto all’incontro della sua vita. Grazie al paroliere Bernie Taupin, Elton abbandona i Bluesology e si avvia verso una solare carriera solista a partire dalla hit del 1971 “Your Song”. La sua vera e stravagante personalità, tuttavia, viene fuori solo nel maggio 1972 quando si unisce alla corrente e pubblica un brano chiamato “Rocket Man”. Gary Glitter è Paul Gadd, aka Paul Raven, rocker fallito dopo aver abbandonato il mondo della musica alla metà degli anni 60 per lavorare tra spot commerciali e il programma pop “Ready, Steady, Go!”. Il ritorno sulle scene avviene all’inizio del nuovo decennio sotto il nome di Paul Monday & Rubber Bucket, ma è una sua apparizione nella colonna sonora del film “Jesus Christ Superstar” che lo porta, per la prima volta, all’attenzione del grande pubblico. Paul Raven si trasforma in Gary Glitter e, grazie al singolo “Rock And Roll”, inizia la scalata verso il nuovo mondo ambiguo del rock and roll. Roy Wood è Ulysses Adrian Wood, membro fondatore del gruppo beat-pop The Move. Dopo una serie di brani più o meno innovativi tra cui “Night Of Fear”, “I Can Hear The Grass Grow” e “Flowers In The Rain”, la band si dissolve e Wood vola via per formare la Electric Light Orchestra con cui militerà fino al 1972. Nello stesso anno, infatti, il suo nuovo progetto è un gruppo pop-centrico e stravagante a nome Wizzard. Alice Cooper è Vincent Furnier, giovane cantante che vagabonda tra piccoli gruppi come The Earwigs, The Spiders e The Nazz. L’ordinarietà di queste prime esperienze, tuttavia, viene ferocemente scossa quando Alice inizia, sul palco, ad accarezzare pitoni e soffocare bambole. Signore e signori, il perverso spettacolo del Grand Guignol apre i battenti. Capitolo Uno 1970-1972 Cavalca il cigno bianco
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E’ l’alba di un nuovo fenomeno nel variopinto mondo del rock and roll. Una strana situazione che nasce da un’attesa di tre, quattro anni in un autentico limbo post-Beatles. Nuovo, vero fenomeno, attentamente supervisionato dal solito giro degli affari, ma estremamente gradito da un nascente tipo di pubblico, pronto a farlo crescere al di là di ogni misura. T.Rex, Faces e Slade attirano progressivamente l’attenzione di una considerevole fetta di una platea stanca degli eccessi dei “brani di oltre venti minuti” o, più semplicemente, ancora legata ai banchi di scuola. In questo secondo caso, i nuovi ragazzini anglofoni possono avere il loro primo, verginale assaggio di rock and roll. Sono, di fatto, i fratelli/sorelle minori dei vecchi fan degli Stones e di Dylan, dei Led Zeppelin e degli Who. Ragazzini che non sono stati programmati dalle regole “accettate” di un comportamento “rock” ormai diventato snob. Tutto quello che vogliono è sentire l’emozione e la forza grezza di un rock reso sempre più cerebrale dalle vecchie generazioni. Come la mette Marc Bolan, vogliono sentire il “boogie”. Reagire dal punto di partenza. Se, allora, gli artisti pop da classifica sono troppo anziani per legare con questa nuova ondata di consumatori pop, la risposta soffia nel vento di band come Slade e T.Rex. In questo vento torna a spandersi l’eco elettrica dei giorni in cui Beatles e Rolling Stones guerreggiavano a colpi di singoli rivoluzionari. Quando si scopre che “Telegram Sam” e “Look Wot You Dun” verranno pubblicati nello stesso giorno, l’etichetta degli Slade decide saggiamente di rimandare l’uscita di una settimana, impaurita dallo scontro con il titano da classifiche Marc Bolan. E il singolo dei T.Rex, infatti, non ci pensa su due volte e vola in alto nei cieli stellati del glam, sempre più vasti e luminosi nel loro ritornare all’essenzialità di successo del rock. A contemplarli, un’adolescenza che non si ferma ad ascoltare, ma è pronta a gridare istericamente il nome di nuovi idoli musicali. L’immagine carismatica sovrasta il genere musicale e il beat irriverente e perverso si guarda allo specchio per controllare se ogni capello è al suo posto. La lezione del passato rivive attraverso la trasgressione patinata. Non a caso, infatti, c’è una similarità fondamentale tra i primi singoli fragorosi degli Who e quelli degli Slade: il successo arriva nel momento in cui una band riesce a lanciare un messaggio forte, creando un senso di identificazione con il movimento giovanile del suo tempo. Un giorno erano mod, oggi vanno in cerca del loro ambiguo essere. Parliamo di glam, signore o signori. L’importanza di chiamarsi singolo All’alba del 1970, Marc Bolan è pura energia cosmica. La strana legge del destino vuole che questo sia il tempo dei suoi T.Rex, pronti a divorare le classifiche inglesi, sebbene aiutati da massicci investimenti in promozione della loro nuova etichetta, la Fly Records. Cosmo o capitale, gran parte della scalata la spinge l’irresistibile singolo “Ride A White Swan” che introduce un nuovo stilema schizoide tra un handclapping balbettante e uno sfondo coloratissimo di chitarre e archi. E’, di fatto, un nuovo vagito beat, liricamente simbolico, melodicamente accattivante al limite dell’ossessione. L’elettrificazione della melodia è la forza non troppo nascosta di Bolan, che lavora su quello che vuole la sua gente, cibandosi di messaggi mediali da Radio 1 a Top Of The Pops. Risorge, così, la passione per il singolo da classifica che, per Marc, “piace a tutti perché è facile da realizzare e veloce da registrare”. “Energia. E’ di questa che è fatto un singolo. Tutto quello che rimane da fare è entrare in uno studio e registrare l’emozione, l’eccitazione che c’è dietro un brano”. Eccitazione che, all’inizio del 1971, trasforma Bolan in un stella che brilla, vestita d’argento sul palco del Lyceum di Londra. Il pastiche di rock and roll e poesia, arrangiato con minimale tecnica strumentale viene acclamato da oltre duemila persone, pronte a scatenarsi sul “la la la” dominante del nuovo successo “Hot Love”. La soluzione, qui, è ancora più commerciale e la grezza semplicità del brano è la chiave per un’assodata popolarità, spronata da un altro pulsare assolutamente irresistibile. Prima di Ziggy… David Bowie - “The Man Who Sold The World” (Rca, 1970) Schizoide, perverso. Un giovane effeminato in un incubo di carte da gioco. Vestito sgargiante, David Bowie firma le sue prime, rilevanti nove canzoni, pronto a vendere il mondo o, in casi estremi, a vendersi ad esso. Fra nichilismo, superomismo alla Nietzsche e psicoanalisi, i suoi incubi esistenziali abitano qui, evidenziati da suoni lancinanti e claustrofobici che esasperano un hard-rock in via di immediato sviluppo. La sua voce è già isterica, per ora solo corteggiatrice della chitarra selvaggia di Mick Ronson in “The Width Of A Circe”. L’orrore di “All The Madmen” bacia il folk scheletrico di “After All” fino alla ripetizione sinistra della title track. Bowie, tuttavia, mostra di non trovare pienamente se stesso in questo disco e la melodia di “The Man Who Sold The World” sembra presagire un nuovo, radicale cambiamento. The Faces “Long Player” (Warner Bros, 1971) Una band inglese può avere un cuore americano. Intrappolata con il blues di Memphis, con il rock and roll delle radici progressivamente indurito, ma sensibile al fascino del reame Motown. I Faces sono impetuosi, rumorosi, brillanti nel loro vivo funky, ma soprattutto sono un’entità collettiva immediata al di là del passato individuale dei suoi musicisti. Il caracollare della voce di Rod Stewart e la chitarra slide di Ronnie Wood, la potenza della sezione ritmica Lane/Jones e le tastiere di Ian McLagan. Lo spirito della Band mescolato alla potenza grezza dei Rolling Stones. La formula è matura e appare in “Sweet Lady Mary”, pompata dalle fibrillanti versioni dal vivo di “Maybe I’m Amazed” e “I Feel So Good”. Non manca il lato più lirico con la nostalgia di “Richmond” e la toccante “Tell Everyone”. Le radici del nuovo corso d’Albione passano anche di qui. Rod Stewart “Every Picture Tells A Story” (Mercury, 1971)
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Quando un musicista non sbaglia un colpo. Ovvero il dono naturale di essere capace di scegliere tutto con perfezione, abbinato a un’innata dote soul. “Every Picture Tells A Story” è l’opera che meglio inquadra il fenomeno emergente di Rod, che si accinge a conquistare i grandi mercati internazionali. Autoprodotto con l’aiuto di Ronnie Wood, questo disco sembra essere una prova evidente di esuberanza e controllo delle proprie virtù. C’è, certamente, malizia e una piccola vanità di fondo, ma il cantante riesce a esporre il meglio di sé in dieci brani, ora ruvidi e focosi, ora garbati e melanconici come nel mandolino struggente di “Mandolin Wind”. Traspare, così, un sentimento vero per una certa musica acustica che sa di sano autobiografismo quando partono le cover di una vita tra Dylan, Tim Hardin e Temptations. Siamo, tuttavia, all’alba di una nuova era di costume e, così, il primo posto in classifica lo conquista la strana storia di “Maggie May”, primizia commestibile di un diverso pop che conquisterà il mondo. Violenza e stravaganza Tra la fine dei 60 e gli inizi dei 70, gli Ambrose Slade passano il tempo a rincorrere la fama nei piccoli club di Wolverhampton, aiutati dal manager Chas Chandler che cerca di lanciarli nel grande circuito del rock and roll. Abbreviata in Slade, la band fiuta una possibile apertura nell’emergente movimento giovanile degli skinhead e, così, si taglia i capelli e adotta un’immagine dura e violenta. La scelta, tuttavia, si trasforma in una continua pubblicità negativa, fomentata da un’ipotetica associazione con i pericolosi hooligan da stadio. Un grosso problema in più, quindi, per Chandler che è determinatissimo nel mostrare alla nazione quello che i suoi ragazzi stanno facendo. Nessuno, tuttavia, vuole gli Slade che faticano a trovare offerte per suonare dal vivo i loro accordi adrenalinici. All’inizio del 1971 appare chiara una cosa: bisogna lasciare che i capelli ricrescano e cavalcare il cigno bianco insieme a Bolan. In questo modo, la filosofia basilare “Io, Tarzan, tu, Jane” dei quattro può sfogarsi al meglio, rivestita secondo gli stravaganti nuovi dettami del glam-rock. Il singolo “Get Down And Get With It” sintetizza chiaramente questa ulteriore scelta-compromesso. Il rock and roll belligerante va a passo di danza con il coro pop e l’attitudine aggressiva viene mascherata con zeppe, lustrini e papillon. E’ questo, oggi, il viatico per il successo. Il guerriero elettrico C’era una volta la magia e portava stelle tra i capelli. In una sola notte si può cambiare, passare dalle luci di un mondo fantastico a quelle artificiali di un locale stracolmo di ragazzini. Marc Bolan è, ora, una stella del business e ha una sola, precisa aspirazione: trasformarsi nell’unico guerriero elettrico del rock and roll. Dopo il disco “A Beard Of Stars”, i Tyrannosaurus Rex si disperdono e, con loro, i melliflui toni orchestrali e le strane storie hippy. Nessuno, nel primissimo 1970, riesce a immaginarsi Marc Feld trasformato in un urlante chitarrista hendrixiano. Poi arriva “Hot Love” che è soltanto una primigenia estensione del suo approccio basilare al nuovo pop inglese. L’evoluzione naturale porta uno scapestrato duo flower-power nel luccicante reame delle classifiche. E’ l’era del boogie-woogie e, per i T.Rex, significa pane quotidiano. Nel 1971 esce il nuovo singolo “Get It On” che, istantaneo numero uno, lega perfettamente la vecchia maniera con il nuovo corso tra arrangiamenti à-la Sun, i soliti archi di Tony Visconti e l’irresistibile chitarra gommosa e fruttata. Volendo esagerare, il suo furore elettrico non si discosta poi molto dall’azzardo di Dylan al Festival di Newport. Se, tuttavia, il bardo del Minnesota viene accolto da una pioggia di fischi impietosi, il guerriero elettrico si trova perfettamente in linea con i suoi tempi che, profeticamente, erano già dati in via di cambiamento. Prima di Ziggy… The Faces “A Nod’s As Good As A Wink To A Blind Horse” (Warner Bros, 1971) Vecchi, sferraglianti accordi per una brillante direzione rock and roll. Non c’è variazione nella formula dei Faces e questo disco è forse il loro lavoro più rappresentativo. Catturati dalle mani esperte del produttore Glyn Johns, Wood e soci sanno offrire prestazioni lucide e intense (al di là della loro fama di bevitori casinisti) di grandissimo livello tecnico. Il fuoco divampa in “Miss Judy’s Farm” e “Stay With Me” fino al travolgere di “That’s All You Need”. La malinconia si appropria di “Love Lives Here” con Ronnie Lane che si dimostra autore pregevole grazie all’elegante “Last Orders Please” e l’incanto di “Debris”. I Faces sono una band, ormai, matura e la rilettura di “Memphis” riesce a dimostrarlo con precisione. Singoli. Nel 1971 gli Sweet salgono in classifica con “Co-Co”, pop solubile che sa di Archies e di musica bubblegum. Un sound latino si spande attraverso una batteria morbida e conquista, così, le folle inglesi più discotecare. Meglio, tuttavia, il beat più solido e orchestrale di “Alexander Graham Bell”. Dopo il belluino grido di “Get Down And Get With It”, gli Slade sembrano affinare la verve proletaria e sboccata in “Coz I Luv You” che si distende, più rilassata, tra chitarre saltellanti e ricami per archi. Gli stilemi glam, insomma, iniziano a farsi più definiti. Il profeta della nuova generazione Alla fine del 1971 i T.Rex portano in trionfo un tour inglese di diciassette date e nell’aria gira una voce sempre più insistente: questo è il gruppo che prenderà il posto dei Beatles. Il fenomeno è, certo, ampliato da un successo commerciale senza precedenti. Tre singoli pubblicati in un anno hanno venduto più di quanto abbiano fatto Who e Jimi Hendrix messi insieme per un totale di oltre tre punti percentuali dell’intero mercato discografico britannico. Non è, tuttavia, solo una questione di soldi. L’atmosfera generale che si respira tra la folla a un loro concerto è molto simile a quella che accoglieva gli Stones e i Beatles nei primi anni. Il disc jockey Bob Harris parla con sincerità: “La spiegazione? Marc è, per i ragazzi di oggi, esattamente quello che erano i Beatles nel 1964: la proiezione di tutte le loro più grandi fantasie. E’ un uomo molto bello e le sue canzoni sono estremamente comunicative per i ragazzi. Nessuno è riuscito a catturare lo spirito di questi tempi come ha fatto Marc Bolan”. Alla metà degli anni 60 i Beatles non sono soltanto una fantasia, ma riescono a incarnare la figura del ragazzo della porta accanto. In altre parole, sono la prova vivente che l’avere quindici o sedici anni significa qualcosa. Il gigantesco appeal di Bolan sta nel dare forza alla sua generazione, un senso di identificazione attraverso crudi accordi rock and roll. Non è affatto strano, quindi, che il suo pubblico sia composto per lo più da ragazzine tra gli undici e i sedici anni perché Bolan sembra esattamente uno/a di loro. Da qui il suo bisessuale aspetto felliniano, tra scarpe sgargianti, eye-liner e cappotti di pelliccia. Il suo aspetto mistico, tuttavia, non riempie completamente il fenomeno. Quando John Peel riceve l’acetato di “Hippie Gumbo” e lo passa nel suo programma riceve in brevissimo tempo oltre quattromila richieste da parte degli ascoltatori. Il suo primo libro di storie e poesie, “Warlock Of Love”, ha finora venduto ventimila copie. Marc Bolan, quindi, è visto come un autentico poeta moderno, diviso tra materialismo rock ed evanescenza spirituale. Tutto questo è genuino T.Rex sound che emerge ancora nel ritmo barcollante del singolo “Jeepster”, che apre la strada al disco meglio riuscito (fino ad ora) della band. "Electric Warrior" (Fly, 1971) è il passaggio fondamentale da un rock and roll adolescenziale a un asessuato misticismo spaziale. La carrellata di influenze musicali porta in tavola la dieta perfetta per ogni ragazzo rock del 1971 che si nutre di un’ideologia smaccatamente trash. Non c’è più Chuck Berry, Elvis Presley o Phil Spector, né i sobborghi di Nashville o Memphis. Gli archi di “Cosmic Dancer” sono qualcosa di frullato, ma completamente nuovo per un geniale feticcio glam. Il blues della Sun potrebbe suonare così com’è, ma non lo fa e “Jeepster” ne è la dimostrazione. Bolan, così, firma brani a loro modo immortali ai quali non si riesce a dire di no inspiegabilmente. Era vulgaris
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Andare a vedere gli Slade dal vivo è come partecipare a un party ad alto tasso alcolico. C’è tanta gente e fa molto caldo, ma non vuoi assolutamente andare via. Quello che distingue la band da ogni altra è il fatto che si diverte a comunicare bilateralmente con il suo pubblico. Come un circolo virtuoso, se la folla si diverte, allora i quattro vanno giù con maggiore energia e frenesia sboccata. Si tratta di pop, certamente, ma negli Slade vive una rozzezza di fondo difficilmente limabile. Come dice il leader Noddy Holder: “In ogni caso, trattiamo il nostro pubblico come se fosse un gruppo di compagni di scorribande”. Gli Slade, quindi, capiscono al volo che gli spettatori sono stufi di stare seduti ad ascoltare, ma hanno bisogno di sfogarsi, gridando e battendo energicamente i piedi. Il ritmo che batte impetuoso, infatti, diventa come un proprio marchio di fabbrica, drammatizzato dalle tastiere horror del nuovo singolo “Look Wot You Dun”. Tutto questo sarà pure volgare, ma il glam mostra anche questo volto. Mutamenti Alla fine degli anni 60 David Bowie crede fermamente nel verbo dylaniano: un musicista può cambiare il volto del mondo con una penna e una chitarra acustica. Eppure nel piccolo successo “Space Oddity” scrive: “Il pianeta terra è triste e non c’è nulla che io possa fare”. Bowie, tuttavia, sembra davvero serio in quello che fa anche a costo di risultare noioso con epici brandelli hippy di nove minuti. Almeno fino a quando non decide di prendersi una vacanza negli Stati Uniti. L’elettricità deviata e suburbana di New York provoca, in lui, un fortissimo scossone e, alla fine, lo convince che è inutile parlare di se stessi nelle proprie canzoni. Basta chiudere gli occhi e scrivere tutto quello che passa nella propria testa. Lasciare viaggi cosmici e derive à-la Arthur Clarke per scendere nei sobborghi oscuri della mente umana. Ritorna, così, il suo passato al sapore di jazz e di blues vecchia maniera, allo stesso tempo lontano dai soliti standard. Dalla partecipazione al festival di Glastonbury a un imminente mini-tour europeo, David suona con aria informale pezzi retrò come “It Ain’t Easy” di Ron Davies e la “Port Of Amsterdam” di Jacques Brel. Tutto quello che vuole, in fondo, è essere un nuovo intrattenitore di altri tempi. Eppure nessuno può fare a meno di notare i vestiti da diva di Hollywood, le scarpe luccicanti con la zeppa, le acconciature anni 30. David Bowie si dichiara omosessuale, ma (chissà perché) non ha molto tempo per il movimento Gay Liberation. Forse perché non vuole essere un leader. Forse perché rifiuta nettamente qualsiasi categorizzazione. Un ex figlio dei fiori che cerca di preservare il suo bisessuale individualismo. Chi o cosa è, allora, David Bowie? David Bowie è uno, nessuno e centomila, un surreale personaggio da fumetto portato alla vita per affascinare i nuovi pargoli del rock truccato. “Hunky Dory” (Rca, 1971) è una boccata d’aria fresca per lo schema classico della canzone cantautorale. Una ridefinita estetica decadente che lega insieme melodie irresistibili, arrangiamenti pieni di mistero e testi su più livelli tra narrazione, filosofia e allegoria. Nel piano melodrammatico di “Oh! You Pretty Things” l’avvento di un homo superior che canta ritornelli inquietanti quanto orecchiabili. Bowie mette in mostra il suo gusto kitsch per la parodia e, dopo aver deriso il vibrato di Bolan in “Black Country Rock”, osa fare il verso al suo nuovo nume Lou Reed nella scomposta e sfacciata “Queen Bitch”. Musicista, intrattenitore o splendido attore? Semplicemente uomo effeminato privo di direzioni precise e, così, il perfetto pop di “Changes” diventa quasi un manifesto d’intenti. L’inconscio intellettuale sembra impadronirsi di canzoni ora scheletriche (“Quicksand” e la terrificante “The Bewlay Brothers”), ora scintillanti (i fiati di “Fill Your Heart” e la chitarra languida di “Andy Warhol”). Un po’ come prendere la mente di Syd Barrett e farla sfogare con la pelle deviata di Lou Reed. Difficile parlare di glam, difficile parlare di pop. Gioventù ribelle
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E’ un martedì pomeriggio come gli altri al Granada di Londra e in molti sono venuti solo per il bingo. Per i Roxy Music, tuttavia, è un martedì pomeriggio molto importante perché David Enthoven, manager di Elp e King Crimson, verrà ad ascoltarli. Ci sono molti modi, per una band, di entrare nel regno dorato del business rock. Molte lavorano per anni in piccoli club con piccoli manager prima di abbandonarli una volta sbarcati in tv o alla Roundhouse. Quello, invece, che vogliono i Roxy Music è saltare questo lungo passaggio, arrivando direttamente al top. Il motivo è semplice: sono bravi e, soprattutto, sanno perfettamente di esserlo. L’unico problema è rendere pienamente il loro sound dal vivo, superando notevoli difficoltà tecniche dovute all’uomo che gioca con sintetizzatori VCS3, registratori, mixer a otto canali e altre diavolerie elettroniche. Eppure i Roxy Music mostrano un sound fresco e flessibile che batte la noia di molte altre band esistenti, abbinato ad una conoscenza rara delle radici storiche del pop. Tra chitarre vibranti, sassofoni rochi e armonie doo-wop, la formula sonora della band appare deliziosa nella sua mancanza dell’ordinario. Merito, in parte, dell’immaginazione del cantante Bryan Ferry, laureato in belle arti all’università di Newcastle, dove inizia a suonare con una band di soul chiamata Gasworks. Trasferitosi a Londra, Bryan si destreggia tra varie attività, insegnando, guidando camion e rilassandosi con dipinti e sculture. Nella capitale si unisce al vecchio amico bassista Graham Simpson e all’insegnante amante del jazz Andy Mackay (sax, oboe). A completare il nucleo della band c’è il pallido Brian Eno, genio dell’elettronica che prende subito posto nelle retrovie per abbagliare gli accordi dei Roxy Music con il suo sintetizzatore astrale. Successivamente viene inserito l’ex chitarrista prodigio dei Nice, David O’ List e Dexter Lloyd alla batteria che lascerà presto il mondo del rock per quello della musica classica, sostituito dal giovane veterano Paul Thompson. Con questa prima formazione, la band inizia a sperimentare il suo naturale, inconscio approccio all’armonia pop, brillando al programma Top Gear del dj John Peel all’inizio del 1972. Dall’Humphrey Bogart di “2HB” all’onda sintetizzata di “The Dream Of Olwen”, il modo di porsi dei Roxy Music è del tutto inaspettato. Un po’ come se John Cage iniziasse a comporre pop per le nuove folle del glam. Prima di Ziggy… Singoli. All’inizio del 1972 i T.Rex non hanno alcuna intenzione di staccarsi dai primi posti delle classifiche inglesi. Il successo di massa è, ormai, solido e maturo e, per Bolan, non sembrano esserci motivi validi per cambiare rotta. Come tutti i precedenti singoli, “Telegram Sam” nasconde un’irresistibile insidia da immotivati ascolti ripetuti. Chitarre pacchiane, fiati balbuzienti e ricami per archi: la formula vincente continua a essere questa. Contemporaneamente, si intravede il formidabile fiuto comunicativo della coppia Elton John-Bernie Taupin che conquista i mercati del mondo con una trovata sonora di grande efficacia. Il piano melodrammatico di “Rocket Man” porta il pop nello spazio e racconta un’altra storia di astronauti, aprendo la strada all’imminente scoperta di Marte da parte del rock. L’alieno sta, ormai, per sbarcare sul nostro pianeta. Capitolo Due 1972-1973 L’uomo delle stelle Perché amare Marc Bolan… Inghilterra, 1972. Diario di una qualsiasi ragazzina di quindici anni. “Un tempo mi piaceva Keith Emerson. Ora, per me, esiste solo Marc Bolan. Il modo in cui si muove, i suoi riccioli selvaggi. Non potrebbe essere più sexy di così. Quello che riesce a fare meglio è pomparti dentro veri sentimenti ed emozioni, mentre ti lasci completamente andare. I suoi vestiti sono fantastici. Molte persone guardano solo il fatto che indossa scarpe da donna, ma, in realtà, mette solo quello che gli sta bene addosso perché a lui non importa di quello che pensa la gente. La sua musica è originale ed è un brillante poeta. Marc crede davvero nelle persone comuni e le aiuta a ricordare che possono esistere mondi completamente differenti. Ecco perché, per me, esiste solo Marc Bolan”. Chiunque al di sotto dei vent’anni – forse anche dei trenta – rimane aggrovigliato nelle catene melodiche di “Metal Guru”, attraente monotonia da spiaggia tra swing e boogie. Basta un brandello di diario delirante per spiegare il successo dell’idolo Bolan, sempre più Elvis del glam, e del suo nuovo singolo spacca classifiche (e cuori). …Perché amare gli Slade Con il piccolo aiuto dell’amico manager Chas Chandler, gli Slade potrebbero, nel mezzo del 1972, essere addirittura paragonati ai Rolling Stones del 1964. Se Marc Bolan, con il suo tremendo appeal pop, è l’erede glam dei Beatles, allora i quattro di Wolverhampton incarnano quasi alla perfezione il ruolo dei più classici anti-eroi. Per dirla in termini psico-sessuali, le brave ragazze amano Bolan, le cattive gli Slade. Non sono più skinhead, certo, ma l’aura luciferina intorno alla band è rimasta viva e il dimenarsi animalesco e osceno del cantante Noddy Holder non si distanzia poi tanto dalle crude maniere di Mick “Mefistofele” Jagger. Ancora una volta è l’estasi erotica a fare da sfondo e non sorprende che la Polydor chieda agli Slade di cambiare alcuni passaggi lirici della provocatoria “Do You Want Me”. La filosofia del singolo di successo, teorizzata da Bolan, è molto apprezzata dal gruppo che preferisce costruirsi con calma, passo dopo passo. “Get Down And Get With It” è puro rock and roll sparato a cento all’ora mentre violino e piano sviluppano un sound più elaborato in “Coz I Luv You” e “Look Wot You Dun”. Con il nuovo brano “Take Me Bak ‘Ome” la saga degli Slade procede inarrestabile con ben tre chitarre in bella vista al seguito del cantato urlato, affogato in un suono al limite del rumore. Questo rock and roll torna direttamente alla primigenia semplicità e legittima, così, l’amore di tutte le cattive ragazze per questa band.
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Aspettando l’uomo Il 21 giugno del 1972, l’astronauta alieno in stile Vogue porta la sua odissea spaziale sul palco della Civic Hall di Dunstable, Inghilterra. I giornalisti del pianeta terra sono pronti, penna alla mano, a descrivere uno dei più importanti punti di svolta nell’incredibile storia di David Bowie. Alcuni sono già pronti a definirlo “la cosa più grande che c’è attualmente in circolazione”. Il problema è che, sul palco, non c’è l’ex David Jones, ma una strana, affascinante creatura in tuta bianca e capelli rossi. E’ l’alba dell’alieno polveredistelle che inizia il suo show come una qualsiasi puttana del rock and roll prima di parlare dei suoi mille cambiamenti. L’apocalisse di “Five Years” è il suo messaggio, memore di viaggi acustici interstellari e idoli più o meno deviati. Ziggy non è soltanto il suo volto scavato e androgino e l’energia cosmica del suo singolo-manifesto, “Starman” non vede l’ora di librarsi in volo in cerca di nuovi, isterici orizzonti pop. E’ il turno dei bis sul palco della Civic Hall di Dunstable, Inghilterra. Partono gli accordi drogati di “Waiting For The Man” e l’esplosivo chitarrista Mick Ronson si avvicina lascivo all’alieno. I giornalisti del pianeta terra non sono affatto pronti perché la penna è caduta chissà dove dopo aver visto uno dei più espliciti esempi di fellatio praticata a uno strumento musicale. Signori, l’ascesa di Ziggy Stardust e dei Ragni da Marte. Il suono della sorpresa La formula dei Roxy Music è semplice quanto sorprendente, miscuglio compresso di liriche affascinanti, accordi raffinati e sense of humour tipicamente britannico. Tutto questo sembrerebbe banale revival rock, ma non lo è affatto, nonostante in molte delle loro canzoni abbondino riferimenti a una musica pop da età della pietra. Bryan Ferry è loquace: “Sembra davvero bello creare qualcosa che sia ricco e vario, riportare alla luce molte cose del passato che ora sono dimenticate. Portare sul palco veri violini a suonare ‘Will You Love Me Tomorrow’. Siamo eclettici, certamente e i nostri vari elementi sono usati con un fine ben preciso. E’ questa la vera forza del nostro gruppo”. Quello che, sicuramente, sorprende il cantante e i suoi compari è come questi ricordi musicali basilari si adattino così bene a un pubblico troppo giovane per averne memoria. Nel 1972 tutto procede a doppia velocità per i Roxy Music. Solo pochi mesi prima la band non aveva un manager né un agente, limitandosi a sparute esibizioni in piccoli club. Ora, con un bassista nuovo di zecca (Rik Kenton), apriranno lo show di Alice Cooper all’Empire Pool di Wembley. Merito del ritmo sensuale del singolo “Virginia Plain” che, tra strambi effetti sonori, apre la strada all’omonimo album di debutto dei Roxy Music. “Roxy Music” (Island, 1972) è l’agglomerato sonoro che tradisce le vere intenzioni della band, tra atmosfere morbide e vitamine elettriche. Il rock diventa incalzante, immaginifico e riesce a vibrare nella terra di mezzo di stili e citazioni. “Re-Make/Re-Model” è il posto giusto dove incontrare la loro magia insolente, tra bolle di sintetizzatore e liriche à-la Lou Reed. Chitarre e sax per leggere il lato più ironico di Beatles, Robert Moog e Duane Eddy. A partire dalla copertina erotica/esotica fino ad arrivare al nightclub marocchino di “2HB”, il disco evoca le più calde fantasie (“Sea Breezes”) in un substrato strumentale estremamente intelligente. Il rumore di “The Bob (Medley)” balla sul doo-wop di “Would You Believe” e diventa apocalisse nella chitarra di “Ladytron”, non esattamente classica canzone d’amore. Il punto principale è abbastanza evidente: i Roxy Music non hanno alcuna intenzione di rimanere imbambolati davanti a una formula sonora. Piccola lezione per Marc Bolan. Il teatro degli orrori La scena è a Wembley ed è un tiepido venerdì sera all’Empire Pool. Il sole sta tramontando e, all’interno dell’auditorium, oltre settemila ragazzi dall’aspetto strambo attendono che, sui loro occhi, cali la tenebra più profonda. Una voce dall’accento americano grida: “Ecco a voi il leggendario Alice Cooper”. Il fantomatico stregone che tanto turba i genitori di mezza America vive il suo momento più magico, prodotto di massa di una rancida sottocultura giovanile. Il suo film dell’orrore si sviluppa su un rock potente e aggressivo, abbinato a testi bizzarri e, il più delle volte, morbosi. Non è affatto un caso che, nel 1971, l’album “Love It To Death” abbia scatenato la protesta di adulti e critici musicali tanto da essere bandito in tutti gli Stati Uniti. Alice Cooper vuole proprio questo e il suo successo, così, è assicurato. Quando partono gli accordi rock and roll di “I’m 18” la platea è già in visibilio, ennesima testimonianza di quanto conti il contatto empatico con le nuove generazioni di ascoltatori. Non importa, quindi, che la band suoni in maniera mediocre, perché lo show passa per altri lidi metaforici come la mutilazione selvaggia di una bambola con un’ascia. L’organo sale, circondato da un fumo mefistofelico e Alice inizia a dimenarsi sulle note perverse di “Killer”. A rubare la scena, tuttavia, è l’incredibile apparizione di un boa constrictor che si muove flessuoso intorno al collo del cantante prima di finirgli direttamente in bocca. L’hard-rock da gita scolastica del singolo “School’s Out” è la “My Generation” dello stregone americano, ma non riesce a definire qualcosa che sappia veramente di nuovo. Quello che Cooper fa è giocare sull’incompatibilità viscerale tra giovani e adulti, ma, in fondo, i Rolling Stones lo facevano già dieci anni prima. Eppure i ragazzi del 1972 scoprono, in zia Alice, un nuovo eroe generazionale e questo basta ampiamente per farla diventare una nuova leggenda del pop. Un po’ di glitter Gli inizi di Gary Glitter non sono poi tanto diversi da quelli di un qualsiasi intrattenitore. Un giovane freak che si guarda allo specchio posando su un disco di Buddy Holly. Mentre gli uffici di collocamento cercano di inserire i liceali inglesi in “scatole-lavoro”, l’estroverso Paul Raven si alza in classe blaterando sul suo futuro da star della musica. Il ragazzo è oltraggioso, modella la sua immagine sui miti di Elvis e Ray Charles, e, sorprendentemente, riesce a registrare un primo disco a quattordici anni con una band di rock and roll. Tra il 1965 e il 1969, Glitter insegue il successo in Germania, suonando ore e ore in locali come il Top Ten Club prima di dividere il cartellone con vecchie star come Little Richard, Bill Haley e Tony Ashton. In uno dei tanti piccoli ritorni in Inghilterra, Gary fa una felice apparizione sulla colonna sonora del film “Jesus Christ Superstar” e incontra il produttore Mike Leander della casa discografica dell’album, la Mca. Leander si appassiona allo strambo Glitter e decide di mettere su disco l’energia umile degli show tedeschi. Il risultato è “Rock and Roll Part I & II”, jam di quindici minuti che viene sforbiciata per ricavarne due pezzi singoli più attraenti da un punto di vista commerciale. Il suo tribale glam quasi strumentale viene pubblicato nel 1972 e ottiene un clamoroso successo su entrambe le sponde dell’Atlantico. Glitter, così, si inserisce con furbizia nella reazione generale contro la vecchia era del progressive, tra un aspetto da star del rock anni 50, pellicce esorbitanti e calzini pacchiani. Il suo “rock and roll show” sembra apprezzato da un pubblico quasi nostalgico, ma, soprattutto, è la sua immagine sul palco che si adatta perfettamente al gusto del tempo con verve teatrale e melodrammatica. E’ nata una stella Luglio 1972. Alla Royal Festival Hall di Londra il decadente e ambiguo viaggio stellare di David Bowie compie, forse, il suo passo più intenso e significativo. Capelli rossi e abiti succinti, l’alieno delle stelle si presenta come un vero e proprio flashback vivente, ricordando le più oltraggiose e teatrali star del pop, frutto proibito della passione sfrenata del suo pubblico. L’aspetto affascinante e intoccabile di Bowie si nutre del vizio sotterraneo, accogliendo sul palco l’inaspettata figura di Lou Reed. L’ammirazione reciproca partorisce una jam che è parte di un’epoca, tra le derive elettriche di “White Light/White Heat” e “Sweet Jane”. E’ solo un piccolo riassunto della magistrale lezione dei Velvet Underground che, attraverso l’estro di David, ottengono parte di un riconoscimento tardivo e ingrato. Lo show di Londra, tuttavia, appartiene tutto alla nuova entità astrale e al suo disco-manifesto. “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” (Rca, 1972) è l’indecifrabile Dna sessuale dell’art-rock anni 70. Cantautore futuristico, David Bowie indossa i suoi panni glamour, spingendo l’acceleratore su un nuovo decadentismo musicale, tra pop à-la Marc Bolan ed estetismo marca Oscar Wilde. A partire dalla ballata apocalittica “Five Years”, nascono canzoni dall’impatto dirompente, teatrali e umorali, che coniugano il duro riff chitarristico (“Hang On To Yourself”) con agrodolci partiture sinfoniche (“Starman”). Le invenzioni sonore si susseguono sul filo delicato del paradosso, ma ad emergere è soprattutto un virulento rock and roll che deflagra grazie al lavoro di Mick Ronson in “Suffragette City”. Gemma perversa e sensuale, il disco riesce nel preciso intento di fare di Bowie una superstar, ma nasconde il suo animo instabile fino alla spietata autoeliminazione in chiave blues di “Rock And Roll Suicide”. E’ una inquietante e precisa mistura di fragilità ed intensità disperata che trasforma un dotato musicista inglese in una stella fumante del nuovo pop mondiale. Con Ziggy… Singoli. Brillante esibizione pop, “All The Young Dudes” è la canzone che rilancia i Mott The Hoople di Ian Hunter che, sotto l’ala dorata di Bowie, puntano tutto su un rock muscolare dalle candide allusione omosessuali. Il nuovo corso musicale paga bene nella sua ambiguità e, di fatto, il brano diventa inno delle generazioni glam. Gli “young dudes”, infatti, sono una generazione di neo-fricchettoni che trasformano i noiosi raduni eco-pacifisti dei loro cugini hippie in uno sfrenato festival del kitsch. Che sia "peace and love", insomma, ma senza più vincoli ideologici o politici di sorta. Trionfano così il disimpegno, il travestitismo e l’ambiguità sessuale, in un p:emoji_joy:uvio di lustrini e paillettes, piume e rimmel, stivali e tutine spaziali. Sempre più vistosi e chiassosi, gli Slade non perdono tempo, rincorrendo il primato assoluto in fatto di stile. Il riff rollingstoniano di “Mama Weer All Crazee Now” assicura ai quattro un altro numero uno nelle classifiche, confermando la generale eccitazione nei confronti del mercato a 45 giri. La formula vincente di Marc Bolan è, ormai, riconoscibile al primo accordo. Questa volta sono i giovani soldati della “Teenage Westland” a portare al successo “Children Of The Revolution”, melange corale a base di ossessivo riff orchestrale. La mano “invisibile” del produttore Tony Visconti è marchio di fabbrica e i T.Rex non sembrano minimamente preoccupati di replicare a oltranza il modello, violando ancora il limite di velocità in “Solid Gold Easy Action”. A voler diventare presidente di tutto ciò è l’oscuro, schizzato Alice Cooper che, dopo aver messo le scuole anglo-americane a ferro e fuoco, punta direttamente alla casa bianca del rock and roll androgino. “Elected” ringhia e si dimena, ma paga il pedaggio allo spirito di Jimi Hendrix e, soprattutto, ricalca più che fedelmente le partiture sinfoniche di “Tommy” in un altro finale corale e ribelle (per le classifiche). Guerre in pelle di leopardo Estate 1972. Giornalista: “E’ stata una coincidenza la veloce pubblicazione di “Never A Dull Moment” nella stessa settimana del nuovo disco di Bolan, “The Slider”? Rod Stewart: “Volevano farlo uscire prima che tornassi negli Stati Uniti, in modo da portarlo in giro sul palco”. Giornalista: “Non eri a conoscenza del fatto che sarebbero usciti nello stesso giorno”? Rod: “Non fino al momento in cui ho letto il vostro giornale dove il mio disco ha una buona recensione al contrario di quello di Bolan”. Giornalista: “Pensi che tu e Bolan siate in guerra per lo stesso mercato”? Rod: “C’è, ovviamente, competizione, ma è quello che accade per molte altre professioni”. Nonostante la cattiva recensione, “The Slider” riesce, per un breve periodo, a distaccare leggermente il nuovo lavoro solista di “Hot Rod” nelle classifiche inglesi. Rod: “Bastardi. Conosco un posto dove Bolan non mi batterebbe mai: gli Stati Uniti”. “The Slider” (Emi, 1972) corre sulla scia del successo del precedente “Electric Warrior” e, in breve, diventa il disco più amato e popolare dei T.Rex. Il motto “ripeti te stesso” sembra essere un dogma per Marc Bolan, ma tutto può essere perdonato a un lavoro che, nel bene e nel male, è il secondo capolavoro del glam-rock dopo “Ziggy Stardust”. Le idee di base non sono propriamente nuove di zecca (citazioni più o meno smaccate di Led Zeppelin e Frank Zappa), ma il risultato è un tutto debordante, caricaturale, cabarettistico, come impone la legge del rock decadente inglese. Il trash sinfonico di “Metal Guru”, le viziose ballate “Mystic Lady”, “Rabbit Fighter” e “Ballrooms Of Mars”, il balbettio camp di “Rock On”, il blues in fondotinta della title track. Bolan raggiunge il massimo livello di oltraggio al pudore, prendendo per i fondelli Elvis in “Baby Boomerang”, creando una sorta di hard-rock mordi e fuggi con “Buick Mackane” e rimpolpando i dettami glam con “Telegram Sam” e “Baby Strange”. Se “The Slider” è il gridolino ossessivo del nuovo corso inglese, “Never A Dull Moment” (Mercury, 1972) è il gabbiano che vola sui mercati a stelle e strisce. Il quarto disco solista di Stewart è un altro lavoro certosino, fatto a mano che si concentra sulla sensibilità del cantante come arrangiatore e interprete di materiale proprio e altrui. Mentre i dischi dei Faces sembrano, alla fine, assomigliarsi in maniera vistosa, la forza di Rod sta nel saper raccontare delle buone storie, rispettando l’identità primigenia della “Angel” di Jimi Hendrix e dell’ennesima cover di Bob Dylan (“Mama You Been On My Mind”). E’ la prova del singolo che scalda il pubblico, beccandosi l’applauso con un mix di dolcezza e grezza intensità. Il rock acustico di “You Wear It Well” è d’impatto immediato e lancia il “caldo Rod” nel vero business marca uessei. Idoli della classe operaia Noddy Holder, Dave Hill, Jim Lea, Don Powell. Quattro giovani uomini per un’eccitazione grezza, cruda che rivitalizza un periodo di relativa stagnazione nel mondo dei singoli pop dopo la caduta dei Beatles. Il discorso album, per gli Slade, rimane un’incognita, ma è anche vero che il loro primo disco dal vivo, “Slade Alive!” (Polydor, 1972), diventa uno dei principali bestseller dell’anno. Dal frastuono tribale di “Hear Me Calling” al rock and roll di “Keep On Rocking”, il sound della band è unico nel suo genere, infarcito di slang e liriche focose per un approccio decisamente operaio che viene molto apprezzato dalla maggior parte dei giovani europei. La frenesia erotica si impossessa di ogni loro concerto con l’urlo sgraziato di Holder che cerca di stabilire un vero, primitivo contatto con i fan. Un crescendo che esplode con “Get Down And Get With It” dove migliaia di piedi fanno tremare la sala all’unisono prima della liberazione finale, tra i bis, sulla cover pirotecnica di “Born To Be Wild”. A fine concerto, gli Slade abbracciano i loro ragazzi e, autografo su autografo, li aiutano a sopportare meglio una vita quotidiana dura ed insoddisfacente. Più morto che vivo
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“Sento di questi gruppi che dichiarano di essere influenzati dalla mia musica, ma non vedo assolutamente la cosa. Ho mandato loro dei questionari chiedendo se capiscono veramente il mio lavoro e mi hanno risposto di no”. E’ difficile che il viso pallido di Lou Reed riveli qualcosa. Il tipo d’uomo che ride raramente e, se lo fa, non potrebbe apparire più sinistro. La sua perversione viene direttamente dai profondi sotterranei del rock metropolitano. Reed non ha modelli – se non se stesso – eppure il nuovo mondo del rock inglese gli deve molto. Parlando dei suoi ultimi dischi, David Bowie equipara l’influenza dell’uomo di New York a quella di Chuck Berry sugli Stones. Impossibile ignorare il suo tipico stile distaccato nelle inflessioni vocali di Bryan Ferry, così come le dichiarazioni di Brian Eno a proposito di un prossimo album dei Roxy Music in linea con il minimalismo deviato di “White Light/White Heat”. Tutti, da Alice Cooper a Iggy Pop, parlano di Lou Reed con una certa reverenza di fondo. E basterebbe la storia del travestito “Sister Ray” per capire quanto i Velvet Underground abbiano anticipato di parecchi anni l’ambiguità che caratterizza l’odierno rock and roll. “Il punto sul mio nuovo album è che tutte le sue canzoni sono canzoni d’odio. Il mio primo disco da solista era fatto completamente di canzoni d’amore. Ora sono soltanto canzoni d’odio”. “Transformer” (Rca, 1972) è il lavoro che promuove definitivamente Lou Reed al rango di unica “drag queen” del rock decadente. David Bowie e Mick Ronson, appassionati cultori dell’arte schizoide dei Velvet Underground, riescono nella facile impresa di caratterizzare un suono già urbanizzato, focalizzato interamente sull’ambiguità sessuale. Il Frankenstein gay in jeans, t-shirt bianca e banana in erezione si presenta (per la prima volta) alle masse con un disco meravigliosamente irritante, collezione di brani triviali, tristi e warholianamente frivoli. Il rock crudo e affilato di “Vicious” e “I’m So Free” cede sovente il passo alle atmosfere più agrodolci e teatrali. “Satellite Of Love” e “Goodnight Ladies” sono gemme di un modo diverso di intendere il glam-rock, ossessivo e disperato. Nel cuore nero di quest’odissea della trasgressione svettano veri e propri capolavori. La melodia commovente di “Perfect Day” sposa, così, la swingante “Walk On The Wild Side”, struggente déjà vu dedicato ai personaggi della Factory. La cosa più dolce Nel suo modo d’essere, “Blockbuster” è qualcosa che potrebbe anche essere definito capolavoro. Il primo singolo numero uno degli Sweet è rumoroso, sintetico e tremendamente ottuso, intonandosi con grazia inquietante a un tipo di pop music molto vicino alla filosofia “usa e getta”. Il brano possiede un appeal irresistibilmente banale che, nel giro di qualche mese, perderà tutta la sua forza, in attesa di un degno (?) successore. Gli Sweet assemblano un rock morbido, triviale e artisticamente insussistente, ma arrivano al top grazie a varie apparizioni televisive per le bocche fameliche dei teenager inglesi. Mick Tucker, batterista, afferma senza paura: “Gli Sweet sono la band che tutti hanno paura di amare”. Sarà anche come dice, ma l’album “The Sweet” (Rca, 1973) non riesce a vendere come il relativo singolo e i quattro continuano a ripetere che la loro visione consiste nel creare quante più hit possibile. Tutto il resto, quindi, risulta secondario e la band è sempre più circondata da autori, produttori e consulenti d’immagine per rimanere sulla lunga e stretta via per il successo. Il disco, tuttavia, si rivela fin troppo pretenzioso nella sua veste di album di concetto, imbevuto di un hard-rock collegiale tra Chuck Berry, Elvis e Deep Purple. Questa musica da masticare piace ai fan più giovani, ma, per ora, non riesce a uscire da un tranquillo sabato sera di follie in discoteca. Con Ziggy… Film. “Born To Boogie” è una pellicola estremamente narcisistica e decisamente pretenziosa. Gran parte di essa riprende il magniloquente concerto dei T.Rex a Wembley, seguendo ossessivamente la figura chiave di Marc Bolan. E’, praticamente, un one-man show con il resto della band che sembra scomparire dietro una coltre di lustrini e abiti sgargianti. Il pubblico è in visibilio e l’isteria di centinaia di ragazzine vestite come il loro idolo non può che riportare alla mente l’era felice del primo pop beatlesiano. Ringo Starr, regista e fan, esagera i toni surreali del concerto con Bolan a prendere il tè durante l’intermezzo acustico, ispirato ad Alice e al suo paese delle meraviglie. La musica, insomma, passa in secondo piano, pronta a rientrare in scena solo quando lo stesso Ringo ed Elton John raggiungono la band per una straripante versione di “Tutti Frutti”. Singolo. All’inizio del 1973 sono in molti a pensare che i T.Rex abbiano perso l’iniziale smalto, limitandosi a ripetere all’infinito uno schema musicale ormai consolidato e di sicuro successo. Bolan, in realtà, prepara un album diverso dagli irresistibili stilemi di “Electric Warrior” e “The Slider”, lavorando su un sound più adulto e oscuro. La chitarra tonante di “20th Century Boy” inizia a discostarsi dalla semplice melodia pop e, tra inquietanti cori gospel, cerca di dimostrare al mondo che, si, si può cambiare. Quello che non cambia, per ora, è il successo del gruppo che continua a cavalcare, così, il caro cigno bianco del glam-rock. Chi amerà il saggio Aladino?
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Al Russell Harty Plus show è giorno di rock and roll. Stivali e pantaloni gialli, David Bowie si prepara per lo spettacolo, dando gli ultimi ritocchi al suo viso scavato da insetto. I Ragni da Marte sono posizionati dietro il microfono e si muovono coordinati al nuovo tempo schizoide di “Drive-in Saturday”, singolo in uscita per il 1973. L’occhio psichico di Bowie alza i volumi, andando via da solo sul numero di Jacques Brel, “My Death”. La teatralità è ulteriormente ridefinita dato che la line-up del gruppo si espande a fiati, pianoforte e voci di sottofondo. Qualcosa sta, insomma, cambiando ancora una volta. Ma, soprattutto, la sensazione è che l’alieno polveredistelle stia subendo una radicale metamorfosi, cibandosi del nuovo alter ego di Bowie. La creatura dall’occhio psichico si chiama Aladdin Sane, capelli color carota e linee sottili al posto delle sopracciglia. “C’è una sensazione generale nel mio prossimo album che non riesco ancora a spiegare; una sensazione che non ho mai riprodotto su un mio disco. Penso che sia il lavoro più interessante che abbia mai realizzato”. Probabilmente, la sensazione di cui parla Bowie riguarda il suo nuovo personaggio, meno caratterizzato e più musicale di Ziggy Stardust. Eppure i capelli sono gli stessi, così come certi pezzi di deviato rock and roll. Scritta a New York durante il trionfale tour americano, “The Jean Genie” è un blues elettrico abbastanza tipico, memore della versione di “I’m A Man” degli Yardbirds. La voce di Bowie prosegue con il suo tono isterico, sessualmente attratto dalla chitarra ruvida di Mick Ronson. Eppure si avverte che David inizia a stancarsi della gabbia smaltata in cui è entrato. La trappola, tuttavia, continua a essere benigna, riempita d’entusiasmo nel giorno di San Valentino per lo show al Radio City Music Hall di New York. Bowie sfoggia il suo nuovo costume, Ronson urla con la chitarra elettrica ed enormi globi d’argento creano un’atmosfera da sbarco del Capitano Kirk. Il fascino extra-terrestre vuole che gli uomini sul palco non siano soltanto stelle teatrali, ma vere e proprie figure al di là della volgare normalità. Tra questi, la forza aggiunta Mick Garson al pianoforte che serve all’alieno per rendere più sofisticato il crudo rock and roll con nuovi numeri come “Time” e “Aladdin Sane”. “Questa è per Mick”. La cover di “Let’s Spend The Night Together” è fin troppo di maniera e, insieme al rock-blues di “The Jean Genie”, mostra quanto Bowie abbia bisogno di cambiare pianeta. La gente, tuttavia, impazzisce totalmente per l’esile creatura e non la smette nemmeno dopo l’uscita della band dopo il corto circuito elettrico di “Suffragette City”. Tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, il mondo sembra avere bisogno di David Bowie ed è una donna dal nome warholiano – Cherry Vanilla – che viene incaricata di divulgare a questo mondo quello che fa e pensa David Bowie. Quello che, forse, il mondo non sa è che Ziggy-Alladdin è stufo della sua vita e della sua musica e che, presto, realizzerà il suo proposito ultimo: un suicidio rock and roll. Con Ziggy… Album. “Billion Dollar Babies” (Warner Bros, 1973) è un passo in avanti sulla strada del successo per Alice Cooper. Meno oltraggioso dei precedenti, il disco è più ragionato, elaborato e, di fatto, cerca di operare una sorta di passaggio verso toni più pop e commerciali. Quello che colpisce l’immaginazione del suo pubblico è il tentativo di fondere hard-rock e teatro, tra il canto a squarciagola di “Hello Horray” e la perversione di “Sick Things” e “I Love The Dead”. La provocazione raggiunge livelli esasperati e la voglia di riff sovversivi e inni generazionali (“Elected” e “No More Mister Nice Guy”) sembra essere direttamente proporzionale al desiderio di fama mondiale. I veri necrofili, infatti, non avrebbero un minuto di tempo per un qualsiasi suo album. Con “Tanx” (Emi, 1973), i T.Rex cercano di avvicinarsi all’apoteosi creativa di “The Slider”, ma finiscono soltanto per raccoglierne i frutti, producendo una serie di brani-cloni ottimi se serviti in classifica. Più che vero e proprio album, “Tanx” è un paniere di canzoni, colte con calma dalla terra solida della fama mediatica e artistica. La penna di Bolan sembra più matura, circondata da un alone oscuro che, da lì a poco, segnerà la sua vita insieme a quella del glam-rock stesso. La dolce melodia per archi di “Lectric Slim And The Factory Hen” è un modo per percorrere all’indietro un’intera carriera, risalendo addirittura al mito beatlesiano in “Tenement Lady”. Icona di un popolo, Marc Bolan si diverte a prendere tutti per i fondelli con brani che si presentano come vere e proprie “glammarate”. “Rock Shock” diventa, così, atto d’accusa nei confronti delle nuove leve glamperforza, finte, plastificate. “Se sai fare rock, non hai bisogno di shockare”. “Tanx”, in definitiva, è un disco piacevole, ma svela al mondo che la corsa dei T.Rex ha il fiato corto. “For Your Pleasure” (Island, 1973) è il progetto di un gruppo, ma è anche il parto di Bryan Ferry che, firmando da solo gli otto brani, si impone come unico direttore artistico dei Roxy Music. Non si vive di soli pedaggi da pagare e, allora, diventa fondamentale un suono nuovo che, solco dopo solco, si esprima con classe genialoide. La band è agilmente in equilibrio su un filo sottile: il disco non è insieme di canzoni nello stesso stile del debutto e non è un cambio di direzione. E’, semplicemente, un disco dei Roxy Music, forse meno sperimentale, ma, sicuramente, più compatto e coerente se non addirittura maturo. L’allucinata “Do The Strand” è l’inno futuristico di una nostalgia musicale, creazione di un gruppo di liceali sparato nel ventunesimo secolo. Sempre più esteta decadente, Ferry sembra uscito da un film di Hollywood degli anni 30 e la sua voce alimenta brani disperati come “In Every Dream Home A Heartache”. La lezione deviata dell’uomo che ha venduto la terra impregna l’album verso la sua conclusione, tra il martellare romantico di “Grey Lagoons” e, soprattutto, l’apoteosi paranoica di “The Bogus Man” che, sotto forma di collage impazzito, mette in scena tutti i frammenti sonori di Ferry e soci. Un tris di guru Brian Eno, Todd Rundgren, John Cale. Per loro il glam è solo una delle infinite variabili di un approccio onnivoro, gettato a capofitto all'inseguimento d'ogni possibile sperimentazione sulla popular music. Un po’ padri nobili, un po’ a loro volta contagiati dal nuovo clima, partoriranno opere che, seppur non rigidamente catalogabili nel filone, saranno in qualche modo riconducibili al clima di quegli anni.
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Pioniere negli intrepidi Roxy Music, Brian Eno entra in collisione con Bryan Ferry sui futuri progetti del gruppo, così molla tutto e si mette in proprio. Se il sodalizio col re cremisi Robert Fripp (“No Pussyfooting”) è pura full-immersion avanguardistica, lo spirito di "Here Comes The Warm Jets" (E.G. Records, 1973) risente ancora dell'ubriacatura glam dei primi Roxy. "Needles In The Camel’s Eye", ad esempio, risfodera le chitarre taglienti di Phil Manzanera (anche co-autore del brano), affogando in languidi deliqui bowiani. "The Paw Paw Negro Blowtorch" è un altro bozzetto assurdista: follia teatrale e tastiere impazzite a suggellare una piece torbida. E ancora la malia fifties virata acida di "Cindy Tells Me", il free-glam tastieristico di "On Some Faraway Beach", la stupefacente performance al sax dell'altro Roxy, Andy MacKay, su "Some Of Them Are Old", l'inno psichedelico di "Baby's On Fire" e l'apoteosi chitarristica della title track. Tutte gemme di un (post)glam ormai deragliato lungo le "strategie oblique" del non-musicista di Woodbridge. Passa un anno. E la nuova impresa si chiama "Taking Tiger Mountain (By Strategy)” (Island, 1974), con Robert Wyatt alle percussioni e Phil Manzanera alle chitarre. Sempre con ironia distaccata da dandy, Eno combina le nuove tecniche di studio e il cerebrale dadaismo di Wyatt, coniando un autentico "trattato musicale" post-moderno. Si susseguono pastiche surreali, come il valzer marziale di "Back In Judy's Jungle" e il coro da pub della title track, ma anche esperimenti ambiziosi ("Fat Lady Of Limbourg", "Great Pretender" e "China My China"), che sposano tradizione orientale (nenie giapponesi, bacchette cinesi, gong etc.) e strumentazione rock. A completare il lotto, filastrocche nevrotiche, come "Mother Whale Eyeless" e "Burning Airlines", dal refrain ossessivo, interpretate con un canto distaccato da androide. Eno declina la lingua dell'avanguardia con elementi pop e retrò, giocando in modo spericolato su suoni e astrazioni. Todd Rundgren è uno dei primi e più grandi stregoni del rock, capace appena diciassettenne di farsi largo nel frastagliato universo garage psichedelico degli anni 60 coi Nazz, di sfornare autentici capolavori melodici come solista all'inizio dei 70 e nel contempo di lanciarsi nel più sfrenato "hard-prog" sotto la sigla Utopia. Tutto questo, concedendosi nel frattempo il lusso di produrre una serie sterminata di album degli artisti più disparati. La sua musica è avanguardistica e, al contempo, involuta, perché proprio nel bel mezzo di una suite proto-punk riflette su stessa, e si compiace e si amalgama in un break repentino dominato da atmosfere da romantico ballo sotto le stelle. Rundgren anticipa il punk di qualche anno, si prende gioco dell'hard-rock. Con lui, il surf riprende a volare sulla cresta delle onde. Al glam dà praticamente del tu. E la musica progressiva assume con lui nuove forme. Gli orpelli e i barocchismi, infatti, vengono messi in un angolo, in favore di un suono che va a scandagliare nel futuro. Il pop più puro e melodico si eleva a forma d'arte senza finalità di musica usa e getta. Il cabarettismo trae nuova linfa, coniugandosi con il rock, come in una recita di una nuova Hollywood. Tutto questo è "Something/Anything?" (Bearsville, 1972). Per Rundgren rappresenta il sogno di una vita: quello di plasmare e manipolare in un tutt'uno generi, sottogeneri, stili e mode passate. Ecco allora eleganti saggi di pop beatlesiano ("I Saw The Light", "It Takes Two To Tango"), numeri soul ("It Wouldn't Have Made Any Difference", "Sweeter Memories"), torrenziali r&b ("Wolfman Jack", "Slut"), ballate romantiche ("Cold Morning Light", "Torch Song"), bizzarri esperimenti elettronici ("Breathless"), caroselli di teatrini circensi ("The Night The Carousel Burnt Down"), mini-suite ("Song For The Viking"), assalti chitarristici ("Little Red Lights", "Some Folks Is Even Whiter Than Me"). La sua carriera proseguirà tra alti e bassi, ma la ricerca di nuove fonti gli permetterà di reinventarsi e risorgere sempre. Così come il movimento glam era stato ispirato dal rock oscuro dei Velvet Underground, le due principali menti di quel gruppo trovano nei primi anni 70 a Londra nuovi stimoli artistici negli esponenti più validi del glam stesso: Lou Reed trova un mentore nell'icona David Bowie, John Cale entra in stretto contatto con la cerchia degli altri alfieri del rock decadente, ovvero i Roxy Music, nelle persone di Brian Eno e di Phil Manzanera. Un anno prima, però, Cale aveva già espresso una personale variazione sul tema con “Paris 1919” (Warner, 1973), frutto della perfetta fusione tra il suo animo “classico” e quello rock. Si va dal pop quasi beatlesiano di "A Child's Christmas In Wales" alla mini-suite da camera della title track, dalle atmosfere folk rarefatte di "Hanky Panky Nohow" e "Andalucia" al country hard-rock di "Macbeth", dall'enfasi orchestrale della drammatica "Endless Plain Of Fortune" alle atmosfere sognanti di "Antarctica Starts Here", capolavoro del disco, guidata dal piano elettrico e dalla voce sussurrata di Cale, per poi aprirsi in un crescendo di harmonium e batteria, prima di spegnersi subito dopo. La maturità compositiva di Cale fa leva su uno spiccato senso della melodia e arrangiamenti curatissimi, anche se a volte un po' troppo ridondanti. Messo sotto contratto dalla Island Records, Cale dà alle stampe tre album cruciali per la sua carriera (racchiusi nella raccolta “The Island Years”, uscita nel 1996), in cui la sua arte di songwriter si fonde con certe istanze elettroniche e rumoristiche, influenzate dalla collaborazione con Eno e Manzanera. Tutto ciò è evidente soprattutto nel primo di questi lavori, “Fear” (Island, 1974), la cui title track è forse la sintesi massima della sua arte: una ballata pianistica che sfocia in puro delirio, rumori e urla convulse e psicotiche, in cui sono racchiuse quella paranoia e quel senso di claustrofobia che l’hanno sempre accompagnato. Oltre alla forte ascendenza del lavoro di Eno, nel disco è presente anche una delle maggiori influenze di Cale, i Beach Boys, omaggiati su "The Man Who Couldn't Afford To Orgy". Capitolo Tre 1973 Suicidio rock and roll La stella più bella A quasi un anno dalla sua esplosione, David Bowie è estremamente prolifico nello scrivere di sé come artista rock. La sua candida bisessualità e i vestiti luccicanti provocano una vera e propria spaccatura, tra adulazione al limite dell’isteria e intolleranza ortodossa nei confronti di tutto uno showbiz volutamente artificiale. Diventa, così, impossibile rifiutare o accettare la sua stilosa e triviale immagine. “The Man Who Sold The World”, “Hunky Dory”, “Ziggy Stardust”: la creatura dietro questo trio di album intellettuali è lontana anni luce dalla tradizionale considerazione poetica di un songwriter. Un po’ Colin Wilson, Bowie insegue l’obiettivo primario di disconnettersi da una pulsante umanità per analizzare valori assoluti piuttosto che noiosi problemi quotidiani. E’ un interesse vivo per il futuro, per le possibilità di concetti astratti come la filosofica definizione di “sano” o la nozione di evoluzione mentale e sesto senso. Ed è proprio questo desiderio di disconnessione che irrita maggiormente la fazione anti-Bowie, unita contro il suo essere più che pretenzioso, spazialmente egocentrico. David spezza il continuum folk di Bob Dylan e porta nel rock and roll un intellettualismo che è vera e propria rivoluzione: un pensiero originale combinato con una musica eccitante. Come dire che “Life On Mars?” abbia più cose in comune con Sartre che con Chuck Berry. Il nuovo cabaret malinconico della vita mette in scena l’agonia di Ziggy Stardust con un susseguirsi delizioso di alti e bassi. “Aladdin Sane” (Rca, 1973) è il sonoro comitato di benvenuto al prossimo alter ego di Bowie che macina riff per compiere la sua metamorfosi. l rock and roll polveredistelle è ancora presente nelle vene di Ziggy e la chitarra di Ronson ruggisce perentoria fin dall’inizio in “Watch That Man”. Nella title track, tuttavia, il piano di Mike Garson crea un’atmosfera plumbea e inquietante e, più che su un palco di luci, sembra di stare in un night-club il giorno dopo una catastrofe atomica. La voce di Bowie è malinconica, ma recupera subito un tono nervoso nel pop inquieto di “Drive-in Saturday” e nel miscuglio Stones-Yardbirds di “Panic In Detroit”. La nuova direzione sembra, insomma, guardare al futuro con gli occhi dietro la schiena, tra la solita storia di anziane star del cinema marca Lou Reed (“Cracked Actor”) e illuminanti intuizioni brechtiane (“Time”). Il sentimentalismo di “The Prettiest Star” e “Lady Grinning Soul” viene intervallato dall’energia perversa della fedele cover di “Let’s Spend The Night Together” e dal proto-garage di “The Jean Genie”. In “Aladdin Sane”, quindi, non c’è soltanto bisessualità e voglia di provocare, ma una più ricercata raffinatezza autoriale per un nuovo cambio d’abito musicale. Con Ziggy… Album. La East Coast americana alla scoperta del nuovo sound britannico. "A Woofer In Tweeter’s Clothing" (Bearsville, 1973) è il secondo arrivato in casa Sparks, stralunato progetto dei fratelli di Los Angeles Ron e Russel Mael. I due rimangono folgorati sulla via dell’art-glitter-rock inglese e si mettono progressivamente al lavoro per sviluppare un music-hall nevrotico e futurista, ricco di humour nero e sfumature cabarettistiche. Gli insegnamenti di Marc Bolan possono essere davvero preziosi e, così, il falsetto di Russell si insinua perfettamente in brani come “Girl From Germany” e “Beavy O’Lindy”. Il senso della melodia si avvicina al dadaismo: “The Louvre” e “Angus Desire” vanno al di là di Bolan, prendendo spunto dalle atmosfere esotiche di Ferry ed Eno. In questi termini verrebbe da ammettere che il capellone e lo strano tizio Hitler-Chaplin siano semplicemente dei coraggiosi ammiratori. Gli Sparks, tuttavia, sono molto di più e questo disco ce lo fa già intravedere. Singoli. Escluso dal secondo album, “Pyjamarama” è l’ulteriore, sensuale tassello nell’intelligente mosaico sonoro dei Roxy Music. Aperto in stile Who, il brano si snoda tribale, selvaggio, ma allo stesso tempo sofisticato e terribilmente pop. Uno squarcio, tuttavia, apre la sua trama e il sax lacerato disturba/delizia per ribadire che la band di Ferry ha una marcia in più nel panorama musicale del momento. C’è, infatti, chi si attiene rigidamente alle regole. Gary Glitter cerca di cavalcare l’onda di “Rock And Roll Part 2” e si limita al copia-incolla del suo stesso schema. “Hello! Hello! I’m Back Again” ripropone un suono tribale al limite della robotica mentre “I’m The Leader Of The Gang” scimmiotta vecchi inni generazionali per gioventù ribelli. Meglio, almeno, il talento sexy e divertito di Suzi Quatro, che assapora per la prima volta il successo con “Can The Can”. Il brano è palesemente strutturato sulla linea di Glitter, resa ancora più blues da cartoline americane dei Canned Heat di “On The Road Again”. Suzi, tuttavia, sembra non interessarsi alla cosa per godersi semplicemente il suo primo pezzo da classifica. Alle classifiche continuano a pensare gli Slade che tornano ad armonie vocali anni 60 in “Skweeze Me, Pleeze Me”, molto vicina alla recente “Elected” di Alice Cooper. La sensazione è che una grande confusione sta per abbattersi sul glam-rock: con “Hell Raiser”, gli Sweet cercano di attirare l’attenzione di un pubblico più duro e metallico. Grida ed esplosioni di chitarra tradiscono, tuttavia, un inconscio tentativo di seguire il nuovo Bowie. Ha forse, allora, ragione Marc Bolan? Roxyrama I Roxy Music amano gli alberghi di lusso, ma non inseguono il denaro, soprattutto se si deve parlare di musica. I biglietti verdi piovono dalle vendite dei dischi e, di conseguenza, un tour è soltanto spettacolo, messo in piedi per divertirsi e presentare al pubblico nuove canzoni. La band è a Parigi e Amanda Lear, sensuale protagonista della copertina di “For Your Pleasure”, vuole organizzare un incontro con un certo Salvador Dalì. L’intellettualismo di Ferry passa sicuramente anche di qui. Dal surrealismo al fantasma di Edith Piaf, i Roxy entrano nella cultura pop del 1973, aspettando dietro le quinte nella vecchia sala da ballo dell’Olympia. Lo show ha inizio e, con esso, l’attenzione ricercata per il dettaglio sonoro che rende grande questa band. La chitarra trattata e l’alto sax di “Do The Strand”, le sviolinate di sintetizzatore di “Editions Of You”, il controllo vocale in “Beauty Queen”. Bryan Ferry è, ormai, l’incontrastato mastro cerimoniere dell’arte dei Roxy, ammaliante animale da palcoscenico, eccentrico carisma umano. Non si può, quindi, parlare più di meteora, di canzoni ordinarie, di musicisti medi. Il concerto di Parigi è, sostanzialmente, lo stesso dell’ultimo tour inglese, ma è la politica generale del gruppo e nasconde una grande preparazione alla base. Al Rainbow di Londra i Roxy dimostrano di saper controllare a memoria le loro canzoni, rafforzando uno spettacolo che vede solo come un pallido ricordo i tentativi coraggiosi di un anno prima. Quello che fa tanto glam – le giacche luccicanti, la seta – diventa qualcosa di futile perché, ovviamente, la cosa più importante è la musica. E, qui, l’esitazione è svanita, seguendo le mosse feline di Ferry tra tastiere, microfono e chitarra. La sirenetta pallida Brian Eno, l’autorità della Gibson di Manzanera, le tempeste di sax di Mackay. "Re-Make/Re-Model" fa venire giù il teatro e la gente non sembra minimamente intenzionata a uscire, non prima di aver ascoltato il bis di “Virginia Plain”. La Roxyrama è in trionfo. Suzi Q Quando il singolo “Can The Can” arriva al numero sei della Pop 30 di Melody Maker, la piccola Susan Kay Quatrocchio da Detroit, Michigan si presenta raggiante alla scrivania del suo boss. All’inizio degli anni 70, Mickie Most vola negli Stati Uniti per produrre un disco di Jeff Beck e, nei ritagli di tempo, ascolta un concerto di una band femminile a nome Suzi Soul & The Pleasure Seekers. Leader del gruppo, Suzi Quatro è stanca di essere relegata in un angolo dal maschilismo musicale e parla con Most a proposito della sua voglia di dimostrare di essere brava quanto un uomo. Nel 1971 la musicista molla le ragazze, fa le valigie e attraversa l’oceano per entrare direttamente in uno studio di registrazione di Londra. Suzi, tuttavia, ha fame di palcoscenico, acuta osservatrice del fermento musicale del momento e per nulla intimorita dalla concorrenza, ambigua, ma pur sempre “fallocentrica”. La sua band è, questa volta, di sesso opposto e, basso tra le gambe, la ragazza vuole suonare un rock and roll duro e crudo, senza intellettualismi, senza ego. Solo Suzi e i suoi uomini. Dopo il fallimento del primo singolo “Rolling Stone”, Most la affida alla coppia d’autore Nicky Chinn/Mike Chapman: “Can The Can” arriva al numero uno in mezza Europa. E’ il trampolino di lancio verso la fama, alimentata da un tour con gli Slade e, soprattutto, da continue dicerie che la vogliono risposta con le tette a Marc “cignobianco” Bolan. L’ultimo spettacolo
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Londra, 3 luglio 1973. Sul palco dell’Hammersmith Odeon si accende, per l’ultima volta, il falò delle vanità di Ziggy Polveredistelle o Saggio Aladino o, semplicemente, David Bowie. Si celebra l’ultimo atto nella vita di una stella, di un genio melodrammatico, di un mastro di cerimonie rock and roll. Con gli ultimi due spettacoli londinesi, Bowie salva se stesso e, uccidendo la sua creatura aliena, salva il futuro di milioni di seguaci in tutto il mondo. Il mostro dai capelli carota non la smetteva, infatti, di bere dalla tazza vitale della decadenza, annullando l’individualità di tutti i suoi giovani adepti, pronti a seguirlo in qualsiasi galassia. Se Mick Jagger è vero, sanguigno ribelle, David Bowie sembra tirare giù nel baratro ogni possibilità di rinascita individuale. Come guardare “Arancia Meccanica” e picchiare a morte un barbone o lasciarsi ipnotizzare dall’occhio orwelliano di “1984”. Bowie capisce che la perversione non è più divertente e, così, fa esplodere la stella aliena nello show degli orrori dell’Hammesmith Odeon. L’adrenalina collettiva viene catturata e polverizzata sulle note solenni di Ludwig Van. A Londra emerge, quindi, la vera identità di un artista carismatico, intelligente, non umano. In semplici jeans, Jeff Beck sembra quasi una nullità, pur magnifica nella parentesi più blues di “White Light/White Heat” e “The Jean Genie”. La tensione vanesia punta soltanto Bowie che medita sull’imminente suicidio artistico. “Questo non è soltanto l’ultimo concerto del tour, ma anche l’ultimo concerto che faremo”. “Rock And Roll Suicide” è la Piaf che si fuma una sigaretta sul tetto del mondo del pop. Persino le lacrime delle ragazzine sembrano deliziosamente, minuziosamente programmate. Con Ziggy/Aladdin/Bowie muore un organo vitale del glam, ma è il ragno Mick Ronson che spiega razionalmente cosa succederà dopo. “No. Non abbiamo neanche iniziato. David ha bisogno di cambiare, non può essere sempre lo stesso. Ci mancheranno le folle adoranti e il glamour, ma continuare non sarebbe giusto. Bowie deve diventare una leggenda e questo è l’unico modo per farlo”. Capitolo Quattro 1973-1974 Furia giovanile “Proviamo a rappresentare un cambiamento nel comportamento dei ragazzi che adesso sono più consapevoli di essere arrabbiati. E’ una critica sociale e parla del fatto che i ragazzi sentono di essere una forza autonoma e che possono avere un impatto sulla vita delle persone al di là di ogni aspettativa. E va considerato che hanno più denaro e, quindi, un maggior potere d’acquisto. Parliamo di ragazzini tra i quattordici e i sedici anni più che di diciannovenni che hanno già un lavoro e uno stile di vita consolidato e che, probabilmente, sono già usciti dal periodo di cui parliamo nella canzone. Gli autori scrivono per un mercato e si rendono conto di quello che accade intorno. Realizzare un pezzo come ‘Teenage Rampage’ è come dire ai ragazzi che sono riconosciuti e, soprattutto, rispettati nella società odierna. Non conosco Marc Bolan e, forse, ci ha addirittura copiati, ma nulla è accaduto al sogno giovanile perché non è assolutamente un fenomeno che sta per morire”. Nicky Chinn (co-autore di “Teenage Rampage”, ultimo successo degli Sweet) “Penso che “Teenage Rampage” degli Sweet sia un pezzo grandioso. Non solo perché adoro gli Sweet, ma perché parla di una vera e propria rivoluzione guidata dai giovani sulle generazioni più vecchie”. Linda, diciassette anni da Cardiff In piedi per la regina All’inizio dei 70, i due amici Freddie Mercury e Brian May mettono su una band istrionica, convinti di poter portare il glam-rock su un nuovo livello, sviscerandolo dall’interno. La prima musica dei Queen suona particolarmente dura, aggressiva e, quindi, decisamente mascolina. Non ci sono colori volutamente omosessuali, ma una inquietante opposizione di bianco e nero che, nella mente dei quattro, rappresenta una doppia natura di buio e luce. Fin dagli inizi vacillanti degli Smile, la band insiste su questo concetto più o meno originale, ma non può ignorare il fatto di essere, forse, arrivata troppo tardi nel panorama musicale inglese. Sono i produttori John Anthony e Roy Baker che spingono i Queen a registrare alcuni demo, ma la difficoltà nel trovare un’etichetta è enorme. Almeno fino alla decisione fatidica della Emi. May e compagni, tuttavia, lavorano sodo per entrare nel gran calderone dello showbiz glam e hanno la giusta presunzione di piacere nonostante Bowie e Bolan abbiano già spopolato con l’immagine stereotipo del periodo. “Il concetto che anima i Queen è l’essere regali e maestosi. Il glamour è parte di noi e vogliamo essere dandy. Vogliamo shockare ed essere oltraggiosi. Non ci interessa se la gente ci ama o no, ma che si formi una determinata opinione quando ci viene a vedere”. Il primo disco dei quattro, “Queen” (Emi, 1973), rappresenta, in modo confuso, i loro intenti artistici ed è una serie di canzoni differenti tra loro. Il rock and roll sparato viene ammorbidito da dolci ballate malinconiche e, più che Beatles e Rolling Stones, a venire in mente sono certi manierismi degli Yes e sfuriate deviate dei Black Sabbath. Il riff cromatico di “Keep Yourself Alive” è il manifesto originale (?) di una band che non vuole limitarsi a ripetere gli stilemi del glam-rock commerciale. Eppure la forza del singolo profetizzata da Bolan resta importante per i Queen nonostante straparlino di andare oltre il pop degli Sweet. Dopo Ziggy… Singoli. Sulla scia del successo internazionale di “Can The Can”, Suzi Quatro accelera i tempi, pubblicando un nuovo tormentone, “48 Crush”. La premiata ditta Chinn/Chapman, tuttavia, si adagia sul divano rock and roll e le variazioni rispetto al tribalismo del precedente sono davvero minime. Più che una Bolan con le tette, la Quatro si avvicina agli stilemi pacchiani di Gary Glitter e, infatti, il successivo singolo “Daytona Demon” è una versione horror di “Leader Of The Gang”. Un po’ troppo tardi, quindi, per potersi permettere di ripetere lo stesso schema, ma la sensualità aggressiva della ragazza conquista e funziona benissimo in classifica. Gli Slade, nel frattempo, sembrano aver perso l’iniziale mordente proletario, concedendosi a un pop sempre più blando e commerciale. Il vecchio “stomping” viene diluito in “My Friend Stan”, ma la marcetta beatlesiana di “Merry Xmas Everybody” ha un appeal perfetto, accompagnando con calore il Natale del 1973. Continua, poi, l’indurimento degli Sweet che arrivano ancora al numero uno con il proto-punk “Ballroom Blitz”. Eccentrici solisti del glam, David Essex e Gary Glitter consolidano un appeal pacchiano e privo di pudore. “Rock On” va al di là di qualsiasi logica musicale, tra basso, bonghi e voce in riverbero che potrebbero provocare le ire funeste di qualsiasi musicista anni 50. “I Love You Love Me Love” è, invece, il frutto di ubriachezza molesta nel tentativo di intonare una antica ballata doo-wop. Il declino di un certo tipo di glam esagerato e fin troppo fittizio preoccupa e deprime il talento naturale di Marc Bolan, che non può far altro che continuare a ripetersi in “Truck On (Tyke)”. La giusta dose di freschezza viene, invece, portata dai Roxy Music che, con “Street Life”, confezionano un pop nervoso e isterico degno del miglior Lou Reed. Il rock del coccodrillo Sul palco dell’Hollywood Bowl di Los Angeles, Elton John supera se stesso e regala a un migliaio di spettatori uno dei concerti più intensi e variopinti della sua carriera. Il suo stile selvaggio e oltraggioso fa da apripista alla musica, tra occhiali improponibili, cappelli a cilindro e gilet luccicanti. Un perfetto personaggio per una storia surreale di Lewis Carroll. Linda Lovelace, star del controverso film a luci rosse “Gola Profonda”, introduce sensuale: “Signore e signori, nella tradizione della vecchia Hollywood lasciate che vi presenti la regina d’Inghilterra”. Scende, così, Elisabetta II, seguita a ruota da Elvis Presley, Batman e Robin, Frankenstein, Groucho Marx e Mae West. Solo attori per anticipare l’ultimo attore dello show, Elton John. Il pubblico è in delirio, sovrastato da cinque pianoforti colorati e circondato dalle prime note di “Elderberry Wine”. La pantomima è finita e la musica prende posto nella sala per un concerto tirato di due ore, tra vecchie e nuove canzoni fino al doppio bis con la cover di “Honky Tonk Women”. Elton è come un rullo compressore e le sue intuizioni hanno almeno il pregio dell’immediatezza, della semplicità, del piacere ludico. Non si cerca, insomma, l’ipotesi rivoluzionaria, ma basta il divertimento puro come nella tenera “Daniel” o nella buffa e irresistibile “Crocodile Rock”. E’ un pop ameno e populista, formato da brani a presa rapida che, in notti come questa di Los Angeles, sa conquistare occhi, orecchie e cuori. Pin-Ups Dopo il suicidio/omicidio dell’alieno polveredistelle, David Bowie torna a piede libero nel mondo del rock. Come per catturare la vera essenza della sua gloria, una truppa della rete televisiva americana Nbc sbarca al Marquee di Londra in vista di una puntata con i fiocchi di “Midnight Special”. Ci sono un po’ tutti attorno all’esile David che, nonostante la trovata drammatica dell’Hammersmith Odeon, continua a cavalcare l’onda del successo. Marianne Faithfull intona “As Tears Go By”, i Troggs pestano duro e un trio di ballerini – gli Astronettes – rende lo spettacolo più arioso e teatrale. Mick Ronson e Trevor Bolder legano ancora Bowie al recente passato, accompagnati dal nuovo batterista Aynsley Dunbar, già con John Mayall e Frank Zappa. Il primo brano è una versione spiritata del vecchio classico dei Mojos, “Everything’s All Right”. Poi parte il riff di “I Can’t Explain” degli Who. Forse per rifiatare dopo la sarabanda aliena, Bowie pubblica “Pin Ups” (Rca, 1973), disco interamente composto da cover di classici più o meno conosciuti. L’album è una boccata d’ossigeno fra i miti giovanili ed è, inoltre, un modo per celebrare la creatività dell’età dell’oro del rock tra il 1963 e il 1967. Verso la metà degli anni 70, tuttavia, il business musicale cambia repentinamente e sparisce un modo di fare musica veloce, diretto, pieno d’azione. Sparisce la vecchia incertezza delle classifiche che, ora, sono fondamentali in un continuo miraggio da terra promessa. Vedere Slade. Vedere Sweet. Vedere Suzi Quatro. “Pin Ups” segue le regole del 1973, consegnando al popolo glam chicche come “Shapes Of Thing” (Yardbirds) e “Where Have All The Good Times Gone” (Kinks). Dove, appunto, vanno a finire i bei tempi? Perché l’album è mediocre e, soprattutto, non riesce a giustificare la sua necessità. Bowie, tuttavia, sul palco del Marquee sembra sereno nella sua ispirazione. “Abbiamo scritto un musical e questa è la canzone omonima, “1984”. Dopo Ziggy…
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Album. Con “Stranded” (Island, 1973), le ambigue scatole cinesi dei Roxy Music si aprono nuovamente e, questa volta, c’è la voglia di lottare per diventare vera e propria band rock and roll. La sinistra sperimentazione sembra sprofondare con gli abissi della mente di Brian Eno che lascia il gruppo a causa di una diversità inconciliabile di vedute artistiche. Senza diavolerie elettroniche, il mefistofelico Bryan Ferry può correre a briglia sciolta, seguendo liberamente il suo umore decadente, regnando incontrastato sulle tante ossessioni liriche. Il Grande Scontro, in pratica, trasforma i Roxy in una generale idea sonora ad immagine e somiglianza di Ferry. Prevedibilmente, “Stranded” è, così, un disco più classico, meno azzardato e sperimentale, molto più vicino al formato-canzone. Tutto questo, ovviamente, non significa che il terzo lavoro ufficiale del gruppo sia da bollare come “minore”. “Stranded” è, forse, il disco più a lungo cercato da Bryan Ferry che pone, in questo modo, fine al gioco sonoro delle scatole cinesi per atmosfere forti, confidenziali, sinuose. E’ un vecchio-nuovo senso di spazialità, guidato dal sintetizzatore del violinista Eddie Jobson (ex-Curved Air) nel melodioso singolo rubacuori “Street Life”. E’ l’immediatezza della voce di Ferry che predilige, ora più che mai, delicate ballate come “Just Like You” o infinite architetture oscure come “Psalm”. Il disco rimane, tuttavia, un compatto lavoro di gruppo: “Amazona”, primo parto creativo di Manzanera, allarga le maglie dei Roxy, virando verso un funk sensuale. Sensualità romantica, disperata che si arrampica sull’inno poliglotta e un po’ spectoriano di “A Song For Europe” e raggiunge la sua piena grandezza in “Mother Of Pearl” che, tra Beefheart e Stones, sale corale con genio e ambizione. l 1973 sarebbe sicuramente un anno più povero senza questo disco. Stelle o meteore? Chi è Alvin Stardust, il misterioso Elvis che, all’improvviso, scala le classifiche inglesi a velocità furiosa? Con una band di stramboidi in magliette attillate, Alvin realizza un brano a presa rapida, “My Coo Ca Choo”, il cui frivolo sapore rock and roll anni 50 spopola tra i palati più commerciali. Shane Fenton, alla guida dei Fentones, gusta un primo successo agli inizi dei 60 con due brani, “Moody Guy” e “Cindy’s Birthday”. Star del “Saturday Club”, l’uomo in guanti neri termina il suo percorso musicale con l’ultima hit “It’s All Over Now”. Il 1973, tuttavia, si rivela ottimo terreno per rinascere, rendendo più glamour il nome e ritagliandosi una piccola parte nel grande cabaret del glam-rock. La risposta al suo rock and roll vecchio stile sorprende tutti – in primis lo stesso Alvin – e, così, una nuova stella si ritrova a brillare senza nemmeno essere presente sulle mappe. Sarà, come dice Jerry Brandt, una questione di stile, gusto, eleganza e bellezza. Qualità dimenticate, insiste, in un mondo dominato dalla bruttezza e dalla volgarità. Brandt è il folle manager e mentore di una creatura plastificata che porta il curioso nome di Jobriath. “Il motivo per cui mi sono lasciato coinvolgere, la fonte di tutta la mia eccitazione, è la possibilità di trasformare questo casino generale in qualcosa di bello, artistico, teatrale. Una sorta di favola. Jobriath è la fata di questa favola”. La fata americana Bruce Wayne Campbell sembra avere molti volti e, forse, nessuno: compositore, arrangiatore, cantante, ballerino, pittore, mimo, uomo, donna. Più semplicemente – e realisticamente – una delle prime star di massa del pop dichiaratamente gay ed esplicitamente pubblicizzata fino al disgusto. Licenziato dal musical “Hair”, Bruce attira l’attenzione dell’ambizioso promoter Jerry Brandt che, convinto di aver scoperto la Greta Garbo del pop, gli offre un contratto di mezzo milione di dollari con la Elektra Records. I due volano verso il fermento glam di Londra per registrare un primo, insignificante album, “Jobriath” che dovrebbe fare di Bruce “il più grande artista del mondo”. “Jobriath è Crosby, Sinatra, Presley e i Beatles messi assieme”. Sarà anche vero, ma la Garbo del pop arriva tardi: il sipario sul glam-rock stesso sta calando inesorabilmente. Le bambole di New York
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A smaltare le unghie del rock and roll col rossetto ci pensano, nel 1973, i/le New York Dolls, band viscerale di travestiti in piena regola. Il complesso si forma a New York nel 1971 quando gli Actress del chitarrista maledetto Johnny Thunders incontrano il cantante sboccato David Johansen nei club più degradati ed equivoci della città. Completato dal basso à-la Bo Diddley di Arthur “Killer” Kane e dalle rasoiate della chitarra di Syl Sylvain, il gruppo adotta uno stile da Rolling Stones in overdose, presentandosi sul palco come un insieme di battone da marciapiede. L’oltraggio visivo si accompagna a quello sonoro con uno spirito esecutivo selvaggio e feroce, memore delle nevrosi epilettiche degli Stooges e delle carneficine degli MC5. Il rock per omosessuali delle New York Dolls è il volto degenerato e suburbano della decadenza inglese, tra riff sparati a mille, distorsioni telluriche e urla tribali. “New York Dolls” (Mercury,1973) è la sintesi corale e perfetta del beat sporco anni 60 e del rock maledetto anni 70, calcando oltre ogni limite la mano del glam e del kitsch. Un pugno (allo stomaco) di canzoni prodotte da Todd Rundgren e destinare, tra devianza e vomito incontrollato, un’epoca. Il vecchio riff di Chuck Berry e poi degli Stones viene stravolto e trasformato in dinamite come nella vertigine di “Subway Train”. Le bambole prediligono l’inno epilettico, marziale e velenoso e il trittico “Personality Crisis” – “Looking For A Kiss” – “Trash” ne sviscera senza sosta le possibili espressioni. Otto brani, quindi, per un incontro musicale cruciale: la decadenza dei Velvet Underground con la follia violenta degli Stooges, le pose di Marc Bolan con il furore degli MC5. In una sola parola, punk. Nella fabbrica di hit Al sesto piano di un esclusivo palazzo nel cuore di Mayfair lavora la coppia di autori del momento che, negli ultimi dodici mesi, ha collezionato un numero impressionante di successi pop da classifica. L’australiano Mike Chapman e il benestante Nicky Chinn non sembrano avere mezze misure, scrivendo brani come dei veri perfezionisti, artigiani del glam-pop al servizio di piccole star come Suzi Quatro, Sweet e Mud. La visione esplicita di un’attuale rivoluzione giovanile prende forma nel pop and roll marziale di “Teenage Rampage” che lancia definitivamente lo pseudo-hard-rock da collegiali degli Sweet. Il brano è solo una copia sbiadita e plastificata dei vari inni generazionali in musica, ma Chinn e Chapman sono più che mai decisi. “E’ il brano che riassume tutto quello che sta accadendo. I ragazzi stanno imparando molto velocemente e, nell’aria, c’è molta aggressività, tensione. Scrivendo brani aggressivi riusciamo a cogliere i veri sentimenti di questi ragazzi che, così, possono sfogarsi ballando”. E’ per ballare, infatti, che viene lanciata “Tiger Feet” dei Mud, il cui boogie artificiale spopola nel programma Top Of The Pops, ma soprattutto, nelle discoteche di mezza Inghilterra. E’ Chapman a continuare il solito discorso: “E’ l’immenso riconoscimento che devono avere, oggi, i giovani. C’è un vero movimento giovanile nella musica. Ognuna di queste canzoni rappresenta uno stato d’animo giovanile. Tutto quello che facciamo è dare ai ragazzi la possibilità di riconoscere se stessi attraverso le canzoni. Uno specchio per vedere se stessi”. Regalità rock Freddie Mercury è un ragazzo sensibile e delicato, ma, soprattutto, attento nei dettagli. Lo smalto nero su una sola mano simboleggia la doppia natura dei Queen che, nella sua visione, non hanno alcun bisogno di lottare per diventare grandi perché, semplicemente, lo sono già. Nonostante Nick Kent dell’Nme parli – a proposito del primo album – di “urina musicale”, i quattro sono al secondo posto, tra i migliori gruppi emergenti, nel sondaggio della stessa rivista. Quello che veramente importa, in fondo, è il successo di pubblico e la fuga impetuosa per piano di “Seven Seas Of Rhye” sembra piacere tanto a molti in Inghilterra. Le prime architetture soniche dei Queen, certamente, non si distinguono per originalità, tra derive elettriche di stampo sabbathiano/zeppeliniano e ghirigori barocchi e progressivi à-la Yes. La forza decadente e dandy, tuttavia, affascina gli ascoltatori che apprezzano i toni alti, ruvidi mescolati a certe morbidezze liriche. In “Queen II” (Emi, 1974), le idee ambiziose della band si sviluppano ulteriormente, facendo emergere una certa predisposizione alla ridondanza nella marcia regale di “Procession”. Il rock duro degli Who viene filtrato sotto l’ombra tragica di un manicheismo cromatico che oppone la tenerezza ipnotica di “White Queen” all’inquietante pop barocco di “The March Of The Black Queen”. Due diversi approcci sonori uniti da cori in falsetto, accordi oscuri e stornelli melodici per una maggiore consapevolezza dei propri mezzi al limite dell’egocentrismo collettivo. I Queen stanno creando, in sostanza, un marchio di fabbrica riconoscibile, una propria idea del rock a tinte glam, ma ancora riescono a perdersi nel turbinio delle idee come nel rock and roll singhiozzante di “The Loser In The End” o nel tambureggiare pop di “Funny How Love Is”. Dopo Ziggy… Singoli. Nel 1974, Suzi Quatro continua la sua battaglia femminista a colpi di hit da classifica. In sexy e attillato completino di pelle, la piccola ragazza americana dimena il suo basso come un fallo, dando ordini ai suoi musicisti come un vero leader rock and roll. Al di là del fascino, tuttavia, c’è un nuovo singolo, “Devil Gate Drive”, che ripercorre minuziosamente gli stessi passi rock and blues tribali di “Can The Can” e “48 Crash”. Più intrigante, allora, la sensualità algida di Lulu, donna-uomo à-la Bowie e piccola star in diretta dagli anni 60. A colpire l’immaginazione è la cover di “The Man Who Sold The World” che, tra sax funky e toni distaccati, rende più esotica e ballabile l’inquietudine dell’alieno. Preso nella morsa tentatrice del pitone del mercato, Alice Cooper tenta ancora la strada maestra dell’inno generazionale. Sembra sparita, tuttavia, la foga elettrica di “School’s Out” o la perversione megalomane di “Elected”. “Teenage Lament ‘74” è un insensata ballata doo-wop da parte di un improbabile idolo anni 50. In confronto, “Teenage Rampage” è la “My Generation” degli Sweet. Il pop inizia a prendere direzioni strane, tra mancanza di originalità e folle corsa verso il primato. Gary Glitter tocca il fondo con “Remember Me This Way”, allucinante lamento per occhi languidi in cerca del quasi fantasma di Elvis Presley. I Bay City Rollers scatenano una verve r&b qualitativamente demenziale con “Shang-A-Lang” che diventa, tuttavia, un tormentone per stupide ragazzine urlanti. Fortunatamente, l’ex-alieno-aladino David Bowie si appresta a tornare sulla terra con l’esasperante riff rollingstoniano di “Rebel Rebel”, che ricorda vecchie dispute generazionali e nuova androginia transessuale. Il brano sembra una riscrittura di “Satisfaction”, ma Bowie è più lontano che mai dagli schemi di “Aladdin Sane” e, con il disco in uscita, segnerà un primo, progressivo distacco dal rock and roll col rossetto. Scintille Un gentleman in pullover dall’aspetto curioso metà Charlie Chaplin, metà Adolf Hitler. Un clone dai denti rotti di Marc Bolan, capelli sconclusionati e vestaglia bianca. Strana coppia questa formata dai fratelli Ron e Russell Mael, direttamente da Los Angeles, California per suscitare nuove sensazioni sonore in terra inglese. Gran parte del merito va al ritmo sconclusionato ed irresistibile del singolo “This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us” che corre via, arrembante, tra fulmini di tastiere e voce in falsetto. Gli Sparks iniziano come Halfnelson nel 1968 mentre i due fratelli Mael studiano alla UCLA disegno grafico, letteratura e cinema. Il gruppo registra alcuni brani e li spedisce a Todd Rundgren che, immediatamente, decide di produrli in vista di un primo album a nome “Halfnelson”. Il disco passa inosservato e i due fratelli abbandonano il progetto, riprovandoci in maniera più decisa con un nuovo nome. “Sparks” (Bearsville, 1971) è, in realtà, lo stesso lavoro con una copertina differente, ma i suoi brani stralunati, carichi di humour nero e sfumature cabarettistiche, riscuotono un ottimo successo di pubblico. I tempi, evidentemente, sono cambiati e strizzano l’occhio alla creatività della band che, all’inizio del 1973, pubblica il secondo album “A Woofer In Tweeter’s Clothing” (Bearsville, 1973). Gli Stati Uniti, tuttavia, non amano le atmosfere glam come l’Inghilterra e, quindi, il substrato pop europeo degli Sparks ha bisogno di altri lidi. E’ John Hewlett, fondatore dei John’s Children, che aiuta i fratelli Mael a mettere in piedi un tour europeo e, soprattutto, a firmare per la Island Records. Il duo vola, così, a Londra e forma una nuova versione degli Sparks con musicisti inglesi, sotto la direzione attenta di Muff Winwood, già con lo Spencer Davis Group. E’ un vero e proprio colpo di fortuna: la neonata band ha la possibilità di respirare a pieni polmoni e di realizzare il primo, grande album della sua carriera. Detroit Glam City L’estetica glam che spopola in Inghilterra, figlia dell’ambigua, perversa bellezza di primi eroi come Mick Jagger e Brian Jones, non penetra fino in fondo nel nuovo mondo a stelle e strisce. Gli Stati Uniti non abbracciano la consapevolezza sfacciata dell’androginia rock con lo stesso gusto decadente dei cugini oltreoceano. L’hard-rock americano è ancora imbevuto di accordi à-la Deep Purple o sporcato dal blues di band come gli Allman Brothers. La nuova corrente di “Hang On To Yourself” e “Suffragette City” guadagna, certo, popolarità, ma non scardina fino in fondo una certa ideologia macho nel rock and roll. Ecco perché gli Sparks volano a Londra per dare sfogo a una verve in falsetto da music-hall. Gli Stati Uniti non sembrano, quindi, possedere una profonda padronanza della nuova estetica dell’eleganza, forse perché hanno avuto Scott Fitzgerald e non Oscar Wilde. La depravazione mascherata di Alice Cooper, insomma, non va al di là di un ripasso minuzioso del passato e, soprattutto, di trovate sceniche studiate a tavolino. E’ vero, tuttavia, che la devianza suburbana di città più europee come New York prova maggiore empatia verso il concetto di rock androgino. David Johansen è il vero erede di Jagger e le sue Dolls rappresentano il crudo senso di un travestitismo delirante e selvaggio che spalanca le porte anarchiche e furibonde del punk. E’ questo il lato più innovatore e avanguardista dell’America, che sale dai bassifondi in memoria dei Velvet Underground.
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Solo un cristallino demente come James Newell Osterberg Jr, al secolo Iggy Pop, riesce, così, a dimenarsi impazzito su di un palco, nudo, truccato e grondante sudore. La filosofia del “sex, drugs and rock and roll” urla dalle fogne di Detroit fin dal 1966 di “Kick Out The Jams”. Nel 1973 l’iguana del rock, sempre più drogato, arriva a Londra per completare una trinità profana e perversa con Lou Reed e David Bowie. E’ il quasi-Aladino che aiuta Iggy a risollevarsi, lavorando con lui su un album non ancora solista, non più a nome Stooges. “Raw Power” (Columbia, 1973) è il marciume sonoro di Detroit che tenta una strada più lussuosa ed elegante. Le due voglie, tuttavia, non trovano un accordo e le sirene modaiole del glam non riescono a incantare “il padrino del punk” che ribadisce la sua attitudine animalesca verso un rock and roll ultrasonico e velenoso. “Search And Destroy” e “Raw Power” sono assalti proto-punk alle coronarie e il tribalismo allo stato brado di “Shake Appeal” poco si confà all’intellettualismo di Bowie. Iggy Pop è dinamitardo, selvaggio nel suo trucco, ma il senso della melodia non va oltre l’aspra, ipnotica ballad “Gimme Ranger”. La vestaglia pop di Bowie, insomma, ingabbia la furia animale tanto che lo stesso Iggy, finalmente lucido, rimetterà mano al disco per renderlo più rumoroso e lancinante. Da un tentativo all’altro, tornando sulla sponda opposta dell’oceano. Alla fine di gennaio del 1973, i Kiss del bassista Gene Simmons e del chitarrista ritmico Paul Stanley tengono il loro primo concerto nel Queens di New York davanti a un pubblico di tre persone. Affascinati dalle pose delle New York Dolls, i quattro iniziano a fare curiosi esperimenti con la loro immagine, tra trucchi pesanti, costumi di pelle e varie trovate sceniche. Nei club della Grande Mela il rock decadente dilaga, spinto dal successo commerciale di Alice Cooper. In questo modo, i Kiss possono esprimere al meglio un heavy-metal perverso, imbevuto di sesso e, fondamentalmente, privo di qualsiasi connotato sociale o esistenziale. In “Kiss” (Casablanca, 1974) emerge il riff granitico, brutale e monocorde che si espande in energia pura ma che tradisce una certa inesperienza tecnica. La forza della band sembra provenire, piuttosto, da un esibizionismo macabro che si allaccia direttamente al grandguignol della Zia Alice. “Strutter” e “Black Diamond” sono piccoli classici del puro, menefreghista divertimento giovanile. L’album ottiene un successo clamoroso e spinge Simmons e soci a registrare a velocità da record un nuovo lavoro, “Hotter Than Hell” (Casablanca, 1974). Il disco è virtualmente identico al precedente, ma la fretta con cui è registrato rovina parte della freschezza di brani, che sembrano soltanto scarti. L’epos metallico viene, in sostanza, ammorbidito da un easy-listening di fondo che arriva a sfiorare la demenzialità pop della bubblegum. In altre parole, una variante metal del glam-rock. E a infettare con germi glamorous l'America - San Francisco, nella fattispecie - saranno anche i Tubes, musicisti-teatranti, autori di performance oltraggiose e surreali. Le loro pantomime vivono sui travestimenti del cantante Fee Waybill, nei panni di improbabili personaggi, come Cowboy Fee, parodia del country & western, e Quay Lewd, per l’appunto glam-star. Tra navicelle spaziali, ballerine, catene, fruste altri armamentari sadomaso, si consuma una sagra del kitsch sapientemente orchestrata dal satiro Fee. Il loro omonimo album d'esordio, "The Tubes" (1975), è uno shock, con la sua miscela di pop-rock parodistico, guidato dalla sapiente mano di Al Cooper in cabina di regia. I gioielli abbondano, dal power-pop di "Haloes", ovvero Todd Rundgren in rotta di collisione con i Roxy Music, alla verve chitarristica di "Boy Crazy", dall’inno “White Punks On Dope” alla bislacca cover del flamenco di "Malagueña Salerosa". I fiati e gli arrangiamenti d'archi di Dominic Frontiere conferiscono spessore al sound, senza mai appesantirlo eccessivamente. L’unico limite resterà la difficoltà di tradurre su vinile il dirompente impatto delle loro esibizioni dal vivo. Capitolo Cinque 1974-1975 Di notte all’opera L’anno dei cani di diamante Nell’estate del 1973, David Bowie annuncia al mondo il suo ritiro dalle scene, ammettendo in privato di essere stufo dei tradizionali concerti rock e di voler sperimentare maggiormente con il teatro. Nasce, così, l’ambiziosa idea di un musical ispirato al noto romanzo “1984” di George Orwell che, tuttavia, si tramuta in uno dei suoi album più paranoici. Alla metà del 1974, David Bowie mette in piedi un rock and roll show di grande impatto che attraversa in lungo e in largo il Nord America che, questa volta, sembra apprezzare la trovata. Forse perché il nuovo album schizza al diciannovesimo posto delle classifiche. Forse per via del gigantesco palcoscenico che si eleva tra palazzi futuristici in alluminio, effetti di sangue e inquietanti ponti metropolitani. Non si tratta più di alieni e ragni da marte. Le calze di Mick Ronson sono, ormai, un ricordo. La nuova visione di Bowie è licantropia per le masse, incubo futuribile che guarda al Grande Fratello e all’ultimo uomo sulla terra di Richard Matheson. E’ l’anno dei “Diamond Dogs” (Rca, 1974), aperto dall’ululato metà uomo, metà animale che annulla il rock and roll per un imminente genocidio. Il vecchio alieno è ora un mutante sonico che trasforma il glitter in un infinito “after dark”, apocalisse post-atomica che prende “Drive-In Saturday” e “Panic In Detroit” e le spara a miglia e miglia fuori città. David torna agli incubi di “The Man Who Sold The World” più che all’eleganza filosofica di “Life On Mars?”, ma non vuole rinunciare al rock and roll rollingstoniano, dal riff della title track all’inno “Rebel Rebel”. Nel mezzo, il lungo melodramma di “Sweet Thing/Candidate”, nuovi spunti à-la Isaac Hayes in “1984” e la coralità fantasma di “Big Brother”. Il sabba di ossa rotte e voci freak di “Chant Of The Ever Circling Skeletal Family” chiude il cerchio e, su un loop ossessivo, fagocita l’intero disco. Teatro rock o rock and roll teatrale? Il dubbio è immediato: Bowie dice di voler fare teatro, ma il suo vero talento è nel rock and roll. A metà tra “Ziggy Stardust” e “Diamond Dogs”, il doppio album dal vivo “David Live” (Rca, 1974) è la cronaca di un concerto di luglio al Tower Theatre di Philadelphia. Il disco non offre una gran qualità di suono, ma, soprattutto, diffonde un’aria di distacco da parte di un canto rauco e lacerato che non riesce a essere immediato. Bowie, in realtà, è stanco dei suoi stessi successi e sembra che questi abbiano perso l’originale significato, affogati in una pesante teatralità per non risultare completamente impotenti. “Moonage Daydream” diventa quasi auto-parodia e l’inno glam “All The Young Dudes” viene ribaltato con uno smaccato retrogusto soul. Evidentemente, Earl Slick non ha la potenza grezza di Ronson, ma questo pare non importare a Bowie che calca la mano su teschi amletici, maschere di carnevale e arrangiamenti per fiati. C’è, tuttavia, ancora parte della vecchia magia cosmica con il piano melodrammatico di Mike Garson su “Sweet Thing” e “Changes” e la tragedia greca di “Rock And Roll Suicide”. Richiami, comunque, inutili perché Bowie non cerca più l’infernale rock and roll di Londra o Santa Monica, ma un più morbido calore soul. Vedere la trascinante cover di “Knock On Wood”. Dopo Ziggy... Album. Dopo il flop commerciale dell’omonimo disco di debutto, Jobriath decide di riprovarci, assemblando brani provenienti dalle sue prime sessioni di registrazione. In “Creatures Of The Street” (Elektra, 1974), la varietà di stili è indubbia, ma l’omosessuale alieno del pop non sembra altro che un plastificato surrogato di Aladdin Sane. Tormentata da pose teatrali ed esasperate, la musica resta solo sullo sfondo, ricreando atmosfere già sentite anche per il glam-rock. “Heartbeat” e “Street Corner Love” fanno il verso a Bowie che fa il verso a Jagger. In “Liten Up”, rivive il piano estatico di Mike Garson e, in “Good Times”, si torna persino a vecchie armonie vocali à-la Page/Plant. Troppi tasselli sonori, alla fine, rovinano la raffinatezza di un mosaico. Singoli. Incurante di qualsiasi pudore musicale, l’opera generazionale degli Sweet continua, spremuta fino all’osso dalla premiata ditta Chinn/Chapman. In “The Six Teens”, tuttavia, l’iniziale goliardia sembra svanita e i quattro cominciano a prendersi troppo sul serio, tra svisate pseudo-hard e voce da calcio ai testicoli. Forse troppo anche per ragazzini arrabbiati. Che lo spirito del glam inizi a svanire lo conferma anche la progressiva perdita di lucidità di Marc Bolan che, con “Zip Gun Boogie”, dimostra quanto sia attualmente annoiato il mondo del pop. La chitarra si insinua viziosa su un tappeto d’organo e l’appeal pare assicurato, ma dopo ripetuti ascolti il brano esaurisce la sua attrazione e questo non è mai stato un problema per i T.Rex. Più fresco, allora, il rock and roll oltraggioso di “The Bitch Is Back” con cui Elton John continua la sua scalata commerciale, inseguito dalla indemoniata Suzi Quatro che abbaia, ma non morde in “The Wild One”. Mr. Soft Il giovane Steve Harley inizia la sua carriera nei tardi anni 60, suonando in giro per le strade di Londra insieme al chitarrista vagabondo John Crocker. La vera e propria svolta arriva nel 1972 quando i due si aggregano al batterista Stuart Elliott, al bassista Paul Jeffreys e al tastierista Milton Reame-James. Dopo soli cinque concerti, i Cockney Rebel firmano un succulento contratto con la Emi, pubblicando immediatamente il singolo “Sebastian”. L’epica ballata ottiene un grande successo in tutta Europa, ma non riesce a scalare le classifiche inglesi. Sulle tracce dell’intellettualismo di David Bowie e dei Roxy Music, il gruppo esaspera l’ambiguità sessuale sulla scia di un cabarettismo di stampo mitteleuropeo. Il disco di debutto “The Human Menagerie” (Emi, 1973) viene accolto positivamente dalla critica, tra esplosioni elettriche e aperture sinfoniche. Su tutte, spicca l’elegia camp di “Sebastian”, cui fanno da corollari il rock and roll straniante di “Crazy Raver” e i minuetti folk-trash di “Loretta’s Tale” e “Muriel The Actor”. Nonostante le critiche positive, la personalità schizoide di Harley prende il sopravvento, scagliandosi in maniera irritante ed egocentrica nei confronti della stampa e, soprattutto, considerando la sua band come un semplice accompagnamento strumentale. Non importa, quindi, che anche “Judy Teen” diventi una hit, così come “Mr. Soft”, che anticipa l’uscita del secondo album dei Cockney Rebel. In “The Psychomondo” (Emi, 1974), la voce dylaniana di Harley ribadisce le sue voglie estetizzanti con il cabaret circense di “Mr. Soft”, i jazzismi di “Singular Band”, il rock and roll sinfonico di “Sweet Dreams” e l’ammiccante profumo glam della title track. Memorabile l’epilogo decadente di “Tumbling Down”. Alla fine, tuttavia, di fortunato tour inglese, la band decide che la misura è colma e abbandona in blocco Harley a cui rimane il solo Stuart Elliott. I Cockney Rebel vanno avanti, ma si capisce chiaramente che, ormai, è solo un progetto solista di Steve. “The Best Years Of Our Lives” (Emi, 1975) è un disco dalle tante ombre e dalle poche luci, nel quale, tuttavia, spicca la splendida orecchiabilità del singolo “Make Me Smile (Come Up And See Me)”, che, questa volta, scala le classifiche a tempo di record. Non mancano, comunque, piccole gemme glam come “Mr. Raffles” e “The Best Years Of Our Lives”. I migliori anni, appunto, perché da qui in poi il talento di Steve Harley scomparirà pian piano dalle scene. La casa e il kimono
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Nel 1974 gli Sparks vengono generalmente considerati, in Inghilterra, come un cosmico risveglio nel mondo del rock, catturando finalmente l’immaginazione dei giovani e delle classifiche. A parlare è il cantante Russell Mael: “Amiamo questa sorta di confusione e diversità. La cosa veramente straordinaria è che le persone non hanno nemmeno bisogno di parlarne. E’ davvero eccitante perché, per noi, si tratta soltanto degli Sparks che fanno le stesse cose di cinque anni fa. Suoniamo con musicisti diversi, certamente e siamo in Inghilterra cinque anni dopo, ma l’essenza è la stessa, gli Sparks sono gli stessi ed è davvero strano ricevere questo entusiasmo”. L’originalità dello straordinario singolo “This Town Ain’t Big Enough For The Both Of Us” porta, in pratica, una ventata d’aria fresca nel glam-pop da classifica, anticipando l’uscita di quello che potrebbe essere senza dubbio considerato il capolavoro degli Sparks. "Kimono My House" (Island, 1974) è il colpo da novanta dei fratelli Mael che, così, giustificano il volo oltreoceano e l’aggancio al movimento glam. Pedinando un’idea secondo la quale il pop e il rock devono fare leva su sonorità decadenti, realizzano un disco di impeccabile eleganza, che amalgama impasti vocali à-la Beach Boys, chitarre elettriche dalla decisa impronta hard e arrangiamenti orchestrali fra cabaret e music-hall. Come mettere insieme Brecht e Marlene Dietrich. “Kimono My House” contiene pezzi che danno una nuova svolta estetica al glam, come l’arrembante singolo d’apertura o la teutonica “Thank God It’s Not Christmas”, le atmosfere mitteleuropee di “Amateur Hour” o le carezze di “Equator”. Rollermania Leslie Richard McKeown è un ragazzino di diciotto anni, viso pulito, maglioncino leggero con collo a V, pacato nei modi e timido nelle parole. Ogni volta che tenta di parlare con qualche giornalista arriva il suo manager-patrigno, Tam Paton, che gli spiega esattamente cosa dire, come e perché. I Bay City Rollers vengono formati a Edinburgo nel 1967 dai fratelli Alan e Derek Longmuir e, per puro caso, vengono scelti dalla Bell Records. Nel 1971 pubblicano la loro prima hit da classifica, cover del successo dei Gentrys, “Keep On Dancing” che arriva al numero nove e scatena le voglie del produttore-impresario pop Jonathan King. I ragazzi incarnano subito uno spirito pop di facile ascolto che non ha alcun intento se non quello di girare il mondo, far soldi e diventare idoli delle fan. All’inizio del 1974, il nuovo singolo “Remember (Sha La La La)” fa il botto, seguito da una serie impressionante di smielati pop commerciali, da “Shang-A-Lang” a “All Of Me Loves All Of You”. Esplode, così, la “Rollermania” che trasforma una cover dei Four Seasons, “Bye, Bye, Baby” in singolo spietato da un milione di copie vendute nel 1975. Il paragone con i Beatles si consuma in una serie di concerti da isteria totale, con ragazzine tra i dieci e i quindici anni che gridano, piangono e si spingono a vicenda. L’abilità tecnica dei cinque è pressoché nulla e i loro show sono pianificati a tavolino come un qualsiasi prodotto di massa, ma il fenomeno è imponente e non può essere ignorato dagli – giustamente – sprezzanti critici musicali. “Bye, Bye, Baby” e “Give A Little Love” sono i brani che consegnano la corona del pop ad un gruppo di sbarbatelli di Edinburgo. Regina assassina
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Nel settembre 1974, “Queen II” supera le centomila copie vendute, divenendo disco d’argento. I Queen godono di una considerazione sempre crescente, smentendo nettamente le fosche previsioni della stampa musicale. Con due facciate A, il terzo singolo “Killer Queen/Flick Of The Wrist” ottiene un successo enorme, trasformandosi nel primo, vero hit della band. Le recensioni sono stranamente entusiastiche e spingono i quattro ad affrettare i preparativi per un nuovo tour inglese, registrando, per l’occasione, una versione elettrica dell’inno nazionale da usare come enfatica conclusione di tutti i concerti. Dopo quest’ultimo ritocco alla loro identità regale, May e soci sono, ormai, pronti a conquistare la vetta dell’olimpo del rock, partendo dalla pubblicazione, a novembre, del terzo disco ufficiale. In “Sheer Heart Attack” (Emi, 1974) la fusione dei generi cari ai Queen si fa più concisa, strizzando l’occhio a una maggiore orecchiabilità. Lo stile musicale della band è, ora, più definito e coraggioso e l’iniziale formula ibrida sembra trovare un’identità più sentita e personale. Emblematico, così, il singolo “Killer Queen” che tradisce, tra cori da vaudeville e una chitarra al limite del pacchiano, la direzione sonora che può dare al gruppo la gloria commerciale. E’ una gustosa scommessa artistica che passa per l’ascensione progressiva delle stridule voci angeliche di “In The Lap Of The Gods” o per il melodrammatico finale di “In The Lap Of The Gods…Revisited” che sale, pirotecnico, tra cori da stadio e chitarre solenni. E’ vero, tuttavia, che i Queen non sanno rinunciare alle loro accelerazioni furenti, trascinati dal riffone heavy-metal di “Stone Cold Crazy” e dal boogie ad alta velocità di “Now I’m Here”. Brian May, in effetti, continua con la sua trasformazione in “guitar hero”, guidando la melodia hard del mini tour de force per echoplex di “Brighton Rock”. Il “lato bianco della regina” vira verso la ballad marziale di “Tenement Funster”, giocando con riverberi elettro-acustici à-la “Tommy” che rimbalzano nella sinfonica “She Makes Me”. Anche in “Sheer Heart Attack”, quindi, si può notare una sorta di approccio manicheo con il lato oscuro di Mercury a scaraventare l’ascoltatore in una tenera dimensione da incubo. L’eccesso teatrale ama entrare in scena in pompa magna, come nella progressione di “Flick Of The Wrist” che balla sull’equilibrio tra morbidezze pop e inquietudini rock. E’ la sensibile anima di un mostro rifiutato da tutti che, come in un romanzo ottocentesco, parla con la voce salmodiante della tenerezza per piano di “Lily Of The Valley” e piange, in solitudine, la lacrima gospel di “Dear Friends”. Come nella vita, il dramma può trasformarsi in gioia improvvisa e, allora, “Misfire” porta la sua allegria zingaresca da spiaggia a cui si accoda il deja vu anni 30 di “Bring Back That Leroy Brown”. Il senso di tutto questo, certo, appare nuovamente ridondante e, a tratti, fuori luogo, ma l’album è ben fatto e dimostra chiaramente che i Queen hanno intenzione di rimanere a lungo sulle scene del loro teatro musicale. Il ritorno della puttana Nel 1973, Elton John estrae il coniglio da uno dei suoi cilindri, pubblicando il doppio album “Goodbye Yellow Brick Road” (Mca, 1973), acclamato dalla critica e impetuoso nelle classifiche anglo-americane. Il disco trasforma il pianista in una vera e propria star del glam-rock, inanellando una serie impressionante di classici istantanei, melensi e orecchiabili. La dolcemente nevrotica “Bennie And The Jets” si piazza al numero uno, seguita da melodrammi pop come la title track e, soprattutto, “Candle In The Wind” e “Funeral For A Friend”. La versatilità di John non viene, tuttavia, ripetuta in “Caribou” (Mca, 1974), che spacca nuovamente le classifiche, ma in una veste sonora molto meno raffinata. L’energia di “The Bitch Is Back” e il pop orchestrale di “Don’t Let The Sun Go Down On Me” salvano la faccia al cantante, così come una frenetica cover di “Pinball Wizard”, che appare nel film di Ken Russell, basato sulla rock opera “Tommy” degli Who. Alla fine del 1974, la “puttana del rock and roll” si gode il trionfo al Madison Square Garden di New York che, tuttavia, verrà ricordato non soltanto per lustrini, occhiali e tre ore di pianoforte. A raggiungerlo sul palco è John Lennon che manda completamente in delirio la folla con l’elettricità nevrotica di “Whatever Gets You Thru The Night”. La vecchia e la nuova star si guardano deliziati, toccando le rispettive anime musicali per “Lucy In The Sky With Diamonds” e l’inaspettata “I Saw Her Standing There”. La verve impegnata di Lennon sposa, così, il grande divertimento di Elton John, artista che non parla alla sua generazione, ma che invita tutti a non prendersi troppo sul serio. In una sera al Madison, insomma, due artigiani del pop che sembrano darsi il cambio definitivo sul tetto del mondo del rock and roll. Dopo Ziggy… Album. Per “Country Life” (Island, 1974) i Roxy Music ripongono nell’armadio pailettes, sete e acconciature d’altri tempi, in nome di un nuovo stile casual. Bryan Ferry, l’esteta decadente, trasforma l’ideologia camp in qualcosa di più semplice e vigoroso, che colga un’immediatezza sonora al di là di lunghe, nevrotiche sperimentazioni. “Three And Nine” è il brano che mostra questa ritrovata semplicità, diretta verso un cuore-canzone morbido e scioglievole. I Roxy, tuttavia, non sembrano abbandonare del tutto il passato in lustrini. La ballata “The Thrill Of It All” rinnova antichi sapori musicali, così come “Bitter Sweet” e “Casanova”, che abbracciano quello che si presenta come un fantasma di sperimentazioni e romanticismo europeo. Un disco, insomma, che paga un’incertezza sul futuro da parte di una band in bilico tra quello che non è più e quello che sarà. Singoli. Stretto nella morsa Stewart-Wood, nel 1973 Ronnie Lane lascia i Faces, sostituito dall’ex Free Tetsu Yamauchi. La band è una vecchia creatura in agonia, ma ruggisce per l’ultima volta con il singolo “You Can Make Me Dance… Sing… Anything” che colpisce il solo pubblico inglese con il suo coro irresistibile. I Bay City Rollers, nel frattempo, portano a compimento le strategie del manager Tam Paton, conquistando il mondo del pop con due soli brani. Le atmosfere femminili fifties di “Bye, Bye, Baby” e il languore nauseabondo di “Give A Little Love” conquistano il mercato dei ragazzini che si preparano a fare dei cinque di Edinburgo la boy-band per eccellenza del glam-pop. Piuttosto inutile, quindi, l’ennesimo tentativo degli Sweet che, con la pseudo-baldanza di “Fox On The Run”, cercano di imitare gli Slade senza averne i mezzi. Maggiormente intrigante, invece, il lavoro dell’egocentrico Steve Harley, che frulla insieme canto loureediano, chitarre acustiche e cori beatlesiani per “Make Me Smile (Come Up And See Me)” che diventa, in breve, il suo brano più acclamato. Se i Cockney Rebels richiamano la sofisticazione intellettuale di Bowie e Ferry, i Queen giocano con la furia punk degli Who e il riff à-la Led Zeppelin. “Now I’m Here” si sviluppa dinamitardo su un tappeto boogie supersonico, lanciando, violento, il chitarrismo eccessivo di Brian May. Soul Man
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Nel mezzo del cammino tra il 1974 e il 1975, l’emaciato e paranoico David Bowie nasconde i suoi occhi dietro un cappello ben piazzato sulla chioma rosso-carota. Gli zatteroni colorati hanno lasciato il posto a più sobri stivaletti con tacco, la vecchia tuta spaziale si è trasformata in un casual retrò à-la Buster Keaton. L’incubo dei cani di diamante sembra essere passato, così come le ultime tracce di rossetto, svanite sulle note ripetitive di “Rebel Rebel”. La spugna pirandelliana è, ora, pronta ad assorbire nuovi umori di nuovi continenti. Non è più il tempo per ballate spaziali, cabaret kurtweilliano e distorsioni hard. Bowie fuma sigarette nei Sigma Sound Studios di Philadelphia e medita su un nuova trovata scenica, nuovo gioco di prestigio. Il sassofonista David Sanborn e il corista Luther Vandross non sono con lui per puro caso. Con “Young Americans” (Rca, 1975), David Bowie si trasforma nell’uomo del soul, stella americana di strada che di glamorous, ormai, ha solo il fascino e il look. L’ipnotico ritmo di “Fame” è il colpo decisivo per conquistare la terra di Colombo, numero uno esagerato e nevrotico. Fiati, cori gospel e funky di colore sono la nuova, azzardata direzione, tracciata esplicitamente nella title track e nell’incedere di “Win” e “Fascination”. Soul music, insomma, per gente pallida che gioca con falsetti (“Somebody Up There Likes Me”) e cori equivoci (“Can You Hear Me”). Tutto studiato e prodotto con precisione maniacale, ma, in fondo, meno genuino e complesso dei vecchi inni spaziali e decadenti. John Lennon, quindi, non basta a rendere grande una cover confusa e sbandata come quella di “Across The Universe”. Meglio, a questo punto, l’emotività viscerale di Elton John. Ma David Bowie è un falso perché sa perfettamente che un disco come “Young Americans” è fatto per piacere alla gente. David Bowie è un falso perché ha, forse, già in mente di scappare da Philadelphia e rifugiarsi in un nuovo incubo europeo. Alla fine del 1975, la robotica funky di “Golden Years” sfrutta proprio la scia soul del disco, ma, in realtà, apre a un qualcosa di completamente diverso che seppellisce una parte della vita e, soprattutto, il suo fare glam. Sirene Nel 1975 il leader del “gruppo rock più elegante del mondo” parla con un giornalista inglese, alla vigilia dell’apertura, in una discoteca di Liverpool, del nuovo tour europeo. “Per me, ‘Stranded’ e ‘Country Life’ sono molto diversi dai nostri primi album. I primi due sono eccitanti, immediati mentre gli altri tentano di essere di qualità, diciamo professionali. Il nostro prossimo lavoro, ‘Siren’, non rinuncia al tocco professionale, ma possiede anche l’eccitazione e la potenza dei primi due album”. “Siren” (Emi, 1975) è, per certi versi, il trionfo e, per altri, il colpo di grazia del rock artistico e intellettuale dei Roxy Music. Apparentemente più unita che mai, la band continua con il nuovo look casual e affina ulteriormente un sound pulito e perbenista. Il playboy Bryan Ferry guida, così, un disco che strizza l’occhio all’emergente fenomeno disco, sinuoso e sexy. E’ la sua idea personale su Donna Summer che viene fuori nel successo da classifica, “Love Is The Drug”, brano quantomai danzereccio che lancia il gruppo nella stardom internazionale. Non proprio una svendita, non proprio un’azzardata sperimentazione. L’album, in realtà, tenta di definire un nuovo stilema dandy, tra l’easy-listening di “End Of The Line” e le atmosfere romantiche di “Sentimental Fool”. Brani come “Whirlwind” e “She Sells” mettono in mostra il talento strumentale di Manzanera e soci, ma il tutto ha un sapore piuttosto incolore. I Roxy puntano all’apice commerciale nello stesso momento in cui la genuina ispirazione va in esaurimento. Lo stesso Ferry è, ormai, un dandy squisito e glaciale alla ricerca di piaceri proibiti, con i fasti della sperimentazione decadente che sono soltanto un dolce, sensuale ricordo. Di notte all’opera Nel 1975 i Queen abbandonano la Trident dopo alcuni dissapori finanziari, rendendosi liberi di trattare senza intermediari con Emi ed Elektra con la supervisione di John Reid. Il nuovo manager resta di sasso quando il gruppo gli presenta, in ottobre, il brano che intende utilizzare come nuovo singolo, quasi sei minuti di musica simil-operistica dal titolo di “Bohemian Rhapsody”. Reid spiega che non è possibile pubblicare a 45 giri una canzone tanto lunga, ma i quattro sono inamovibili e rifiutano la proposta di tagliarla. Taylor è amico del dj Kenny Everett e, a titolo personale, gli passa una copia promozionale del vinile chiedendogli espressamente di non passarlo per radio. Everett, ovviamente, cede alla tentazione di proporlo ai suoi ascoltatori e fa letteralmente saltare in aria le sue linee telefoniche. Il 31 ottobre 1975 viene pubblicato “Bohemian Rhapsody” e il mondo musicale inglese subisce un fortissimo scossone. Un inizio in stile ballata malinconica sfocia in un tripudio di sovrincisioni operistiche per poi concludersi su tonanti cadenze di rock duro: per alcuni straordinario, per altri assolutamente disgustoso. La stampa si divide, ma, in generale, è concorde nell’affermare che il pezzo è troppo lungo e che non diventerà mai un hit. Non di questo avviso le stazioni radio inglesi che passano continuamente il brano dall’inizio alla fine. Effetto: nel giro di due settimane il singolo vende più di 150mila copie, regalando alla band il primo numero uno nelle classifiche inglesi e anticipando trionfalmente l’uscita del nuovo disco. Frutto di una produzione maniacale, “A Night At The Opera” (Emi, 1975) oltrepassa senza remore l’ambiziosa linea sonora di “Sheer Heart Attack” e si afferma come la creatura più riuscita dei Queen. Dodici brani slegati si rincorrono per dare forma a qualcosa di unico nel suo genere, una messa in scena che ricalchi, al limite dell’oltraggioso, l’antico teatro musicale dell’operetta. L’acido tuono hard di “Death On Two Legs”, infatti, serve soltanto per dare il via allo spettacolo, nel modo più fragoroso e imponente. Mercury è sempre più regina del castello e la sua voce dolce e amara ha bisogno di architetture sonore sempre più complesse. Parte del merito va all’astuto Roy Baker che gioca continuamente tra effetti e cori, accompagnati dalla chitarra cromatica e clownesca di May nel vaudeville “Lazing On A Sunday Afternoon. La fama dei Marx si trasforma, qui, in una serie di sketch tra la farsa e la tragedia con l’approccio quasi infantile della filastrocca jazzata per ukulele di “Good Company”, ribaltato nella marcia epica della mini-suite “The Prophet’s Song”, che fa volteggiare ritmi hard e cori gregoriani quasi fosse una “My God” ancora più teatrale. L’orecchiabilità di “Sheer Heart Attack” subisce una nuova metamorfosi nelle scenette pop di “I’m In Love With My Car” e “You’re My Best Friend” dove piano e chitarra cullano voce e cori nella maniera migliore. La strada dell’hard, glam and roll di “Sweet Lady” cede, quindi, progressivamente il passo alla tenerezza lirica strappalacrime di “Love Of My Life” o al corale acquerello acustico di “39”. “A Night At The Opera” è tutta la gustosa parodia irritante di “Seaside Rendezvous” che crea una nuova, discutibile forma d’arte incoronata dal tripudio “Bohemian Rhapsody”, tonante collage zappiano per frammenti di musica antica e moderna. “A Night At The Opera” realizza il melodrammatico sogno musicale dei Queen che vivono, così, un periodo di grandissima euforia. L’album procede spedito in una marcia inarrestabile, diventando disco di platino e rimanendo per ben 56 settimane nelle classifiche degli Stati Uniti. Fra il 29 novembre e il 2 dicembre, quattro serate di tutto esaurito all’Hammersmith Odeon di Londra portano i quattro definitivamente in cima al mondo. Gli ultimi sussulti Col 1975 si chiude la stagione più luccicante del glam. Sul campo, resta un mucchio di piume e lustrini, ma l'attitudine glamorous non muore e finirà col rinascere sotto mentite spoglie in era new wave (basti pensare a band come Bauhaus e Japan, ma anche alle varie propaggini synth-pop e new romantic). David Bowie, Lou Reed e Iggy Pop diventano padri nobili, del punk prima e del post-punk poi. Duncan Browne, però, è un tipo sfortunato. Esce infatti col disco giusto nel momento sbagliato. Insieme a Peter Godwin e poi al chitarrista Sean Lyons, aveva formato i Metro all'inizio dei 70, tentando di incanalare il brio art-rock sui sentieri di un formato-canzone pop sì tradizionale, ma altrettanto eccentrico e spiazzante. Post-glam o un punk già adulto? "Metro" (1976) non è probabilmente né l'uno né l'altro. Ma deve il suo insuccesso commerciale soprattutto al ritardo con cui viene pubblicato. Composte fin da due anni prima, le ballate decadenti di Duncan Browne diventano un contrappunto fuori tempo massimo alle invettive a squarciagola del punk. Peccato, perché il sound di "Metro" è un distillato di pura eleganza glamorous, un melange raffinato, che declina il gusto decadente del glam con la perizia del prog e con l'anima candida del folk. Un pulsante basso funk (a cura di John Giblin) tiene in piedi la sezione ritmica, il moog di Peter Godwin insegue le linee melodiche, ma è soprattutto il gioco di intarsi chitarristici (ora elettrici, ora acustici) a partorire un suono inaudito, lambiccato ma mai stucchevole, sfondo ideale per il timbro oscuro di Godwin. Un'orchestra in piena era punk: è l'oltraggio della sinfonica "One Way Night", del melodramma di "Black Lace Shoulder", dell'ode romantica di "Flames". Ma l'asso nella manica si chiama "Criminal World", ovvero l'ambiguità sessuale ("the girls are like baby-faced boys") a tinte fosche, tra chitarre fuzz e cori celestiali. Le radio britanniche censureranno il singolo, affondando così anche l'album. Minata dall'insuccesso, la line-up originaria della band si spezzerà. Ma "Metro" resterà il nobile canto del cigno del glam-rock. Nel 1983, David Bowie gli renderà omaggio con una bella cover di "Criminal World" (su "Let's Dance"). La maledizione, tuttavia, si abbatterà ancora su Duncan, dandy poetico e auto-ironico, nell’arte come nella vita: dopo una lunga lotta contro il cancro, morirà nel 1993. Gli ultimi sussulti del glam-rock arrivano anche dalla remota Nuova Zelanda, patria degli Split Enz di Tim Finn, strambo menestrello col gusto per gli arrangiamenti sinfonici e le atmosfere fiabesche. Nelle loro mascherate, tra costumi e trucchi pittoreschi, confluiscono psichedelia e prog, atmosfere circensi e gothic-horror, surrealismo e cinema espressionista. Il tutto filtrato dall’approccio bizzarro e paradossale di Finn. Le intuizioni dell'esordio "Mental Notes" (Charisma, 1975) vengono riproposte e perfezionate in "Second Thoughts" (Charisma, 1976), frutto del loro sbarco in Inghilterra e della produzione di Phil Manzanera, rimasto fortemente impressionato dalla performance del gruppo, di spalla ai Roxy Music nel loro primo tour australiano. Ai vocalizzi di Tim Finn si aggiungono quelli del chitarrista Phil Judd, mentre le frasi di tastiera di Eddie Rayner e le percussioni del duo Noel Crombie-Malcom Green contribuiscono a un sound corposo e policromo. Si spazia da soffici ricami acustici ("Titus") a numeri pseudo-prog ("Stranger Than Fiction"), da bozzetti pop ("Matinee Idyll") a piece di stupefacente estro ed eclettismo ("The Woman Who Loves You, Walking Down a Road"). Judd lascerà poi il gruppo, al quale si unirà per un certo periodo il fratello di Tim, Neil, poi destinato a maggior fama nelle file dei Crowded House. Encore Children Of The Revolution
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All’inizio degli anni 90, l’ideale fil rouge con il glam-rock storico corre sugli accordi degli Suede, band formata a Londra nel 1989 dal bassista Mat Osman e dal cantante Brett Anderson. Gli undici brani di “Suede” (Nude, 1993) fanno saltare in aria il mercato inglese, aprendo in maniera decisiva alla rivoluzione del brit-pop. La band, tuttavia, cita apertamente il David Bowie dell’epoca Ziggy, con Anderson a replicarne ambiguità e decadentismo, affiancato dal chitarrista Bernard Butler che cita lo stile di Mick Ronson. I precisi riferimenti al genere restano fermi anche in atmosfere rarefatte e visionarie. Ascoltare “Dog Man Star” (Nude, 1994) per lasciarsi ipnotizzare da melodrammi come “Daddy’s Speeding” e “The Wild Ones”. Addentrandosi nel decennio, l’estetismo bowiano viene progressivamente reso più pop e, di conseguenza, più vicino alla fruibilità commerciale dei T.Rex di Marc Bolan. “Coming Up” (Nude, 1996), “Trash” e “Filmstar” sintetizzano bene il nuovo approccio musicale degli Suede. Tutti i pezzi più memorabili del puzzle glam vengono ricomposti dalla band che, in “Head Music” (Nude, 1999), lo nutre con energia punkeggiante. “Savoir Faire” e “Everything Will Follow” rimandano alle atmosfere dei Roxy Music, mentre “Electricity” e “Can’t Get Enough” si riallacciano alle trasgressioni di Bolan e “She’s In Fashion” allo stile “Young Americans” di Bowie. A tornare in “New Morning” (Epic, 2002), tuttavia, è il romanticismo degli esordi con Anderson a incarnare deliziosamente il sognatore sconfitto che commenta il viavai metropolitano. Una ragazza, una televisione accesa, un flirt inconfessabile: il suo sguardo, perennemente in bilico fra vittoria e sconfitta, è malinconico e disincantato. E la band, in ottima forma, lo segue con tocco raffinato. “Lost In Tv”, “Obsession” e “Astrogirl” entrano dritte nella storia degli Suede. A celebrare il revival è “Velvet Goldmine” (Uk, Usa, 1998), pellicola di Todd Haynes che ripercorre gli anni d’oro del glam attraverso la storia di un ipotetico cantante di nome Brian Slade che scimmiotta le pose androgine di David Bowie. La relativa colonna sonora riporta all’attenzione generale gioielli come “Satellite Of Love”, “Make Me Smile” e “Virginia Plain” e spara una cover al fulmicotone di “20th Century Boy”, realizzata dai debuttanti Placebo. Nel 1996, infatti, viene pubblicato il loro disco d’esordio, “Placebo” (Virgin, 1996) dove emerge l’androginia del cantante Brian Molko, supervisionata da un glam-rock rabbioso e molto fetish. Anche qui si tratta di fieri discepoli del Bowie ’72-’74, abbinato a un rock alternativo made in Usa, che si trasforma in brani veloci, tesi e smaccatamente orecchiabili. I ritornelli sono sinistri e sprezzanti e sconfinano presto nel buio intimismo di “Without You I’m Nothing” (Virgin, 1998) che impone ritmi più lenti e riflessivi (la title track e “Ask For Flowers” su tutte) per uno pseudo-rock umorale per pseudo-anime tormentate. Possiamo ragionevolmente pensare che alla fine dei 90 il glam-rock possa ancora avere un significativo seguito di pubblico? E ancora, che in un imperante contesto di "anonimi" indie-rocker di jeans e t-shirt vestiti, si aggiri indisturbato un truccatissimo figuro agghindato di lustrini e pailettes? Non potremmo nemmeno concludere che tra le finalità del personaggio Bobby Conn via sia un intento meramente "trasgressivo", perlopiù già metabolizzato dalla Gran Bretagna di inizio anni Settanta, quella per intenderci dei Roxy Music, dei Cockney Rebel, dei T-Rex, degli americani anomali che rispondono al nome di Sparks e, ovviamente, di Mr. Ziggy Stardust. Il fatto è che qui stiamo parlando di un americano "doc", e persino di un americano di Chicago, la stessa città che ha visto esplodere il post rock. Il glamorous Bobby sembra piovuto da chissà quale galassia, come una meteora caduta fuori tempo massimo. A qualcuno potrebbe sorgere il dubbio che quella di Conn possa essere un’operazione di pedissequo recupero del passato, sia a livello d’immagine che di stile musicale. Eppure, non ci troviamo di fronte a un blando esercizio stilistico, ma a un complesso intrecciarsi di contaminazioni che rendono il Nostro un caso unico. Sagoma rigurgitata dagli scarti di pellicola di “Velvet Goldmine”, artista virtuoso, barocco, ridondante, luccicante, Conn è un trucco promiscuo. Come la sua musica, che flirta con tutto quello che fu e che non è più, che sprizza non-hype da ogni poro. Dal delirio sfrenato di “Bobby Conn” (Truckstop, 1997), in cui arriva a proclamarsi l’Anticristo (“Axis '67”) al concept ambizioso di “The Golden Age” (Thrill Jockey, 2001), dal mare magnum funky-glam-rock di "The Homeland" alla rock-opera cinematografica di “King For A Day” (Thrill Jockey, 2007), quella di Conn è una sfavillante babilonia, tanto variegata che finirà forse con l’accontentare pochi. Ma all’alba del nuovo millennio il glam sembra anche vivere una fortunata stagione commerciale, trainato, tuttavia, da gruppi plastificati che imitano pedissequamente le vecchie pose e i vecchi accordi. Gli svedesi The Ark, capitanati dallo sboccato cantante Ola Salo, si impongono nel 2000 con l’album “We Are The Ark” (Virgin, 2000) che, grazie al ritmo melodico del singolo “It Takes A Fool To Remain Sane”, spopola nei mercati internazionali. Il bibitone kitsch è caro al limite della truffa e danneggia l’aura storica del genere con il successivo “In Lust We Trust” (Virgin, 2002). Ancora più smaccati i The Darkness del cantante-chitarrista Justin Hawkins, che fanno propria un’estetica cock-rock per sintetizzare in maniera folle trent’anni di sfrontatezza rock, giocando con i cliché più eccessivi in circolazione. I sing-a-long di “Permission To Land” (Atlantic, 2003) sminuzzano senza pudore la teatralità dei Queen e le durezze di Thin Lizzy, Cheap Trick e Ac/Dc. “Love Is Only A Feeling” e “Black Shuck” sono brani-minestrone che ridefiniscono il concetto stesso di kitsch, portandolo su territori vicini al ridicolo. Eppure il commercio parafrasa Adam Ant: “Il ridicolo non è nulla di cui ci si debba vergognare”. Decisamente più meritato, tuttavia, è il successo degli/delle Scissor Sisters che frullano senza paura ritmi discotecari, oltraggiosi funky-glam e ballate à-la Elton John. In “Scissor Sisters” (Universal, 2004) a far parlare è, soprattutto, una cover dance stralunata di “Comfortably Numb”, che, tuttavia, viene calmata da brani che sembrano usciti direttamente da “Goodbye Yellow Brick Road”, come “Take Your Mama Out” e “Music Is The Victim”. Se, quindi, “Tits On The Radio” fa scatenare culi sulle piste, “Laura” si affida al piano, per un triplo salto mortale nella piscina della seconda metà degli anni 70. “Ta-Dah” (Universal, 2006), poi, vira ancora di più verso sonorità pop da canto sotto la doccia per un impasto mordi/balla/fuggi. Outro Epitaffio: Rock And Roll Heart
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A quindici anni, il giovane Marc Feld cerca di infiltrarsi nella periferia musicale di Londra, soprattutto quando non deve aiutare la madre al mercato della frutta di Soho o lavare piatti al Wimpy Bar. Presentato dalla rivista Town come “Re dei mod”, Marc ama frequentare un pub, The Brewmaster, dove, tra una pinta e l’altra, inizia a dichiarare al mondo che: “Un giorno diventerò una grande star e allora tutti voi vorrete conoscermi. Aspettate e vedrete se non ho ragione”! Durante tutta la sua carriera, Marc Bolan è il primo cittadino di un mondo fantastico. La penna visionaria di Tolkien e gli accordi di Eddie Cochran sono i primi abitanti della sua fantasia, seguiti da Dylan Thomas, James Dean, Jack Kerouac, Chuck Berry e Jimi Hendrix. Nel 1966, Simon Napier-Bell, manager degli Yardbirds, assolda Bolan e produce il primo singolo “Hippy Gumbo” che fa colpo sul dj John Peel che lo manda a ripetizione nel suo show su Radio London, Perfumed Garden. Due anni dopo, nascono i Tyrannosaurus Rex, duo acustico con Steve Peregrine Took ai bonghi, prodotti da Tony Visconti nel primo album “My People Were Fair And Had Sky In Their Hair But Now They’re Content To Wear Stars On Their Brow”. Il disco lancia il duo nel circuito underground londinese e definisce chiaramente una direzione “tolkieniana” che si ripresenta nel successivo “Prophets, Seers And Sages, The Angels Of The Ages”, che consolida un mix di filosofia hippy e primitivismo rock. La formula magica non viene toccata per tutto il 1969, nonostante un disastroso tour americano che convince Took a fare le valigie, sostituito da Mickey Finn. Il grande cambiamento, tuttavia, arriva giusto un anno dopo quando Bolan imbraccia la chitarra elettrica nel singolo “By The Light Of The Magical Moon/Find A Little Word” e nell’album “Beard Of Stars”. A ottobre, il gruppo abbrevia il nome in T.Rex e sceglie la Fly Records a cui regala il rivoluzionario successo del singolo “Ride A White Swan”. In tempo per le feste natalizie, Bolan e Finn vengono raggiunti dal bassista Steve Curie e dal batterista Bill Legends per registrare il primo, vero album elettrico “T.Rex”. Nel giro di poco tempo, quindi, Marc Bolan si trasforma da artista di culto a vero e proprio idolo delle masse al di sotto della maggiore età. Esplode il fenomeno glam e la sua ambivalenza sessuale, abbinata a una massiccia dose di narcisismo lo porta sulle copertine di mezza Europa, aprendo la strada un po’ a tutti, da David Bowie alle New York Dolls. Se, tuttavia, Bowie riesce perfettamente a controllare la sua arte, Bolan è vittima del suo stesso successo e le sue pose oltraggiose vengono facilmente imitate da band più aggressive come gli Slade. Nonostante questo, i “15 minuti di fama” di Marc e dei suoi T.Rex durano quasi tre anni, attraversati da singoli spacca-classifiche – “Hot Love” e “Get It On” – e dal seminale album “Electric Warrior”, che incapsula magicamente un rock and roll cosmico e surreale. Bolan scopre una nuova formula magica, naive e brillante e le rimane fedele al limite dell’ossessione. La cosiddetta “T.Rexstasy” raggiunge il suo apice nel 1972 grazie ai tre singoli “Telegram Sam”, “Metal Guru” e “Solid Gold Easy Action” e, soprattutto, all’album “The Slider”, che vende centomila copie prima ancora dell’uscita ufficiale. A marzo, Ringo Starr riprende gli show dell’Empire Pool di Wembley per la controversa pellicola “Born To Boogie”, che subito alimenta la discesa in picchiata del momento d’oro. Ignorando pubbliche accuse e consigli professionali, Bolan infarcisce i T.Rex con cantanti e sassofoni e pubblica il singolo “Teenage Dream”, che introduce l’imbarazzante disco “Zinc Alloy And The Hidden Riders Of Tomorrow”, presa in giro improponibile di Ziggy Stardust. Nei successivi show televisivi, il chitarrista sembra una parodia di se stesso, costringendo il fido Tony Visconti a rompere il fortunato sodalizio dopo sette, lunghi anni. E il peggio deve ancora arrivare. Tra il 1975 e il 1976 Bolan rifiuta di accettare la fine inevitabile e, alla stampa, dichiara di avere quattro se non di più numeri uno in cantiere. Forse. Nel privato, però, inizia a bere pesantemente e ad assumere sempre più droghe. Quando tutto, ormai, sembra perduto, un Bolan ingrassato urla al mondo di essere “il padrino del punk”, partendo immediatamente in tour con i The Damned. Parte della vecchia magia pare recuperata miracolosamente e molti hanno la sensazione che, con un po’ di tempo, il vecchio cigno bianco potrebbe farcela ancora. Il suo tempo sulla terra, tuttavia, scade inesorabilmente il 16 settembre 1977 quando il fu Marc Feld si schianta con l’auto nei pressi della sua casa a Barnes. Un enorme cigno bianco veglia sul suo funerale al Golders Green Crematorium. Nonostante abbia portato tutto e tutti all’esasperazione, Marc Bolan era un brav’uomo che ha vissuto il viaggio fantastico del rock and roll fino alla fine, oltre ogni limite.
Fonte: Onda Rock
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Definizione del termine hard-rock L'hard-rock ("rock duro") è un genere al confine tra la musica rock e quella blues, creato alla fine degli anni 60 in Inghilterra (e parallelamente, anche se in modo meno programmatico, in America) e caratterizzato da sonorità aggressive, ottenute con l'esasperazione degli espedienti e degli strumenti del rhythm and blues americano della prima metà del Novecento e di quello inglese dei primi anni 60 che a questo si rifaceva. Formalmente l'hard-rock non è riconducibile al rock perché non si fa esclusivamente con quelli che saranno gli strumenti canonici del rock (chitarra, basso, batteria), ma a questi si aggiungono regolarmente strumenti di chiara derivazione blues: armonica a bocca e pianoforte/tastiere su tutti. L'hard-rock è hard-blues. L'erroneità della definizione è dovuta a chi non riuscì a comprendere le essenziali e caratterizzanti differenze tra rhythm and blues, rock n' roll e rock nella storia della creazione del terzo, a partire dalla negazione-superamento del primo. Gli anni in cui l'hard-rock troverà maggior consenso e capacità espressiva saranno i 70. Contenutisticamente l'hard-rock non è altro che la riproposizione assolutamente priva di originalità, ma in questo capace di rinsaldare la propria identità, dei tre concetti programmatici della musica popolare americana degli anni 50: sesso, droga e rock n'roll (d'altra parte è risaputo che sesso, droga e musica eccitano le medesime zone cerebrali: evidentemente l'hard-rock ha un potere maggiore per i cervelli più semplici o meno educati ad altra musica). Anzi, è possibile dire che saranno tre decenni di hard-rock a fornire all'immaginario collettivo, nella rilettura di un passato mitologicamente rivissuto, gli standard che avrebbero caratterizzato gli anni 50 americani. L'hard-rock è il credo musicale ed esistenziale del guerriero-proletario, che nello scenario della metropoli industriale rivive i più rozzi, magniloquenti e superficiali sentimenti ereditati dal più deteriore romanticismo, che con questi stessi aveva interpretato tutta la storia passata dell'uomo e quella di volta in volta presente dell'individuo. L'hard-rock non è né blues (troppo hard) né metal (troppo blues): per questa sua mediocrità ed immediatezza (nonché prevedibilità), sonora e tematica, diverrà il più popolare dei generi della musica di consumo, pari solo al pop stilisticamente inteso, ovvero alla canzone di musica leggera più tradizionale. Per l'individuo medio la musica leggera (o "popolare" in contrapposizione a "classica") apparirà dunque nella pressoché esclusiva dicotomia pop/hard-rock. La "ballata" (spesso acustica), presente in ogni album hard-rock che si rispetti e impregnata della tematica più melensa e strappalacrime di una qualche sventura intercorsa tra l'amante e l'amata (lui lascia lei o lei lascia lui, ma il ricordo rimarrà per sempre), è la reverenza che l'hard-rock (che si auto-interpreta come musica per maschi) fa al pop (visto come musica per femmine), con cui va di pari passo; ovvero con cui dialoga: come la ballata scritta dall'hard-rocker per la propria Lei e che lei dovrà ascoltare. Maschilista, patriarcale, incolto, feticista, privo di qualsiasi orizzonte che non sia il ballo e l'orgasmo, l'hard-rock è l'unico sottogenere rock a bandire programmaticamente la donna dalla sua interpretazione. In trent'anni di hard-rock non si può in modo rilevante citare un solo gruppo di donne e neanche una singola cantante in grado di avere una qualche partecipazione di una minima importanza al genere. Questo non significa che la donna possa praticare solo il pop: singole musiciste e gruppi di sole donne sono stati fondamentali sia per il punk sia per il metal, due generi di gran lunga più violenti, estremi e potenti dell'hard-rock. La motivazione va trovata nei contenuti di questo stile: questo stile è la forma canora o espressiva dell'operaio o dello scaricatore di porto che vuole possedere carnalmente, magari per una sola notte e magari più brutalmente e bestialmente possibile, una donna i cui unici valori siano gambe lunghe e sinuose, fondoschiena alto e seno prosperoso. Un hard-rock al femminile sarebbe una contraddizione in termini: ancora, non perché vi sia una qualche differenza tra l'attrazione sessuale di un uomo per una donna o di una donna per un uomo, né perché gli effetti di alcol e droghe siano diversi per i sessi anziché per gli individui, ma perché lo stile rock in questione nacque e, storicamente, si mantenne nell'unica direzione uomo-donna e non viceversa. Mentre la lunghezza media di un brano rock-classic (alla Velvet Underground o Creedence Clearwater Revival) può dirsi di 3-4 minuti, quella di un brano hard-rock si inquadra nei 5-6. È come se con la sua imponenza il brano hard-rock incorporasse e dosasse a piacere ma con standard ricorrenti un brano rock lento (o meglio un blues d'inizio Novecento) e un brano di rock sostenuto (o meglio rock n'roll anni 50). È opportuno intendere anche metaforicamente il perché della lunghezza di un brano: come i brani punk e ancor più hard-core durano pochissimo (1-2 minuti) per la legge morale del "Live fast, die young", così quelli hard-rock durano tantissimo per palesare la lunghezza ideale di vita dell'hard-rocker il quale vuole avere una vita impervia, sregolata (per divertimento) ma lunga (ogni forma di apprezzamento del godimento denuncia un attaccamento al vivere). Il rock sta in mezzo tra il punk e l'hard-rock: diciamo 20 anni, 40 e 60. Per il metal il discorso è più complesso e dipende dalle sue sotto-categorie. Contrariamente a molti gruppi metal e soprattutto punk, la maggior parte delle formazioni hard-rock, come di quelle pop, hanno vita lunga e lunghissima. Gli album hard-rock e pop inoltre, contrariamente a quelli metal e punk, non sono concepiti in modo livellato o democratico, cioè globalmente o complessivamente, bensì come raccolta di più o meno numerosi singoli da vendere alle chart. Ciò è una causa indiretta del fatto oggettivo per cui vi sono ottimi o pessimi album metal o punk, contro di regola mediocri hard-rock o pop. Mentre un classico hard-rock o pop, abituato com'è a concentrare la sua attenzione sulla "canzone", riserverà pressoché sempre in un album un brano decente, può capitare che classici metal o punk facciano album totalmente insulsi. Perché i primi hanno il parametro della mediocrità, i secondi del massimo e del minimo. Non vi è forse nessun classico hard-rock (e pop) con all'attivo uno o due album fondamentali e poi gli altri così qualitativamente imparagonabili da dimenticare. Viceversa, moltissimi classici metal e punk lo sono diventati per un solo album. Ancora: i gruppi hard-rock e pop non hanno una fondamentale evoluzione, né involuzione: rimangono re del loro limbo; quelli metal e punk hanno (se non si sciolgono prima) sistematicamente una evoluzione che (purtroppo) si traduce spesso in involuzione (cioè non si rivelano capaci di scrivere buone canzoni "soft"). Per pop e hard-rock è opportuno parlare di gruppi classici e non di album; cosa da rifuggire massimamente per il punk e il metal. Infatti riguardo ai primi si tratta di un discorso quantitativo, ai secondi qualitativo. Storia e sociologia dell'hard-rock Per tutta la prima metà del XX secolo la musica popolare sarà riformata e sconvolta quasi esclusivamente dalla popolazione nera degli Stati Uniti meridionali: il rhythm and blues nacque verso la metà degli anni 40 in California dall'influsso del jazz (sorto a inizio '900) e della musica gospel (canti evangelici popolari ottocenteschi), basandosi sulle strutture armoniche dei blues (forma di canto popolare caratterizzata da ritmo lento e argomento malinconico nata tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 ). Tale genere di musica popolare si diffuse rapidamente negli Stati Uniti, rimanendo per definizione la "musica dei neri", finché non verrà da questi stessi tradotto per l'uso e consumo dei bianchi: ecco il rock n' roll americano degli anni 50. In Inghilterra negli anni 50, all'infuori del folk e della canzone "leggera" (poi, anche per l'influsso dell'ermeneutica artistica di Andy Warhol, definita "pop", ma che allora si identificava con la canzone pop-olare tout court), non c'era niente. A Londra (eccezion fatta per il jazz) solo all'inizio degli anni 60, mentre gruppi vocalici come i Beatles continuavano a fossilizzare le masse nel mezzo secolo di musica popolare europea appena passato (che poi altro non era che la più o meno attualizzazione della canzone europea tradizionale presente da secoli), fu presa in considerazione l'idea di appropriarsi del rivoluzionario patrimonio musicale afro-americano. Rolling Stones, Animals, Kinks, Yardbirds, Them, Who, mentre in America dopo la sfuriata elettrica del rock n' roll si indugiava nel blues-folk acustico del Greenwich Village di New York dove Dylan iniziava a farla da padrone, quasi saltando i rockeggianti anni 50, si riallacciarono al rhythm and blues americano dei 40 o interpretarono con le forme di questi i primi. Il 1964 è l'anno del debutto discografico dei principali gruppi rhythm and blues inglesi che proponevano loro interpretazioni (cover) del grande patrimonio afro-americano. Avendo ognuno di questi seminali gruppi una personalità abbastanza ben delineata, è possibile, a posteriori, vedere in nuce nelle loro prove quelli che poi saranno alcuni degli esiti compiuti del rock (del quale l'America, assieme alla chitarra elettrica, si riapproprierà la maternità dal 67 in poi). Dalle roboanti sezioni ritmiche di Kinks e Who prenderà le mosse il garage-rock prima e il punk dopo; sugli assoli quasi in free-form di Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck (chitarristi degli Yardbirds) si baseranno i tanti guitar-virtuoso dell'hard-rock anni 70 e non solo (la chitarra elettrica e il suo granitico riff con relativo assolo è l'essenza stessa dell'hard-rock). I Rolling Stones, tuttavia, hanno proposto il rhythm and blues più segnatamente ispiratore dell'hard-rock (che può definirsi anche come quel genere nato dall'esasperazione, banalizzazione, volgarizzazione della musica, degli atteggiamenti e della visione del mondo dei Rolling Stones, vera stante l'identità Rolling Stones-rhythm and blues). Intanto i Cream (di cui Clapton era entrato a far parte) avevano operato la prima traslazione dal rhythm and blues ad "altro", quell'"altro" che di lì a poco si sarebbe chiamato hard-rock: i londinesi Cream stabilirono, primi nella storia della musica popolare, la poi classica formazione a tre (chitarra, basso, batteria: al canto uno dei tre strumentisti o un quarto elemento specificatamente addetto), allungarono la durata della canzone rhythm and blues (da 2-3 minuti a 4-5 o più), iniziarono a scrivere sistematicamente canzoni di proprio pugno, rallentarono, diluendolo, il ritmo dei brani, concedendo così a ogni singolo strumento il proprio spazio di evidenza (il famoso assolo), spazio in cui primeggerà la chitarra (radicalmente blues) di Clapton; il canto si alzò di tono ricercando qua e là l'acuto (saranno tutte peculiarità dell'hard-rock). Nel 1966 a Londra esce "Fresh Cream"; in America: oltre ai primi singoli di Hendrix, "Blonde On Blonde" di Dylan, "Freak Out" di Zappa, "The Psychedelic Sound Of" dei 13th Floor Elevators, "Pet Sounds" dei Beach Boys, "Fifth Domension" dei Byrds, l'omonimo dei Buffalo Springfield. Ebbene, nessuno di questi album potrà dirsi fondamentale per l'hard-rock, ma nell'insieme i lavori sia inglesi sia americani andranno a costituire una sedimentazione a partire dalla quale, di lì a poco, l'hard-rock troverà la propria forma. Con lo scandire dell'undicesimo (in quattro anni) album dei Rolling Stones, dopo gli atteggiamenti tutto sesso, droga e rock n' roll di Jagger, dopo l'equazione uomo-chitarra impersonificata da Richards, nel 1968 a Hertford in Inghilterra, i Deep Purple di Ritchie Blackmore compirono per la prima volta (con l'album "Shades of Deep Purple") il passaggio dal rhythm and blues all'hard rock. Nel 1967 a New York i Velvet Underground avevano istituzionalizzato la forma, l'arte e i contenuti della canzone rock; a Los Angeles i Jefferson Airplane avevano portato a maturazione l'acid-rock; a Londra i Pink Floyd dettavano le leggi del rock-psichedelico; mentre Hendrix portava alla estreme conseguenze tecnico-formali (e quasi esclusivamente sul lato "chitarristico") il rhythm and blues. L'hard-rock si configura come una musica violenta, pesante, essenziale e gretta. Molto più lenta del rock n' roll, molto meno percussiva del rhythm and blues, guadagna in potenza ciò che perde in velocità e ossessività. La chitarra è più che mai lo strumento protagonista e da essa l'attenzione è distolta solo per il falsetto del cantante che (adottando e semplificando inasprendoli espedienti soul e rhythm and blues) diventa l'altro polo d'attenzione per un pubblico richiamato in manifestazioni dal vivo in luoghi molto più grandi dei tradizionali club; poi, qua e là, un assolo di batteria o basso. Il rhythm and blues è negato nei limiti in cui se ne alterano tempi, cadenze e timbriche; presente invece nel permanere di quella fusione godereccia e deflagrante col tutto così caratteristica del blues. I temi sono quelli del rock n' roll prima e dei Rolling Stones poi: donne e sesso su tutto. I Rolling Stones, in particolare, sono fondamentali per quell'approccio alla musica e alla vita "negativo", "ribelle" nel senso più fine a se stesso del termine, balordo, teppistico, provocatorio, edonistico. Anche per il genere che i Rolling Stones praticavano (e che mai sarà l'hard-rock), questi risultavano tuttavia molto più eleganti e affascinanti nell'esecuzione di brani con contenuti magari identici a quelli che poi saranno canonici per l'hard-rock. L'hard-rock predica non il male di vivere, ma il vivere male: perché così, a suo dire, c'è più gusto. La frangia di consensi che una musica predicante non l'autodistruzione ma il piacere fisico e l'edonismo come supremo valore, il divertimento, lo sballo, il menefreghismo di tutto tranne che del riempimento della propria pancia, troverà sarà enorme (sopratutto tra le persone meno istruite). L'hard-rock è un continuo dedicarsi alla superficialità, all'apparenza; più che al simbolico, al fanatico o feticistico. Dio, che di solito non viene negato, serve come garante dell'esistenza di un qualcuno del quale esser perennemente e incoscientemente figliol prodighi. L'hard-rock è la negazione del pensiero non in quanto tale ma in quanto cultura: basta non studiare, non applicarsi, non lavorare, non durare fatica, basta ballare, avere amici, essere al centro della moda, fare sesso industrialmente, per essere a posto e sentirsi al centro di un mondo che definire da cartoni animati è prenderlo fin troppo seriamente. In trent'anni, l'hard-rock non si discosterà da questi principi; definendosi anzi in tanto in quanto rispettoso di questi. L'hard-rock è la musica per credenti, credenti nel bene (identificato col godere), nella doverosità di raggiungerlo e di calpestare tutto ciò che si interpone tra noi e questo raggiungimento. L'hard-rock è la musica che esprime lo spirito né dell'adolescente né del giovane, ma del diciottenne che ha appena ottenuto l'auto e non vede l'ora di sfracellarsi in un muro senza farsi male e per solo gusto di divertimento o tendenza. L'hard-rock è la musica del gioco e si tradisce quando in modo inevitabilmente impacciato e incredibile si prende sul serio. Priva di qualsiasi contenuto, di qualsiasi profondità, di qualsiasi capacità interpretativa o problematica, confinata in una mediocrità piano-forte, antitesi di punk e metal (che anzi si definiscono proprio per negare, su opposti fronti, l'hard-rock), l'hard-rock rappresenta (un'ottava più in alto) la cultura e i valori del pop meno alternativo: o, all'interno della stessa famiglia (eminentemente pop), l'asse maschile e patrileneare. L'hard-rock è l'unica musica riuscita nell'esaltazione programmatica della fisicità e delle prestazioni fisiche. Muscoli, organi sessuali e sensuali, capelli: tutto deve essere forte, grosso, evidente. L'unica ragione è quella dei ragazzi, intesi come giovani e come maschi; se il resto (la società, la natura, le donne) non corrisponde o non dà ragione ai ragazzi, va distrutto, ignorato. Morte, ricordo, politica, lavoro, amicizia, droga: tutti temi toccati (e roteanti immancabilmente intorno al perno rappresentato dal sesso), ma nel modo più ingenuo, superficiale ed esteriore possibile: come orpelli o diversivo tra un orgasmo e l'altro; come professori, più o meno noiosi, che devono esserci per accogliere tutto ciò che non rientra nelle mire del rocker ossimoricamente mito e celebrità a se stesso. Troppo spesso si è definito l'hard-rock (oltre che il rock) più per via negativa che positiva: cioè dicendo più cosa non è anziché cosa è; se un brano non può considerarsi né punk né metal né progressive né nessun altro dei sottogeneri del rock, allora è hard-rock. In questo modo le canzoni più tese e violente di tanti musicisti hanno finito per essere intese come hard-rock: ecco quindi un Neil Young hard-rock, un Bruce Springsteen hard-rock, un Frank Zappa hard-rock, una Patti Smith hard-rock ecc. Sul fronte opposto, quando un gruppo metal o punk scende a sonorità più mediocri o meno estreme, viene riportato all'hard-rock, termine usato per Motorhead, Manowar, Cheap Trick e tanti altri. Senza voler entrare nel merito del caso specifico, è evidente che per come si è venuto qui definendo il termine hard-rock tali esempi non sono pertinenti né formalmente riportabili al puro hard-rock, inteso come stile di musica e vita interpretato fondamentalmente da gruppi di giovani ribelli invaghiti del mito del sesso e dello stile-di-tendenza (la loro), con capelli lunghi e vestiti eccentrici, spesso di pelle e comunque rozzi. Gruppi con formazione a quattro o a cinque (spesso con l'aggiunta di un tastierista), dove chitarrista e cantante dialogano in una continua simulazione (con tanto di gemiti vocali e slide chitarristici) dell'eccitazione sessuale. Per una parte consistente della popolazione mondiale under-40 trovare un sostegno al fatto che centro dell'universo può dirsi l'organo sessuale femminile, e massima aspirazione e realizzazione l'ottenimento di questo corredato da una cornice di macchine sportive e festini di vario genere, si è rivelato un calamitante e rassicurante sfogo esistenziale. In questo, il miraggio del lusso e dei soldi, tanto più infantile quanto contrastante con abiti e look spesso trasandati, chiarisce come una religione che promette il paradiso con la sola soddisfazione materiale possa avere un numero di seguaci forse ineguagliato. In più, astutamente, e forse anche un po' coscienziosamente, l'hard-rocker non si lascia sfuggire il momento programmaticamente struggente e di riflessione, il momento che vorrebbe sembrare serio e profondo quando il più delle volte riesce melenso e insignificante: la ballata d'amore. Milioni di dischi hard-rock saranno acquistati per le loro ballate (e quasi tutti i gruppi hard-rock celebri lo diverranno per queste), con il talora pressoché totale disinteresse del resto. Nello stesso anno dell'esordio dei Deep Purple (il famoso '68 di cui l'hard-rock non rappresentò certo la colonna sonora), in Inghilterra uno degli ex-chitarristi degli Yardbirds, Jeff Beck, dette (proseguendo ed estremizzando in chiave hard il discorso già iniziato col gruppo di partenza) alla luce l'album "Truth", fondamentale (soprattutto come scuola tecnica, oltre che di riff, cioè di composizione) per tutti i chitarristi hard-rock avvenire. Parallelamente, in California, a San Francisco, i Blue Cheer dettero il primo album hard-rock americano: "Vincebus Eruptum"; ma furono, in America, almeno per il momento, un caso abbastanza isolato; inoltre le loro sonorità influenzeranno piuttosto i futuri garage-rock e metal anziché l'hard-rock strettamente inteso. Il 1969 è l'anno del boom dell'hard-rock (anche se a livello di popolarità mediatica si dovrà aspettare almeno la stagione successiva) che vede anche il suo primo frazionarsi: in Inghilterra i Led Zeppelin con l'omonimo debutto segnano tutto quello che sarà il loro successivo percorso (fruttuoso, nel loro genere, fino al settimo album del 1976): fusion di blues e folk caricati di una durezza e asprezza che con le ricorsive cadute in piano e lento rende questi tanto più enfatici ed evidenti. Sebbene Plant con il suo falsetto eccessivo e assordante, orgasmico e appassionato, segni il passo per le successive e più magniloquenti ugole hard-rock; sebbene Page (che aveva lasciato per formare i Led Zeppelin gli Yardbirds, così scioltisi) sia fondamentale per insegnare il blues ai futuri chitarristi hard-rock, tuttavia, proprio per questo, i Led Zeppelin rimarranno eccessivamente relegati al marchio di fabbrica Yardbirds tanto da poter essere considerati hard-rock solo a tratti. I Deep Purple, piuttosto, inventarono l'hard-rock in quanto si affrancarono a priori dai modi blues e con la chitarra di Blackmore offrirono il primo esempio di chitarrismo hard-rock (lontano da Clapton, Page e Beck, pur usando talora gli espedienti di tutti loro): riff grezzi e possenti, ruvidi, ben delineati, granitici: proprio il contrario della suadenza (anche ad alti volumi, come quelli di Page) e dell'effetto-liquido del rhythm and blues. Non osannare, come regolarmente e incondizionatamente viene fatto, i Led Zeppelin, non significa essere contro di loro; nel contesto di una storia dell'hard-rock significa semplicemente e oggettivamente che il gruppo in questione non è stato fondamentale per il genere come altri (vedi Deep Purple); a prescindere dalla qualità dei brani, chi stima i Led Zeppelin deve essere consapevole di apprezzare più il folk-blues che l'hard-rock, perché quello (sebbene in modo più o meno esagitato) i Led Zeppelin facevano; proprio quello che invece i Deep Purple (aprendo così la strada alla rivoluzionaria temperie metal) cercavano di non fare o di superare con l'esacerbazione della potenza e della semplicità di riff e accordi, con la violenza del suono fino a toccare il rumore fine a se stesso. L'America nello stesso '69 cercò di recuperare il tempo perduto. I Santana, con l'omonimo debutto (e con l'omonimo guitar-hero), si offrirono (pur provenendo da San Francisco) come i cantori di un'ideale America Latina, dai toni fin troppo sensuali e compiaciuti, pur, nel loro genere, originali essendo pressoché gli unici a trattare le atmosfere languide, decadenti delle ex-colonie spagnole e portoghesi in campo hard-rock (come venti anni dopo lo saranno i Sepultura in quello metal). In trent'anni di carriera i Santana (poi Santana e basta) dopo l'immediato successo iniziale (il secondo e più famoso album, del 1970, "Abraxas" contiene i loro maggiori successi) sforneranno, tra vertiginosi alti (come gli inaspettati, pur se telecomandati, recentissimi) e bassi (come tutti gli anni 80), un'interminabile sequela di album, dimostrando tuttavia sempre di non saper scrivere canzoni, anche se di poterne interpretare egregiamente di già scritte (una su tutte: "Black Magic Woman", la porteranno alla celebrità nel modo più sublime). Sempre nel '69 gli Mc5 da Detroit si presentarono come un qualcosa che non si era mai visto prima: troppo violenti, troppo arrabbiati, troppo eccessivi. Il live "Kick Out The Jams" (con il capolavoro psichedelico "Starship") consacra il loro hard-rock precursore di garage e punk e per questo eresia all'interno del genere (nessuno, vista anche la particolarità delle performance, li seguirà in toto pur seguendoli quasi tutti su particolari aspetti). Nella stessa città, Alice Cooper dava avvio con "Pretties For You" alla sua saga-glam tanto melodica quanto violenta e nichilista. Si trattava della prima applicazione di tecniche hard-rock per esprimere altro da quello che il genere avrebbe imposto. L'hard-rock diventa un mezzo e non un fine negli innumerevoli album di Cooper (attivo ancor oggi ma seminale con le sue prime otto realizzazioni, anni 1969-1975). L'hard-rock esprime con uno stabile sottofondo satirico, cabarettistico e demodé (scherzando col fuoco o ridendo con accanto la morte) le alienazioni e contraddizioni più lancinanti e importanti dell'individuo che vive nella metropoli industriale. Con gli anni 70, l'hard-rock diviene adulto e dà tutto ciò che è in grado di dare. I Deep Purple, forti di un nuovo cantante, Ian Gillan, che detterà le leggi per tutti coloro che vorranno dedicarsi al genere, sfoderano le pietre miliari del genere ("In Rock", "Fireball", "Machine Head"), raggiungendo, grazie a una sezione ritmica formidabile, quasi i limiti dell'heavy-metal. Intanto, tutta una serie di altri gruppi si dedicano a interpretare originalmente il pentagramma hard-rock. Nel 1970 esordiscono i texani ZZ Top ("ZZ Top first album"), che si servono dell'hard-rock per cantare al mondo le perversioni e stranezze possibili o immaginabili in una terra corrosa dal deserto, dall'aridità e dal caldo. In Inghilterra nello stesso anno l'hard-rock da una parte si avvicina a inflazionarsi con epigoni del genere troppo fini a se stessi, come gli Uriah Heep (e l'omonimo disco d'esordio), dall'altra si rinnova incredibilmente e forse come mai più gli accadrà con i Black Sabbath e la loro prima pubblicazione, vero e proprio ponte tra il passato mondo hard-rock e il futuro metal, nonché fulmine a ciel sereno di perversione, negatività, satanismo, misantropia, tenebrosità come nessuno aveva mai fatto prima e pochi, con la medesima efficacia, riusciranno a far dopo. Inoltre il canto di Osbourne e la chitarra "doom" di Iommi (basandosi nei loro migliori risultati sulla lentezza e pesantezza, anziché sulla velocità e acutezza, con un processo che esaspera il medesimo già operato a sua volta dall'hard-rock classico nei confronti del rhythm and blue e del rock n' roll) sono quasi l'antitesi pur "dall'interno" dell'hard-rock. Come era nata la leggenda dello scontro Beatles-Rolling Stones, ora nasce quella della rivalità Led Zeppelin-Black Sabbath (i Deep Purple, per completare la imponente triade inglese, tra il grande pubblico erano visti come un compromesso tra i due). In realtà, come tra i primi così tra i secondi non c'era quasi nulla in comune (si contraddistinguevano anzi per una reciproca inconciliabilità quale quella male-bene, bianco-nero), eccezion fatta la celebrità: come i Beatles, così i Led Zeppelin persistevano in un mondo già artisticamente defunto (la canzone popolare i primi, il blues-folk i secondi); come i Rolling Stones, così i Black Sabbath interpretavano o annunciavano grandi e assolute novità (il rhythm and blues i primi il metal i secondi). Notando la singolarità (logicamente deducibile però, vista la facile fruibilità da parte del pubblico di tale musica per di più abbastanza facilmente realizzabile nonché quasi sempre uguale a se stessa o al massimo variazione sui medesimi e pochi temi) del fatto che pochi sotto-generi rock siano stati longevi come l'hard-rock e come, forse di conseguenza, la maggior parte dei gruppi hard-rock, specie i classici, abbiano avuto un'esistenza lunghissima, certi quanto quella del rock stesso, si giunge al 1971. Esordiscono in Inghilterra con gli omonimi albums Budgie e U.F.O.. I primi tanto misconosciuti quanto di superba qualità daranno vita ad una saga che li vedrà protagonisti in almeno cinque album (1971-1975) forti, con canzoni che dovrebbero essere memorabili, di un hard-rock roboante quanto il garage-rock e preludente l'heavy metal (difatti metal+punk) anche nella sua dimensione più epica e fantastica. I secondi (tecnicamente molto influenzati dai compatrioti Yardbirds) prenderanno dal progressive-rock (oltre che le struggenti e ridondanti melodie) la mania di avere per soggetto gli spazi stellari e le immaginose, enigmatiche e infantili storie che questi possono evocare. A testimonianza del diffondersi planetario del gusto hard-rock, a Dublino esordiscono (sempre nel 1971) i Thin Lizzy con hard-folk-blues tanto trascinanti e moderni (su tutte spicca la lezione di Hendrix) quanto legati alle origini più remote e sentite della propria terra (si veda il loro riarrangiamento dello splendido e bohemienne brano tradizionale che li renderà celebri: "Whiskey in the jar") di cui, assieme a Van Morrison, costituiscono i primi portabandiera musicali. Nel 1972 in America gli Elf del cantante-prodigio Ronnie James Dio e i Blue Oyster Cult - i primi abbastanza mediocremente, i secondi con una eccellenza che consentirà loro di sfornare capolavori sino al 1988 - ripartono dalle inquiete fantasie di U.F.O. e Alice Cooper per un'originale interpretazione degli stilemi hard-rock. I Blue Oyster Cult, in particolare, offrono un tono cupo, dark e occulto precedentemente sentito solo nei Black Sabbath, sposandolo con arrangiamenti (soprattutto per merito delle tastiere) stranianti e metafisici, in un continuo richiamo al conflitto onirico-reale, in quella terra di nessuno che è l'inconscio, più che individuale addirittura "sociale", dei bassifondi della metropoli moderna. Sempre nel 1972, gli Scorpions dalla Germania (dei loro due chitarristi, i fratelli Shenker, uno, Michael, militerà anche negli U.F.O.) si presentano come la prima hard-rock band dell'Europa continentale, contribuendo a far dilagare il genere (nel corso della loro lunghissima storia alterneranno prove estreme, al limite dell'heavy-metal, a prove quasi del tutto acustiche o decisamente pop, quelle, da "Still loving you" a "Wind of change", che tutto il mondo conosce). Col 1973 si presentano al mondo due delle più celebri formazioni hard-rock di sempre: una americana e l'altra inglese, una ortodossa fino all'ossimoro e l'altra pronta a perdersi nei generi più disparati, una influenzata da Rolling Stones e Led Zeppelin, l'altra dal glam e dal progressive, una scabra e primitiva e l'altra programmaticamente sinfonica, una perennemente dal vivo e l'altra quasi perennemente in studio: gli Aerosmith e i Queen, limiti e pregi dei quali sono pressoché quelli dell'hard-rock tutto. Non è che Aerosmith e Queen facciano musica poco originale e ingenua, spesso ridondante e fine a se stessa, talora meschina e troppo palesemente commercializzabile: il fatto è che l'hard-rock è questo ("It's only rock n' roll" direbbero i Rolling Stones). Nel 1974 in Inghilterra è la volta di Judas Priest che, con "Rocka Rolla", prima di diventare (nel 1976) tra i pochi, veri, fondatori del metal anni 80, ripropongono gli stilemi dell'hard-rock più di scuola (dimostrando cionondimeno come il metal sia più una negazione o superamento dell'hard-rock anziché un suo naturale continuum) e dei Bad Company (del cantante del gruppo blues-revival per eccellenza: i Free), che tra Cream (blues) e Yardbirds (guitar-virtuoso) presentano uno degli hard-rock più "English" in circolazione. In America (da New York) i Kiss, facendo punto e a capo da dove era giunto Alice Cooper, enfatizzano la dimensione più ludica e glam di questi da un lato e riducono quella più intrinsecamente tragica e maledetta dall'altro: tra il 1974 e il 1978 (10 album in 5 anni), regaleranno classici a ripetizione (da "I Was Made For Lovin' You" in poi), incarnando un fiero spirito (e suono) rock n' roll, enfatizzato in pirotecnici spettacoli dal vivo che li hanno fatti tra i maestri dell'"arena-rock". I Kiss hanno l'edonismo, l'esuberanza, la rozzezza, l'ignoranza e la pletorica degli Aerosmith, con l'aggiunta di un retrogusto d'amaro, di fantasioso e di mefistofelico (di Black Sabbath insomma) ignaro ai primi. Le maschere e i look da travestimento di cui (con Alice Cooper tra i pochi in ciò) si servono nascondono una tragica ironia. Un posto a sé nella storia dell'hard-rock dal '74 in poi (data del loro debutto) se lo costruiscono (anche geograficamente) i canadesi Rush: ispirandosi a U.F.O. e Blue Oyster Cult, fondono hard-rock e progressive, ricreando atmosfere eteree, cosmiche e apocalittiche; sempre però con una classe aliena all'hard-rock di consumo. Episodicamente (come nel capolavoro del 1976 "2112") raggiungono una potenza tale di suono da farli considerare a pieno titolo i padri di una certa fronda (la "progressiva" appunto) dell'heavy-metal. Con una formazione a tre più unica che rara nella temperie hard-rock, i componenti dei Rush vantano una competenza tecnica conservatoriale e classica; in particolare, la voce del cantante sembra quella di un bambino capace di raggiungere le vette timbriche di Plant o Gillan. A metà anni 70 l'hard-rock inizia a tirare la corda, in una chiusura su se stesso che (non fosse intervenuta la rivoluzione metal) rischiava di strozzarlo per eccessiva sterilità. Tuttavia, proprio in quel '75 se non ovviano completamente alla crisi, almeno portano una vitale ondata di freschezza due fenomeni. Il primo è quello del "guitar-hero". Basandosi essenzialmente sull'esempio di Jeff Beck, chitarristi iper-tecnici si prendono tutta l'attenzione dei riflettori, che normalmente dovevano spartire con proporzioni anche maggiori del cinquanta per cento con i cantanti, e si lanciano in esibizioni (preferibilmente dal vivo) dove ritorna il concetto free-form del rock acido e psichedelico, anche se in funzione più di "ammirazione" che di fusione orgiastica e orgasmica. Da Detroit, Ted Nudgent, con il suo omonimo debutto, dà il via al movimento. Come magia, e siamo arrivati alla seconda novità del '75, dall'Australia (ecco che l'hard-rock è giunto davvero a coprire tutto il mondo...) irrompono quattro giovanissimi e sbandati "rhythm and blues-men". Gli AC/DC con "High Voltage" rifondano l'hard-rock ripartendo direttamente da zero: dal rhythm and blues più elementare e primitivo degli Animals, iniettandolo di potenti riff garage-rock o rock n' roll, ossessivamente ripetuti in brani costruiti su quattro accordi e retti dal rapporto orgasmico tra le chitarre-slide di Angus e Malcolm Young e la voce ruvida, da shouter nero (tipo James Brown) di Bon Scott. Così eccessivamente primitivi, scabri e minimalisti, gli AC/DC, da sembrare all'inizio quasi uno scherzo: in 20 anni di carriera non faranno altro che riproporre gli stessi temi (quelli dell'hard-rock più banale, sesso, droga, anche se con un atteggiamento da bullo di periferia e nichilistico-autodistruttivo quasi punk, antitetico cioè all'hard-rock) e con gli stessi espedienti (un rhythm and blues delle caverne). Diverranno, tuttavia, celeberrimi presso il pubblico e anticiperanno il look punk con le loro pose da balordi irrecuperabili e autocompiaciuti e allo stesso tempo infantili e trasandatissimi (i fratelli Young si presentavano con pantaloncini corti coprenti appena le cosce, giacca e cravatta, come per manifestare, anche nell'abbigliamento, il rozzo e maleducato anti-estetismo programmatico e compiaciuto del proprio sound (Bon Scott, la prima illustre vittima dell'hard-rock, morì soffocato dal proprio vomito in seguito a un'ubriacatura nel 1980). Inoltre, almeno nell'immaginario collettivo, la rumorosità del loro suono sarà antesignano di certe forme di metal. Gli AC/DC, il gruppo più importante per l'hard-rock dopo i Deep Purple (di cui idealmente si pongono come progenitori stilistici, non facendo, in una estrema ricerca di semplicità e ancestralità sonora, nemmeno uso delle sfruttatissime, dagli altri gruppi, tastiere) dimostrano che cosa significa hard-rock e lo fanno eseguendo (fondamentalmente) garage-blues primigenio. Dimostrazione che l'hard-rock più ortodosso è un sottogenere del rhythm and blues, piuttosto che del rock (non si dica a questo punto che i Led Zeppelin sono i più hard-rock di tutti perché costoro fanno a molte riprese vero e proprio folk-blues...). Nel 1975 esce anche il primo album di quello che doveva essere il gruppo hard-rock più importante di tutti (con Dio alla voce e Blackmore alla chitarra): ma il "Ritchie Blackmore's Rainbow" avvia la saga di un combo, i Rainbow, che finirà per rinnegare l'hard-rock in favore di un genere molto diverso che da lì a qualche tempo (negli anni 80) verrà delineandosi senza più remore o àncore come metal. La crisi dell'hard-rock, ritardata ma non annullata nel '75, esplode l'anno dopo, anche se il pubblico e la critica la interpretano come l'apoteosi del genere. Nel '76 esce infatti l'omonimo album (dall'omonima città) dei Boston: una sequela raccapricciante di luoghi comuni, riff sentiti e risentiti, melensaggini decennali, ballate delle più sciocche, testi dei più stupidi e insulsi; il tutto coronato da uno smalto commerciale impressionante quanto sfacciato. Sembra di sentire i Deep Purple versione per femminucce scimunite, frivole e grettissime; oppure siamo a metà tra Queen e Aerosmith, con il peggio del peggio di entrambi. Ai ciechi maniaci del genere questa summa del retorico più retorico dell'hard-rock sembrerà forse un capolavoro (e in un certo senso lo è: in quello che di meno artistico od originale non si può fare: ma neanche di più calligraficamente debitore della storia); in realtà, se non fosse stato per la studiata radiofonicità di brani come "More Than A Feeling", anziché da milioni di acquirenti questo lavoro non sarebbe stato preso in considerazione più di chi andasse in giro a dire (vantandosene per di più) di aver inventato l'acqua calda. Nel medesimo anno le Runaways sul versante più garage e heavy, le Heart su quello più folk e sentimentale dimostrano che o l'hard-rock è al maschile o non è, propriamente, hard-rock. Nel 1977, l'anno del punk, la soap-opera sinfonica di Steinman e Meat Loaf (dal Texas), "But Out Of Hell", appare come il porto sicuro (ma di noia) per tutti coloro che non hanno accolto il verbo punk. Una sapiente e calcolata enciclopedia di hard-rock e cabaret anni 50, sia nei contenuti (la vita di sesso e melodrammatica e rozza meditazione dell'hard-rocker) che nelle forme, che ostenta un'ingenuità così messa in mostra da denunciare uno sfondo, per quanto a suo modo e per quanto nascosto dentro una imponente architettura orchestrale, decadente e malinconico. Come tutti i progetti fatti a tavolino, che con più o meno onestà sono calibrati per divulgare alle masse le ormai ovvietà collaudate dei fenomeni culturali, raggiungerà decine di milioni di persone. Nel 1978, con la crisi del genere e con l'imminente capitolazione (almeno per il momento) degli Aerosmith, dalla California i Van Halen gettano nuova benzina su di un fuoco quasi soffocato: ripercorrono e riaffermano tutte le arci-note verità del genere, ma lo fanno con sincerità e convinzione, tanto da spopolare in tutto il mondo. Ancora un chitarrista e un cantante tecnicissimi, e rhythm and blues e sex-symbol, ancora riff immediati e coinvolgenti e "classici" (i migliori della loro carriera in "Ain't Talking' 'Bout Love"), ancora un esplicito omaggio alla tradizione (vedi la cover dai Kinks del manifesto del lontanissimo '64 "You Really Got Me"), ancora irriducibili richiami al sesso e alla droga, ancora il momento "romantico" (l'hit "Jump" da "1984"). La chitarra velocissima, classica (nei riff) e innovativa (nell'esecuzione e nella tecnica, con un continuo confronto con Hendrix) allo stesso tempo, di Edward Van Halen, sarà per il pubblico la più celebre in campo hard-rock, assieme a quelle di Page, Blackmore, Perry e Slash (di gran lunga il più scarso del lotto). Sulla stessa linea dei Van Halen, ma con un tono meno sincero e più vegliardo (e anche più lento, più blues, più pomposo e meno divertente), i Whitesnake di David Coverdale (ex-cantante dei Deep Purple del periodo post-Gillan, dal '74 al '77). Un primo bilancio dopo dieci anni di esistenza dell'hard-rock (1968-1978) dimostra come a livello ideologico e sociale sia questo stato un movimento squisitamente ludico e al di là di tutte le problematiche riguardanti in senso pregnante sia l'individuo che la società. Prova ne è l'indifferenza che l'hard-rock riserverà al punk: la verità potrebbe addirittura essere che il punk, il movimento "esistenziale" per eccellenza, sia sorto come reazione alla ingenuità, all'infantilismo, all'epicureismo, al maschilismo, al borghesismo dell'hard-rock e dell'individuo medio da esso rappresentato. I testi hard-rock non dicono niente, niente che non sia di quanto più ovvio, scontato, pletorico, abusato, si possa immaginare. E questo non perché chi li scrive sia necessariamente uno stupido: bensì perché la comunicazione di un messaggio particolare, significativo, pregnante, non pertiene al genere in questione, che vuole soltanto soddisfare l'aspetto sensuale e voluttuoso e non quello interiore e problematico della persona. Mentre il motto dell'hard-rock è "Let's Go!", quello del punk (e dell'heavy-metal) è "No!". Nel 1979 si affaccia con un hard-rock abbastanza scontato ma una potenza e foga una spanna sopra tutti gli altri il secondo importante gruppo tedesco: gli Accept. Nella loro carriera fatta di ottime e articolate (nonché violentissime) composizioni, giungeranno (nel 1982) a inventare il power-metal. Gli Accept costituiscono, pur nel rispetto dell'ortodossia hard-rock, un caso abbastanza singolare di perfetto bilanciamento tra rock e metal, impatto e armonia, semplicità e profondità. Il grande pubblico (specie europeo) li ignorerà quasi totalmente. Lo scoccare degli anni 80 segnò anche per l'hard-rock uno spartiacque. Come accade sempre per ogni cambio di decade, nell'inevitabile continuità, ci sono comunque cambiamenti di gusto, fruizione e ideologia che fanno vittime illustri, condannate a scomparire o a rinnovarsi per tornare successivamente o con la prossima moda più gloriose di prima (d'altra parte non è che il 1980 fu l'anno dell'apocalisse; già i tre anni precedenti avevano portato grandi cambiamenti: furono quest'ultimi casomai a essere avvertiti in ritardo da chi ne pagò le conseguenze). Deep Purple, Led Zeppelin, Santana e Aerosmith, da tempo in crisi, dichiarano ufficialmente bancarotta; Alice Cooper e Queen cambiano genere: il primo con il dark e il synth-pop fallirà commercialmente e artisticamente, i secondi con la dance e la world music continueranno a vendere, mantenendosi, artisticamente, nella stessa ambiguità limbica che li ha sempre contraddistinti. Teoricamente, con gli anni 80 e con l'avvento del metal, l'hard-rock sarebbe dovuto scomparire; tuttavia le frange di pubblico stregate da ingenue e teatrali composizioni strutturate secondo i binomi piano-forte, veloce-lento, elettrico-acustico, erano e rimarranno le prevalenti, come sempre accade alle vie di mezzo, compromessi di né carne né pesce. Oggettivamente presente la nuovissima scala di tonalità del metal, l'hard-rock (e il "suono" di tutti i sottogeneri rock) se ne servirà ora per aumentare la propria intensità media di suono, ora per abbassarla, allargando il diaframma tra piano e forte sia all'interno di composizioni del medesimo gruppo, sia tra composizioni di gruppi più pop e gruppi più heavy. Uno sfondo oscuro e artificiale condirà poi il tutto, come è d'obbligo per il periodo in questione, impregnato di dark fin nelle barbe. Nel 1980 esordisce in Inghilterra (con "On Through The Night") uno dei meno originali, più mediocri e tuttavia o proprio per questo più celebri e straricchi gruppi hard-rock: i Def Leppard. Negli anni, tra ballate strappalacrime e assoli chitarristici struggenti, con vocalizzi retrò e costipati, passeranno le decine di milioni di copie vendute di dischi, consolidando (se ce ne fosse mai stato bisogno) la figura dell'hard-rocker (il macho iper-dotato, alla moda perché demodé, ostentatamente maledetto e tanto incolto e ignorante in assoluto quanto poeta e artista per la povera gente) già inflazionata nel decennio precedente da Aerosmith e Van Halen. A onor del vero, va detto che i Def Leppard aggiunsero di nuovo a questo standard la "dimensione anni Ottanta" e riaffermarono lo stesso con una sincerità d'intenti e convinzioni che li accomuna ai "maestri" americani appena citati. Potrebbe essere anche un estremo demerito: non solo questi ragazzi facevano, dicevano, pensavano, credevano le stesse cose fritte e rifritte da tempo immemorabile, ma lo facevano anche con l'ingenuità e sincerità della prima volta. D'altro canto può anche trattarsi che l'hard-rock esprima una verità così universale (quella dell'operaio-galeotto, del rozzo-romantico, del drogato-epicureo) che nel suo ripercussivo riaffermarsi non fa che sostenere, così, la vita in generale. Eccettuati i Def Leppard, per tutti gli anni 80 l'Inghilterra sarà sterile di hard-rocker. Nello stesso 1980, le Girlschool (con "Demolition") in Inghilterra ripercorrono i fasti delle Runaways, mentre a New York i Plasmatics della strega-punk nonché unica, vera donna-metal Wendy Williams, si meritano un posto a parte nella storia per un metal-garage dai contenuti esistenzialisti, nichilisti e irriducibili del punk. I Plasmatics negano, amaramente deridendolo, l'hard-rock dall'interno dello stesso. Nel 1981 (con "Too Fast For Love") a Los Angeles i Motley Crue riscrivono le leggi del genere. Impersonificano e interpretano tutti gli stilemi e i suoni dell'hard-rock, ma lo fanno con un piglio decisamente estremo (sia sul piano che sul forte) e negativo-punk, alieno al genere. In Inghilterra (che non si libererà mai dal blues) ciò sarebbe stato impossibile. Per la prima volta i pezzi sono esplicitamente offensivi contro tutto e tutti, non più maschilisti, ma misogini e misantropi. Vengono eseguiti, in pratica, da quattro fotomodelli depravati e ingestibili che fanno della provocazione e dell'oltraggio un mestiere: questi sono inoltre ottimi strumentisti e compositori; almeno fino al 1989 pubblicheranno brani su brani tanto violenti quanto epidermicamente trascinanti. È hard-rock puro, quello dei Motley Crue: musica semplice, senza pretese se non il divertimento e lo svago, senza altri scopi nella vita che il sesso, l'alcol e la vita balorda: ma per una volta è musica eseguita senza sentimenti melensi (nonostante certe ballate), senza annoiare, senza avere precedenti immediati e lasciando da parte il blues: è rock n' roll (vero). Venderanno (soprattutto in America) milioni di dischi. Nel 1982 vengono a battesimo (con "Under The Blade") i newyorkesi Twisted Sister, tra glam, metal e hard-rock. Fra i più originali (e divertenti) del genere, ora auto-ironici, ora disperati, ora Black Sabbath, ora Jerry Lee Lewis, daranno il capolavoro "Stay Ungry" (1984). Nel 1983 i floridiani Savatage (con "Sirens"), tra riff speed-metal e sciorinate pop, daranno avvio a una lunga carriera tutta romanticismo tanto terra terra quanto sincero e a loro congeniale, culminante nella rock-opera "Streets" (1991), per complessità, qualità di singoli brani, per la catarsi, ingenua commozione, eticità che esprime, nel genere ineguagliata. Gli W.A.S.P. (dell'ex batterista dei New York Dolls, ora al basso e alla voce, Blackie Lawless), invece, sulle orme dei Motley Crue e dei Plasmatics giungeranno, a forza di pessimismo, nichilismo, sadismo, alla negazione del genere: il loro primo titolo è "Animal (Fuck Like A Beast)". Per avere un'idea dell'impatto di questo gruppo, si consideri che Marilyn Manson ne è un ideale discendente. Il 1984 vede l'astro nascente Bon Jovi, alfiere, dal New Jersey, dell'hard-rock più adolescenziale, romantico, sensuale e femminile: sulla scia di Aerosmith e Def Leppard (soprattutto), il gruppo spopolerà con le sue ballate più di tanti gruppi pop. Innegabile gli è comunque una capacità per la composizione di forme-canzoni molto tradizionali e molto americane, richiamanti le geometrie squadrate e i toni "operai" (nonché la "bassa-cultura") di Bruce Springsteen. Nella seconda metà degli anni 80, sul fronte hard-rock si avranno tre fenomeni, che denunciano tutti la fine del genere: l'hard-rock "alternativo" (e programmaticamente "crossover") rappresentato dai Faith No More (o almeno alcuni lavori di) che esordiscono nel 1985 e dai Jane's Addiction ("Nothing Shocking", 1988: con il capolavoro edipico e post-moderno insieme "Ted, Just Admit It ."); l'hard-rock "fallimentare", rappresentato da gruppi kitsch non in grado, pur provandoci, di passare per alternativi: è il caso dell'inascoltabile glam dei Poison e del funk fine a se stesso degli Extreme (mentre i Bad English si meritano la palma di più grande pop-metal-band di tutti i tempi: ovvero di peggior gruppo di sempre, almeno nel panorama hard-rock); l'hard-rock "d'ultima stagione", dovuto solo alla caparbietà e alla rabbia esplosiva dell'ultimo mito hard-rock e l'ultimo complesso in grado di interpretare non goffamente e non sterilmente, il genere: i losangeliani Guns n' Roses (che ripartono dove l'hard-rock si era fermato: prima del punk e del metal, e lo riportano nel post-punk e post-metal). A inizio anni 90 risuscitano (sull'onda della negazione dell'"anni-80 sound") vecchie mummie come gli Aerosmith, che ripropongono alle numerosissime e profumatamente paganti nuove leve la loro unica bibbia anni 70. I Pearl Jam di "Ten" (1991) sono una questione sui generis, invece, in quanto prima di passare al grunge (componenti del quale avevano già contribuito a inventare) fanno un album che è programmaticamente una fuga negli anni 70 (dominati dall'hard-rock) e in particolare un omaggio quasi continuo al Neil Young elettrico. Dopo trent'anni arriva (proficuamente, benché a livello mondiale il rock in queste stagioni sia già ampiamente morto) anche in Italia l'hard-rock: danno una summa di hard-rock mediterraneo i Litfiba del live "Colpo Di Coda" (1994), offrendo, tra l'altro i migliori (o meno peggiori) testi hard-rock che si siano mai sentiti. Una struggente, adolescenziale, atmosferica poeticità, gravida di suoni tanto solari quanto potenti e immediati.

Fonte: Ondarock
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Bristol è rinomata per essere la città in cui il richiamo del passato, conservato in edifici, chiese e monumenti che spaziano dal gotico al vittoriano firmato Brunel, convive con le vie delle modernità lungo cui si muove l'economia inglese. E' una di queste vie che probabilmente è stata imboccata all'inizio degli anni 80 dal Wild Bunch, collettivo di dj che, proponendo un soundsystem rivoluzionario, è riuscito a cogliere nel segno della modernità la nuova ondata elettronica appena partorita nei locali di Detroit e Chicago.

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Con arguzia e abilità punk, il Wild Bunch mescola gli ultimi motivi elettronici con i toni più pesanti dell'hip-hop, quelli allungati del dub e quelli spensierati del reggae, ma in downbeat piuttosto che in upbeat, come era uso fare nella techno e nella house appena nate negli Usa, ovvero rallentando molto la ritmica in modo che il numero delle battute sia inferiore alle 120 bpm.
Nelle movimentate notti bristoliane prende corpo l'omonimo sound e si formano alcune delle personalità che trasformeranno questa città nel laboratorio musicale più in fermento di fine millennio.

I primi a dover essere chiamati in causa sono Tricky (poi solo Tricky), Mushroom, 3D e Daddy G, che prima nel 1987 fondano i Massive Attack e poi nel 1991 pubblicano "Blue Lines" (Tricky tuttavia non sarà mai membro effettivo della band, pur essendo uno dei suoi iniziatori: la sua presenza nel gruppo si limiterà a un ruolo di collaboratore).
"Blue Lines", il debutto dei Massive Attack, scopre una fetta d'elettronica multisfaccettata e mai esplorata: fatta di suoni tesi e inquieti, un po' per la vena malinconica, un po' per la componente dub; impreziosita da voci ben scandite che tengono testa alle vibrazioni sonore evocate; e impregnata di bassi di origine hip-hop, che invece di infondere il sole newyorkese, calano la fosca atmosfera in cui ci si trova immersi nel camminare di notte per la città.
Si alternano le voci calde di Tricky, Horace Andy, leggenda reggae che ricorrerà spesso nei loro dischi, e della chanteuse soul Shara Nelson, che trascina al successo "Unfinished Sympathy", il singolo dal groove ipnotico e struggente. Dal basso nero pece di "Sale From Harm" alle sinuose "linee blu" della title track, dal possente dub di "Five Man Army" alle sfumature quasi gospel di "Hymn Of The Big Wheel", i Massive Attack rivoluzionano la musica dance con un'alchimia tutta giocata sui campionamenti, sulle atmosfere oniriche e sull'alternanza tra rap e canto soul, inventando, di fatto, il primo embrione del trip-hop. Musica atmosferica, narcotica, da viaggio (il "trip"), che rallenta le pulsazioni hip-hop e house per ottenere un effetto più rilassato e onirico. Musica cerebrale, eppure profondamente fisica, con quei bassi dub che entrano nello stomaco.

Nel 1994 i Massive Attack fanno il bis con "Protection", che comprime le parti soul per approfondire il ritmo dance innescato dal precedente album. Il lungo incubo reggae di "Karmacoma", intonato dal registro cavernoso di Tricky, è il nuovo manifesto di un sound che si fa sempre più torbido, narcotico e sofisticato, lambendo abissi di malinconia nel quasi-lounge di "Weather Storm" (con Craig Armstrong al piano) e nella title track, dove torna a brillare la voce di quella Tracey Thorn che aveva fatto la fortuna degli Style Council in piena febbre "new cool" 80.

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Il 1994, però, è anche l'anno del debutto di un'altra band, proveniente da una minuscola frazione limitrofa, affacciata sull'Oceano. Un luogo che, da misconosciuta croce sulla mappa d'Inghilterra, diverrà sinonimo dell'epopea mondiale del trip-hop. Portishead è infatti il nome del paese in cui trascorre la giovinezza Geoff Barrow, giovane polistrumentista e produttore che però a Bristol ha già messo il naso collaborando con Massive Attack e Tricky. In uno studio di registrazione, Barrow incontra Beth Gibbons, cantante "da pub", esile e timidissima, ma con un fuoco soul nelle vene e una fervente passione per interpreti come Billie Holiday, Janis Joplin, Elizabeth Fraser e Astrud Gilberto.
Nascono così i Portishead. Più che una band, un progetto artistico a tutto tondo, curato fin nei dettagli, dalla grafica minimale alla produzione dei videoclip.
Il loro disco d'esordio "Dummy", registrato con l'ingegnere del suono Dave MacDonald e con il chitarrista jazz Adrian Utley, diffonde sull'impianto dub creato dai Massive Attack sonorità noir-jazz prese in prestito da colonne sonore di film di seconda categoria degli anni 60-70, arrangiate e reinventate da Barrow, mescolate a spunti lounge (con moog e hammond dal gusto vintage) e ritmi hip-hop rallentati, e immersi in fumose atmosfere retrò, desolatamente romantiche. A nobilitare questo impasto di suoni, il canto dolente della Gibbons, ora teso e straziante, ora caldo e sensuale, come nel lento "Glory Box", mesta dissertazione sulle tribolazioni delle donne, o nella suadente "Mysterons". Il climax emotivo è però il singolo "Sour Times", torch-song postmoderna guidata da un sample di Lalo Schifrin: le chitarre di Utley e il cesello di Barrow agli scretch e alle tastiere allestiscono un clima spettrale, su cui decolla una melodia sontuosa, intonata da una sconsolata Gibbons. L'impronta jazz, portata in dote dall'eclettico Utley, è più evidente in tracce come "Strangers" e "Pedestal", mentre "Roads" abbina i gemiti delle chitarre a un'orchestrazione retrò, sospinta da archi solenni. La Gibbons torna sugli scudi nella malinconica "It Could Be Sweet", nell'ossessiva "Numb" e nel lied incalzante di "Wandering Star", dove veste i panni della chanteuse di un fumoso cabaret notturno.
"Dummy" è sì il manifesto definitivo della rivoluzione trip-hop, ma anche l'opera che più di ogni altra travalica i confini di quel genere, per approdare nella nuova frontiera di una musica tanto retrò (nell'animo) quanto moderna (nell'approccio). L'opera dei Portishead affonda le radici nella mestizia del blues e nelle confessioni a cuore aperto del soul; assorbe l'angoscia e l'indole accidiosa della darkwave, la rabbia dell'hip-hop, l'ossessività della techno. E riesce a rivestirle in ballate di gelida eleganza, grazie anche a un gusto orchestrale mai sopra le righe.
Il successivo "Portishead" (1997) accentuerà la dimensione più oscura della loro musica. Con un più frequente utilizzo di strumenti veri e una maggiore propensione hip-hop rispetto all’esordio. Tutto sarà ancora più tortuoso ed ermetico. Come nell’iniziale "Cowboys", dove un’intro electro-lounge tempestata di scratch è punteggiata da oscuri twang di chitarra, su cui si staglia il canto afflitto della Gibbons. O nel singolo “All Mine”, che oscilla tra spunti jazzy a climax da noir hitchcockiano. Ma sarà soprattutto "Humming" il vertice di questo nuovo corso della band, con l’ululato da brividi del theremin a evocare scenari spettrali, sui quali il soprano di Gibbons eleva il suo angosciante requiem, sincopato dai beat. Meno dirompente e accattivante, l’opera seconda dei Portishead non bisserà il successo di "Dummy", ma col tempo si guadagnerà la giusta reputazione: quella di colonna sonora ideale per una fin de siècle metropolitana e desolata.

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Proprio mentre il singolo dei Portishead "Glory Box" esporta all'estero il Bristol sound, scorrendo veloce nelle programmazioni delle stazioni radiofoniche di tutto il mondo, nel 1995 Tricky sforna "Maxinquaye" che mette in evidenza la sua maturazione artistica che l'ha spinto a rompere con i Massive Attack e a tentare la carriera da solista.
Sangue misto africano, irlandese e giamaicano nelle vene, Adrian Thaws alias Tricky ha una ferita mai rimarginata: quando aveva 4 anni, sua madre si è suicidata. "Maxinquaye" era il suo nomignolo, e il suo spirito è evocato ovunque tra i solchi del disco. In quest'album, senz'altro più legato alle cadenze del tradizionale hip-hop, aleggiano tutti i tentativi di Tricky di rendere il sound bristoliano liquido e lacustre, campionando o producendo melodie cupe e sognanti, che vengono con leggerezza infuocate dalla voce della debuttante e appena quindicenne Martina Topley Bird.
Il folletto di Bristol filtra e manipola il materiale più disparato: ecco quindi il baritono di Isaac Hayes riemergere, rallentato e disumanizzato, in "Hell Is Round The Corner", carillon retro-futurista coperto di ruggine a 78 giri, seviziato da presse industriali e synth; ecco una pigra linea di batteria degli Smashing Pumpkins campionata a ossatura del "raga-hop" di "Pumpkin", ove la voce dell'altra esordiente Alison Goldfrapp si libra libellula, o ancora un irriconoscibile frammento di "Bad" (Michael Jackson) compresso in "Brand New You're Retro", arringa scandita da ingranaggi pulsanti ed effetti quasi cartooneschi: puro "hip-pop" su misura per il dancehall. La deriva ultima del processo è l'accumulo puro e semplice di eventi sonori: "Strugglin'", forse i 6:38 più alienanti mai prodotti in seno al trip-hop, con un loop lentissimo, trombe da giorno del giudizio, rhodes ridotti a una pasta di liquami, effettistica horrorcore da manuale.
L'alter ego femminile di Tricky è la sua vocalist e girlfriend Martina, ugola sottile, fraseggio bluesy, con un filo di raucedine. Laddove la Gibbons si immola a ultimo, doloroso vessillo di umanità da contrapporre allo strapotere delle macchine, quello di Martina è canto-trance per anime anestetizzate (la si ascolti in "Aftermath", tossica wasteland in fermo immagine appena redenta da flauto incantatore, chitarra in wha-wha e granulosità del breakbeat), zona d'ombra in cui ogni inspirazione acquista una valenza spropositata ("Overcome" e la sua cadenza lunare, meccanicizzata, altro capolavoro dark dello stile bristoliano).
Unica cover del disco è "Black Steel" dei Public Enemy, in cui la Topley Bird guida una danza noise-rock per chitarre sulfuree e sussulti ragga accelerati.
Se l'aura dei Massive Attack si librava nell'etere come ipotesi di soundsystem "dreamy" e i Portishead confinavano la loro opera di riciclaggio "attivo" a lounge-jazz, soul e colonne sonore di spy movie, Tricky è il black hole, la discarica emotivo-semiotica di un'intera civiltà sonora.

Rievocando i primi vagiti del Bristol sound, non possono essere dimenticati anche gli Smith & Mighty, cultori del lato più espressamente dub-reggae all'interno dello stesso Wild Bunch. Per chi non lo sapesse, gli Smith & Mighty sono stati produttori del primo singolo dei Massive Attack, "Any Love" (1988).
Dopo varie sventure con la major Company London Records e la rottura proprio con quest'ultima, incidono su una loro nuova etichetta lo storico "Bass Is Maternal" (1995) che elogia la ricerca dei loro amati bassi. Ironia della sorte, nella versione in circolazione dell'opera, i toni bassi sono ancora più profondi, poiché si ha tra le mani la lavorazione dub dell'originale, andata persa quando il gruppo era sotto contratto con la Company London Records.

Ancora da segnalare sono Monk & Canatella, così malinconici e filmici in "Care In The Community" (1996) che potrebbero sembrare seguaci dei Portishead, se non fosse che nella versione americana di "Sour Times" compare "A Tribute To Monk & Canatella", un omaggio personale di Gibbons e Barrow che potrebbe confessare tacite influenze.

A metà degli anni 90 la stampa è stanca di straparlare di un genere senza nome, perciò decide lei stessa di battezzarlo come trip-hop, l'hip-hop che in quanto inglese è più sofisticato, tanto che ti fa fare i trip...
Ormai nominato ufficialmente trip-hop, nella seconda metà dei 90 il Bristol sound si infiltra in ogni contesto, soprattutto in quello televisivo e in quello cinematografico; a volte sa di rock elettronizzato, a volte invece di pop da dance-hall, ma il più delle volte rimane fedele all'estro black e in salsa electro rimarca note di R&B, funk e free-jazz, indirizzandosi verso il breakbeat, D&B.
Il trip-hop è ormai ovunque, ma nessuno lo sa. In compenso ha perso la freschezza oscura di cui l'avevano dotato al suo esordio Massive Attack & C.

Il post-trip-hop, tanto per usare il termine coniato appositamente dall'Independent, è capeggiato da band inglesi come Alpha (trip-hop & downtempo), Gorillaz (tra alternative rock e trip-hop: trip-rock), Lamb, Moloko (prima della svolta dance), Mandalay, Mono (nell'unico e imperdibile "Formica Blues"), Morcheeba, Red Snapper, Sneaker Pimps, Unkle (la crossoverizzazione del trip-hop ad opera di Lavelle e Dj Shadow), Zero 7 (ancora trip-hop & downtempo); anche se spuntano nomi forestieri come, ad esempio: Lovage, Halou, Hooverphonic, Terranova.

Inoltre, nel corso dei 90 sono molte le vocalist provenienti da altri ambienti musicali che, avvalendosi di collaborazioni con produttori-musicisti cresciuti attorno alla scena di Bristol (Nellee Hopper, Tricky, Howie B, Ben Young, lo stesso Barrow prima di incontrare Beth Gibbons), hanno prestato la loro voce a sonorità invaghite di trip-hop: è il caso della glaciale Bjork nei suoi "Debut" e "Post", Neneh Cherry in libera uscita dai Rip Rig & Panic, Alison Moyet, emersa come reginetta del pop elettronico inglese con gli Yazoo, per non parlare di una futura, splendida Emiliana Torrini in "Love In Time Of Science" (1999), ma questo riguarda già l'avvenire del trip-hop, occorre rimanere negli intorni temporali (metà dei 90), per seguirlo passo per passo.

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Mentre il British sound si erge nutrendosi di formule bristoliane, il trip-hop inizia a frammentarsi e a protendere la sua filiazione.
C'è chi, come James Lavelle, rigetta la definizione limitativa di trip-hop e inventa di proposito una sua etichetta, la Mo' Wax, per far largo all'abstract hip-hopche - come fa notare Zingales - all'ascolto pare una "versione progressive dell'hip-hop", ma che nella mente del proprietario della Mo' Wax vuole essere "espressione musicale di un'emozione: hip-hop con l'anima" (queste testuali parole compaiono scritte sulle copertine dei suoi prodotti).
Ad aprire il filone dell'hip-hop astratto indetto dalla Mo' Wax nel 1996 sono due dischi: "Endtroducing" di Dj Shadow, in cui prende respiro l'arte del riciclo di ogni suono, rumore e persino della musica orchestrale o dei film, capace di rendere strumentale l'hip-hop; e "Substances" di Dj Cam, che concorre a tracciare questo percorso costituito da campionamenti e turntablism e che aggiunge al misto hip-hop, jazz e funk accomodato da Dj Shadow le sinfonie arabe cantate dalla fascinosa Kalkoli Sengupta. E', però, da tenere ben presente che questi ultimi lavori discografici sono anticipati di un paio d'anni da "Strictly Turntablized" di Dj Krush, il primo a incidere per la Mo' Wax.
Seppur sorta in un altro angolo del trip-hop, la casa discografica parallela alla Mo' Wax è la Ninja Tune, creazione che risponde ai nomi di Matt Black e Jonathan Moore, meglio conosciuti in arte come Coldcut, vale a dire i pionieri del sampling inglese. Emersi con il boom dell'acid-house londinese a fine anni 80, i Coldcut si dimostrano abili produttori e maneggiatori delle tecniche di campionamento. Sono loro, infatti, che piazzano il remix moderno nel mainstream dell'elettronica. Un disco di gran successo come "What's That Noise?" ('89) sta a testimoniare tutto questo. A cavallo dei 90, Matt Black e Jonathan Moore sulla scia sperimentale bristoliana cambiano versante e con la fondazione della label Ninja Tune e del progetto Dj Food si lanciano all'inseguimento di un nuovo sound elettronico in cui addentrarsi.

Grazie a molte realizzazioni eclettiche, disparate e quasi irripetibili tra cui quelle di: Funki Porcini ("Hed Phone Sex", ‘95), Dj Food ("A Recipe For Disaster", '95), Irresistible Force ("It's Tomorrow Already, '98), la Ninja Tune riesce a delineare il breakbeat di matrice hip-hop in un catalogo così assortito e vasto da comprendere pure qualche perla di abstract hip-hop rilasciata da Dj Vadim ai suoi esordi ("USSR Repertoire", '96; "USSR: Life From The Other Side",'99), e molte opere di artisti come Cinematic Orchestra, The Herbaliser e Up, Bustle and Out, rappresentanti della nu-jazz, corrente musicale dagli aspetti difficilmente caratterizzabili e sempre in continua effervescenza.
Una parte della corrente che seguirà le orme del dub atmosferico e lento è detta "downtempo". Il termine fa da contenitore a variegati sottostili che discendono dal downbeat bristoliano e che a una velocità impercettibile, così come suonano, proliferano, mantenendosi indefiniti e lontani da ogni possibilità di classificazione netta.

Sicuramente a prevalere in questa categoria è il chill-out, il beat elettronico congelato, noto per essere l'elettronica liscia che accompagna gli aperitivi, dal ritmo reso frizzante e al tempo stesso rilassante da pizzichi di torpore esotico.
Seppur facilmente riconoscibile ad orecchio, il chill-out è sprovvisto di connotati specifici che lo possano definire sulla carta. Solo chi ben lo conosce sa tramutarlo a parole: "Il chill-out è uno stato mentale capace di crearsi lo spazio unendo ambientazione e suoni. E' un long drink sorseggiato in una lunga giornata di sole. E' un momento di pausa preso per apprezzare la bellezza delle cose più semplici" (Chris Coco, uno dei dj più autorevoli del panorama chill-out internazionale).
In quanto elemento rientrante nella club culture, per la quale il club è l'ambito in cui la musica è di casa, il chill-out si presenta come il non genere musicale per eccellenza, che vitalizza il circostante, riempie i vuoti atmosferici e che quindi si presta a fare da impianto sonoro ad ogni luogo aperto al pubblico: ristoranti, bar, caffè, alberghi. Sono loro di fatto che hanno fatto la sua storia nei 90, basti pensare a tutti quei locali di fama universale che ogni anno emettono una raccolta chill-out con il loro nome: Cafè del Mar, Buddha Bar, Hotel Costes. Una musica non soltanto dedita alla socializzazione, se è vero che negli anni 90 il chill-out ha fatto da revival all'ambient (ebbene sì, Brian Eno aveva predetto il chill-out!). In piena "atmosfericità", chiusi in una stanza, mentre il disco gira nell'apposito scomparto, ci si può serenamente lasciare andare dondolati da quella placata armonia. La stessa New Age l'ha utilizzato per i suoi scopi terapeutici.
Musica multifunzionale, priva di una vera e propria funzione originaria, dunque. A meno che non si risalga a "The Land Of Oz", una serata acid-house di Paul Oakenfold alla fine degli anni 80 all'Heaven, disco-club di Londra. Proprio al piano superiore dell'Heaven durante una Oz, si poteva fruire di uno straordinario spazio di decompressione denominato "White Room", curato da Alex Paterson assieme al suo collega Jimmy Cauty (all'epoca condividevano ancora il progetto Orb) in cui, a un volume più basso del normale, le note dei Pink Floyd, di Brian Eno e di Mike Oldfield confluivano in un intrigante ed estatico mixage. Ebbene, in questa "White Room" si trova l'embrione dell'attuale chill-out, disco-music estremamente singolare e distensiva che doveva servire a tutti i frequentatori dell'Heaven a rasserenare in un bagno oblioso mente e corpo e a scaricare l'adrenalina accumulata sui beat house e techno.

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Nel 1990 Paterson e Cauty si separano, si tratta però, contrariamente a ciò che ci si poteva immaginare allora, di una separazione molto proficua per la dance, perché se da un lato Paterson, supportato da Kris Weston e Thomas Fehlmann, porterà avanti gli Orb con epici e sconvolgenti successi, Cauty si assocerà a Bill Drummond e sotto il pseudonimo di Klf rilascerà "Chill Out" nello stesso 1990.
"Chill Out" dei Klf anticipa furtivamente le prossime mosse degli Orb, suggellando la nascita di un nuovo genere elettronico. Lo dice il titolo: "Chill Out" foggia le arie suonate nella 'White Room'. E' musica che universalizza i suoni, che percorre le superfici del quotidiano, che neutralizza tutto ciò che ci sta attorno: la radio rimasta accesa (magari proprio mentre sta trasmettendo una vecchia canzone di Elvis), il tragitto per andare a lavoro, un viaggio estivo, un sogno ad occhi aperti, rumori urbani, melodie del passato sedimentate nella mente che ritornano.
A "Chill Out" segue repentino, nel medesimo anno, "Space", con cui i Klf partono per lo spazio.
L'anno dopo "The Orb's Adventures Beyond The Ultraworld", naturalmente dato alle stampe dagli Orb, vola più in alto ed è fragore immediato. E' nata ufficialmente l'ambient-house.
In modo smisurato (solo l'album suddiviso nei due dischi "Orbit"e "Ultrawold" dura quasi due ore) "The Orb's Adventure Beyond The Ultraworld" rilancia il kosmische rock, spandendo in onde elettroniche quell'eccezionale modo di spaziare dei Pink Floyd, suscitato con l'aiuto di una serie complessa di campionamenti che mescolano il rumorio domestico con il frastuono cittadino, il tintinnio esterno e le nuove sonorità digitali; ma soprattutto "Adventure Beyond The Ultraworld" sintetizza in un'unica soluzione, che presto acquisterà il nome iridato di ambient-house, questa dispersione interplanetaria, gli schizzi dell'acid-house, l'euforia messa da Eno nella sua ambient e i fluidi del dub.
Il doppio disco contiene il manifesto dell'ambient-house, "A Huge Ever Growing Pulsating Brain That Rules From The Centre Of The Ultraworld", composta e pubblicata nel lontano '89, quando gli Orb erano composti ancora da Paterson e Cauty. Per venti minuti di fila un vortice predisposto da una scala di otto note che si ripete irretisce l'ascoltatore: suoni e rumori labili e disseminati nel tempo e sul pianeta, l'eco dei Pink Floyd, cori liturgici e la voce di Minnie Riperton che canta "Lovin' You".

Nel giro di due o tre anni questo settore musicale si rinvigorisce attraverso una sfilza di dischi quotati: "The White Room" ('91) dei Klf, "U.F.Orb" ('92) degli Orb, "Flying High" ('92) e "Global Chillage" ('94) di Irrestible Force, moniker di un certo Mixmaster Morris che, rimasto affascinato dai dj set di Paterson, lo prende come esempio e che più tardi, come già anticipato, passerà a produzioni breakbeat.
Vibrazioni stordenti, quelle dell'ambient-house, che preannunciano in prossimità l'avvicinamento di un'altra ambient, pur sempre elettronica.
Una techno inglese in nuce (Orbital, Lfo) ha fatto probabilmente da trampolino di lancio a una categoria di pubblicazioni: "Microgravity" ('91) di Biosphere; "Bytes" ('93) di Black Dog; "Incunabula" ('93) di Autechre; "Selected Ambient Works 85-92" ('93) e "Selected Ambient Works vol. II" ('94) di Aphex Twin; "Lifeforms" ('94) di The Future Sound of London; "74:14" (‘94) di Global Communication. Dischi che sotto la propulsione ritmica e melodica della primissima techno (la genesi di Detroit è punto di riferimento assoluto) e con un appeal ambient (Paterson e colleghi forniscono a questi artisti le basi su cui lavorare) si riversano in un ultrasuono in bilico tra rumore e morbidezza, essenzialità e copiosità, armonia e tensione. Non si poteva fare a meno di chiamarla ambient-techno.

Alla maggior parte di questi lavori si è prestata a fare da madrina memorabilmente la Warp di Sheffield, la quale, tra le altre cose, ha siglato a partire dal 1992 la seminale serie "Artificial Intelligence". Sulla cover del primo volume, un'umoristica vignetta che ritrae un robot seduto in poltrona che si rilassa deliziandosi di "musica elettronica d'ascolto" vuole segnalare la nuova svolta "intelligente" dell'elettronica.
Questa appare quasi come una mossa anticommerciale rispetto alla produzione sregolata e al consumo sfrenato di techno da rave e club e che spiana la strada alla sperimentazione della techno; quest'ultima viene riletta e riproposta come musica mentale, di puro consumo domestico, piuttosto chefisica da ballo, poiché capace di raggiungere picchi minimali quasi al di fuori del concepibile. Da qui il nome "intelligent techno", trasformatosi poi nella denominazione corrente di Idm (Intelligent Dance Music). Una produzione che giunge molto fruttuosa fino ai nostri giorni, se si pensa alle mille meraviglie dei Boards of Canada.
Ma espressamente per chill-out si intendono i sottofondi elettronici che intrappolano la naturalezza del jazz e dell'hip-hop e sono speziati da un'effervescente miscela di suoni provenienti da ogni angolo del globo.

Dopo aver esplorato e celebrato il cosmo, la neo-ambient abbandona l'ultramondo e torna a viaggiare sulla terra, assumendo quel sapore continentale venato di dettagli folcloristici e imponendosi come musica del tempo libero del perfetto cosmopolita della generazione X.
Il traguardo sarà tagliato alla fine dei '90, quando il chill-out circolerà liberamente nel mercato discografico etichettato ad hoc come genere, ma qualcosa già è percettibile nell'aria con "Smokers'Delight" ('95) di Nightmares On Wax e "Leftism" ('95) di Leftfield.
Il primo è quasi (dipende dai punti di vista) la pietra miliare del chill-out da compilation. In una fumida tracklist il cui artefice è uno solo, George Evelyn, ogni singola traccia è uno spunto atmosferico distinto che concorre a delineare un equilibrio psichico che richiama la pace dei sensi. Pur adottando la stessa tecnica del trip-hop di ripescaggio e remixaggio di vecchie canzoni, "Smokers Delight", caldo come i colori giamaicani riprodotti sulla copertina, si colloca però agli antipodi degli oscuri Massive Attack e Portishead.
"Leftism", catalogato come progressive house, è stato accreditato come uno dei capisaldi della dance 90. Benché prenda le mosse dalla dance, "Leftism" si proietta lontano: è uno dei primi dischi che fa cantare i pezzi danzerecci ed è uno squarcio del mondo urbano di oggi. Crossover nel profondo del suo animo (dub, afro-funk, ambient-house, techno e la chicca dell'interpretazione di John Lydon nella ormai leggendaria "Open Up"), riuscì a conquistare anche i sostenitori del rock per la frenesia scatenata, mischiando le carte in tavola, quasi fino a tessere una nuova scena underground.

Il chill-out ormai ultimato è maculato di essenze popolari e lo è anche nel suo manifestarsi, poiché attraversa l'Europa facendola assomigliare al manto di un ghepardo. I dj coinvolti nella composizione di chill-out sono infatti sparsi un po' dappertutto nel Vecchio Continente, oltre che nei più probabili Stati Uniti.
Per esempio, se casualmente ci dovessimo ritrovare a Vienna alla ricerca di un po' di refrigerio in un qualche accogliente lounge bar lungo la Mariahilferstraße, la via dello shopping, alla vista di un barman che termina un cocktail versando una cascata di cubetti di ghiaccio nel bicchiere, il collegamento ai Kruder & Dorfmeister ineluttabile sopraggiungerebbe, il loro "Dj Kicks" (1996), il più raffinato della serie, potrebbe appropriarsi del clima e la dicitura chill-out funzionerebbe alla meraviglia.
C'è chi ha avanzato addirittura l'ipotesi che sono stati loro ad aver inventato il chill-out moderno. Di certo, l'ascolto di "K&D Sessions" (1998), che altro non è che la raccolta di remix sparpagliati prodotti per altre notorietà musicali, risponde alla domanda "Che cos'è il chill-out?". Un doppio compact disc che mette in mostra un sound luminoso e frizzante, giocato sapientemente in una tinozza di ingredienti: un dub che pare un garbato prosecutore della miglior tradizione giamaicana degli anni 70, un hip-hop che elargisce veraci bassi e bossa nova, una delle tante musiche del mondo che viene impiegata dal chill-out nella sua espressione.

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Generalmente morbido ed eccentrico, occasionalmente vellutato, il chill-out lo dimostra a chiare lettere: ama la world music.
E se la bossa nova spumeggia qua e là, altre persuasioni latine sono rintracciabili nei Gotan Project che si dilettano a offrire flessuose rivisitazioni di tango argentino, nei Quantic, che condiscono le loro pietanze con tanto di salsa, nel trip-hop a tempo di samba degli Smoke City o nella samba propriamente detta del pop brasiliano della cantante Bebel Gilberto.
E chi ha detto che oggi non si possa assaporare il gusto chill-out persino nell'afrobeat di Fela Kuti che, in dosi sempre maggiori a partire dalla fine dei 90, è stato emulsionato con funk, jazz e a volte musica elettronica da gruppi come Afrodizz, Antibalas e Kokolo?
Spostandoci ad Oriente, ben vengono i Thievery Corporation, che ogni tanto incorporano il folk indiano nel loro suono maestro, oppure si può sempre volare sui tappeti arabi prodotti da Dzihab & Kamien, e la stessa esperienza si potrebbe ripetere ascoltando i Banco De Gaia, che condensano risonanze mediorientali in un dub psichedelico in linea con quello dei Sounds From The Ground e dei Loop Guru.

Con il chill-out torna a farsi viva la lounge, altra mood music, nello specifico quella impiegata negli anni 50 e 60 per sonorizzare gli ambienti ad alta frequentazione (dalla hall dell'albergo al supermercato) costituita da più stili musicali con una forte predilezione per l'esotico che nell'insieme ventilavano un'aria gaia e spensierata (indice di quella fiducia dovuta al comfort e alle novità che si stavano gustando).
Nonostante nel caso della lounge si tratti di una vera e propria reviviscenza dell'omonimo genere degli anni d'oro, la lounge odierna viene spesso identificata con lo stesso chill-out a causa della sua spiccata tendenza a essere elettronica e suggestiva; in ogni caso è da vedere come fenomeno contiguo allo sviluppo del chill-out.
La maggioranza degli esponenti stessi converge in entrambe le proposte musicali e quindi ecco di nuovo: i sopraffini Kruder & Dorfmeister e i loro lontani parenti americani Thievery Corporation; si passa poi a produttori orientati sull'acid-jazz (variante di jazz aromatizzata di funk e hip-hop): da Galliano, James Taylor Quartet, Incognito a Jamiroquai, Brand New Heavies, Nicola Conte; oppure, inoltrandoci nei 90, a quelli di nu-jazz (l'essenza jazz, tra schegge di soul e funk, viene inzuppata nelle paludi elettroniche da dj che coniugano sperimentazione e improvvisazione): St. Germain, Jazzanova e Filia Brazilia; per poi approdare alla vivacità sonora ricca di trasposizioni televisive e cinematografiche di Ursula 1000 e tornare a sonorità d'oltreoceano con la lounge latina di Federico Aubele.
Ma nella top dei dischi lounge più di successo devono essere inseriti anche "Vertigo" (1999) e "Goodbye Country Hello Nightclub" (2001) dei Groove Armada. Da ascoltare tranquillamente seduti in salotto in compagnia, i loro dischi vantano anche una produzione house, una delle poche, che ha saputo regalare qualche emozione trip-hop, oltre a mettere sostanza nella moda "lounge-aperitivo" che stava affiorando anche nella stessa audience house. Un soffice minimalismo avvolge ogni canzone del lotto, in cui ogni tanto spunta pure qualche sequenza melodica onirica da trip-hop e un vistoso funky mood da nightclub. Campionamenti di classici dai 50 in su, break da hip-hop ed eventuali scratch fanno da contorno.

E non c'è due senza tre: chill-out, lounge ed easy listening, tre paroline che siamo ormai abituati a sentire citate insieme. Già, perché altra riscoperta shakerata nel rinfrescante miscuglio del chill-out di oggi è il cosiddetto easy listening del passato (la musica leggera dai colori dei primi televisori, che sprizza quel senso conviviale dell'inizio dell'era dei consumi: il pop melodico d'annata, lo swing americano, l'exotica, la chanson francese, le colonne sonore d'autore di metà Novecento, la musica orchestrale d'intrattenimento o da piano bar di quel periodo) che, tanto per dire quanto queste varietà musicali tendano a ricomprendersi fra di loro, era uno dei generi filtrati dalla vecchia lounge.
Per la verità l'easy listening (e più in generale tutta l'antologia lounge) torna in voga dopo anni di buio, sfoggiato come arma vincente da quel rock dell'inizio dei 90 alla ricerca di una nuova veste in totale autonomia. Quella di cui si sta parlando è una branca quasi nascosta del post-rock indipendente, che riesuma dal dimenticatoio la lounge più classica e la riformula in chiave rock, e i cui capostipiti possono essere individuati negli americani Coctails e nei Combustibile Edison.
Ma per rimanere in tema "atmosfera chill-out", è bene scorgere oltremanica due gruppi instradati dalla label inglese Too Pure, Stereolab e Pram, che a lanci di dischi si sono fatti concorrenza. Entrambe le formazioni, infatti, sembrano prendere forma sotto l'influenza della sperimentazione della tarda onda anglica (se non altro per il vintage legato all'uso di sintetizzatori di vecchia specie e tastiere), trasformata in quell'autentica vocazione krautiana a cui vengono trapiantate melodie easy listening sorprese in atteggiamento lounge per una trascinante mistura da cocktail mai servita.

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Il gioco è quasi fatto. Da una semplice nota dei Pram o degli Stereolab potrebbero scaturire per intero gli Air, fortunatissimo duo francese composto da Jean-Benoit Dunckel e Nicolas Godin, che dimostra eleganza e maestranza nel recupero dell'easy listening. Volendo essere francesi doc, però, l'easy listening rivisitato dagli Air è quello di casa (l'exotica di Serge Gainsbourg e di Bourcharche, le colonne sonore datate di Francis Lai e quel pop francofone anni 60 famoso in tutto il mondo).
Nell'elettronica più esplicitamente house l'operazione simile e coeva è eseguita dal concittadino Dimitri From Paris che in "Sacre Bleu" (1996), altro classico entrato a far parte nel repertorio chill-out, trasmette tutto lo chic parigino dei favolosi anni 60 nell'house rifiorita proprio sotto il simbolo della Torre Eiffel.
Per via di quella bizzarra strumentazione di cui si dotano Dunckel e Godin, la quale combina con nonchalance tecnologie dei 90 e gli antiquati sintetizzatori analogici, i famigerati Moog e Korg che hanno sibilato i cosmici anni 70, sonorità già di per sé un tantino passatiste risaltano di un'inaudita posteriorità che non pesa, ma che al contrario fluttua in un futuro già suonato nell'era spaziale. Le stesse vie elettroniche intraprese dagli Air conducono nell'era spaziale e anche qui spiccano nomi francesi: Jean-Michel Jarre, Jean-Jacques Perrey in un percorso lungo cui si intravede Vangelis prima del crocevia obbligato per i Kraftwerk.

Sotto la strobosfera pulsano di glamour i suoni rètro di "Moon Safari" (‘98), il debut album degli Air, ma inverosimilmente artefatti apprendono l'intenzione nel ricordo, l'emozione già sognata e il longevo desiderio che si perpetua, collocandosi in quel futuro anteriore da ricercare sotto la spinta di un fascino senza età che risplende in un gingillo della Belle Epoque: bello e d'epoca. Non sono nebulose cosmiche ma scaglie di spazio quelle cosparse dagli Air su "Moon Safari" che per rispetto dell'easy listening sviano verso l'electro-pop.
Electro-pop, un'eresia per due freschi compositori che si muovono all'interno di quella produzione indie che aspirava negli anni 90 a rigenerare musica genuina, nauseata dalle troppe dosi di camuffamento sintetico degli anni 80 e che quindi aveva radiato l'electro-pop, dichiarato infetto di mecenatismo e senza riguardo per le belle forme. Electro-pop, un romanticismo caramellato alla vaniglia permea i mille risvolti femminili di "Moon Safari", laddove la femminilità, a evitare interpretazioni fuorvianti, sta a simboleggiare l'astro, "La femme d'argeant", che da sempre ha costellato i nostri sogni: la luna. Sotto questa luce argentea "Moon Safari" unisce tre dimensioni che faranno la sua fortuna: pop, love e dream, le ricopre di zucchero a velo quanto basta, per poi rinfilarla nello spazio con fantasia. Uno spazio poco evoluto, si intenda, in confronto a quello conosciuto durante le avventure intergalattiche degli Orb, poco serioso e impegnativo da scovare, che non ha niente a che vedere con i richiami cosmici pinkfloydiani e tutte le varie saghe krautiane e kosmische, insomma quello strato blu ammirato da sdraiati in una giovane notte estiva passata in spiaggia in dolce compagnia ("Kelly, watch the stars!").
In "Moon Safari" vibra uno spiazzo libero, superaccessoriato con le griffe più alla moda che etichettano il mondo adolescenziale, fatto di neologismi, gesti, rituali e oggetti che sono icone, simboli imprescindibili, colorato con sicurezza con le tonalità base della scala cromatica...un tuffo a testa in giù in un tubetto di Smarties e se c'è esitazione, è quell'esperienza che manca e si sta assaggiando, i contorni, allora, si sfocheranno, appena i colori si opacizzeranno per riflettere il bluette delle luci nere di Wood o del chiarore di luna ("Remember"). Le vignette di un fumetto lasciato aperto sul letto per andare a rispondere al telefono che squilla ci riconducono in quel microspazio già rammentato, popolato di personaggi simpatici e amichevoli che pur qualcosa vorranno dire, anche se messi là sembrano un po' astrusi, come il famoso gorilla con addosso la maglietta con scritto "I Love Moon" nel video della cosmonautica e sensuale "Sexy Boy". Il vocoder che duetta con gli strumenti spaziali analogici ci fa capire che siamo in un tempo ancora più remoto di quello in cui pensiamo di essere e ci alletta a restare senza farci domande e a godere di emozioni evanescenti e piccole sensazioni lunari.

Free spirit e suggestioni naif dei Beach Boys costituiscono l'elemento che gli Air condividono insieme all'utilizzo del vocoder con l'altra coppia francese che capovolge i dettami della disco-music a fine anni ‘90: i Daft Punk.
Molto più in sintonia con "The Virgin Suicides" (2000) che con "Moon Safari", "10000 Hz Legend" (2001) si affaccia sull'elettronica d'avanguardia, con cui gli Air, con modeste intenzioni, fanno i piccoli Kraftwerk della situazione ("Electronic Performers"); rinnovano i modi del pop francese radiofonico ("How Does It Make You Feel?"); mantengono un sex appeal da dancefloor, servendosi della grazia delle Buffalo Daughters per lo space chill di "Lucky And Unhappy" e "Sex Born Poison"; e concludono con un set di canzoni che si dimostra un triplo concentrato. Attraverso "Wonder Milky Bitch", "Don't Be Light" e "Caramel Prisoner", il western riportato alla luce dalle colonne sonore più memorabili si incrocia con i Kraftwerk passeggeri su una certa locomotiva, incontrati per caso in un'oasi semidispersa tra le dune sabbiose, prima di fare rotta verso una stazione spaziale in cui sostano i Pink Floyd. "Radian" azzecca una psichedelica lounge che fa sfumare per mezzo di arpe, flauti e piano un'altra femme d'argeant tra le sequenze di un road movie.
Molti non apprezzano questa revisione di sound ed è dura da definire una presa di posizione in questo confuso dibattito. Rispetto a "Moon Safari", quella di "10 000 Legend Hz" è quasi un'altra storia da raccontare, conclusasi presto, dal momento che gli Air all'uscita successiva - "Talkie Walkie" (2004) - hanno preferito accontentare i gusti e le aspettative della maggioranza dei fan.
Per non perdere le fila del nostro discorso, rinviamo la discussione a un'eventuale puntata più adatta, invitando gli adoratori degli Air a riporre accuratamente al proprio posto "Moon Safari", una volta messisi in ascolto di "10000 Hz Legend", e a dimenticare nostalgie da safari lunare, ridimensionandosi in un altro suono con altre priorità, altri intenti, seppur non distanti dalla luna, in quanto sempre dislocati nello spazio. E se quella nostalgia dovesse persistere, tanto vale cambiare disco e passare al più fidato, voglioso e più volte menzionato "Moon Safari".

Tanti piccoli fotogrammi che, se congiunti fra di loro, mostrano che proprio tra i francesi, dotati di un'apertura culturale che si ripiega su di sé come la stessa intonazione francofona, capaci addirittura di far passare anche la più bassa volgarità come bon ton, in una città capitale grigia e bigotta che deve svecchiare almeno di due secoli per potersi definire all'ultimo grido, uno spiraglio di luce si è introdotto e ha dato come riflessi eccezioni opposte a questo decorso verso il monotono vuoto. Per merito di eccezioni in carne e ossa e illuminate di ispirazione rara in quelle zone (Laurent Garnier e tutta la sua stirpe), la Francia, dopo essere rimasta musicalmente spenta per trent'anni, a fine millennio in un'aurora quasi tutta parigina si è risvegliata e ha imbevuto di sé in generale la musica di fine anni 90, offrendo novità dance che hanno fatto tendenza.
Tutti i frangenti, in cui si è sviluppata la nuova moda dance francese espongono sotto gli occhi dell'intero pianeta una qualità magica comune, soprannominata french touch. Il segreto della pozione sta dietro a una lavorazione dell'elettronica eseguita nella maniera più personale possibile, ricucendoci dentro anche altri distinti generi musicali, quelli più improbabili, superati, e infine dietro a un confezionamento dell'insieme in un pacchetto luccicante e attraente con tanto di firma per un mercato pop e non elitario.

Ogni inconfondibile firma allegata a un disco esprime spesso uno stile, lancia una moda che attraverso i suoi seguaci fa girare il disco nel mondo. In questo risveglio dance francese esiste quel tratto più morbido del french touch capace di far provare dolore e piacere allo stesso tempo, sfiorando i punti più sensibili della sfera percettiva umana. Questo tratto è stato notevolmente scolpito dagli artisti che per lo più reinterpretano l'easy listening, ad incominciare da Air, Dimitri From Paris, ai quali viene spesso aggiunto in coda Kid Loco.
Kid Loco, alias di Jean-Yves Prieur, giunge alle sonorità elettroniche dopo aver militato da giovanissimo in gruppi punk e lavorato a realizzazione hip-hop e reggae nella band Mega Reefer Scratch. Forse l'artista che ha cercato di più tra quelli di Parigi di mantenersi indipendente, con "A Grand Love Story" (1997) rilascia un vero e proprio manuale sull'arte della seduzione e del corteggiamento, rifasciato in un assortimento di sottofondi sexy e stuzzicanti come la voce di Katrina Mitchell dei Pastel nella stessa "Love Me Sweet". Scene estive, paesaggi mediterranei ("Relaxin' With Cherry") vengono pigiati in una pellicola cinematografica sonora grazie a un'energia ambient calda, stemperata da un tocco spirituale che serpeggia entro i limiti terrestri. "A Grand Story of Love" si dirige infatti verso il cuore dei desideri terreni: nelle mille fragranze oniriche sussurra fantasie ("She Wolf Day Dreaming") e dediche romantiche ("She Is My Lover"). Ma quello che più in un'occasione stupisce di Kid Loco è la sua bravura nell'accorpare canzoni pop spigliate con quell'andamento da trip-hop bluesato che fa risultare "A Grand Love story" un pregevole e attuale disco chill-out, carico di particolarità senza essere mai ripetitivo.

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Ed ecco che nel 1998 il trip-hop svolta di nuovo per un'altra via.
"Mezzanine" dei Massive Attack riesce, a differenza dei suoi precessori, a essere pienamente notturno, senza alcuna ombra originaria di reggae. Il dub permane, ma si fa bramoso di sensazioni uggiose e umore cupo e attinge dagli anfratti oscuri della darkwave. La base elettronica, ora perfettamente non ballabile, si assottiglia fino a divenire una semplice forma d'accompagnamento degli strumenti tradizionali del rock: basso, batteria e chitarra (volutamente dissonante nell'autentica maniera del dark-rock più pregiato degli anni 80) che si fanno sentire in questa dimensione sospesa nel buio notturno. Tra le parti strumentali si inseriscono i beat, più dilatati del solito, per marcare a tratti la tensione metropolitana che si rintana nei tempi moderni, a tratti l'incanto da sogno recuperabile in un sentiero sensuale di voci brillanti: quella di Andy Horace in "Angel" e "The Man Next Door", e quella di Elizabeth Fraser in "Teardrop" e in "Black Milk".
Come per magia "Teardrop" arriva a rallentare il filo della tensione del disco e con un'angelica Liz Fraser (tanto ambita da essere messa in ballo) che a fior di labbra sussurra sopra un palpito che emula il cadere delle gocce d'acqua, crea una sorta di sospensione onirica dell'album, che va interpretata sia come momento contemplativo, sia come brano capolavoro di "Mezzanine". In "Teardrop" dub e dream-pop, figlio di quegli anni 80 tanto ricercati dai Massive Attack, si legano alla perfezione, ma non solo. "Teardrop" tira fuori la melodia che renderà popolari i Massive Attack anche presso il grande pubblico, la melodia più orecchiata della band, quella che bene o male tutti possono conoscere anche per vie traverse.

"100th Window" arriva nel 2003 a completare quella scalata verso un suono squisitamente notturno che "Mezzanine" aveva iniziato. In seguito alle uscite di scena di Mushroom e Daddy G, ciascuna ricollegabile a motivi differenti (divergenze artistiche, paternità), Robert 3D è rimasto il solo a personificare il prestigioso logo bristoliano e può ora come ora trasporre per intero in assoluta libertà la sua attitudine musicale, da sempre la più oscura delle tre che hanno significato la storia del gruppo. Quell'attitudine oscura, imprecisata, mesta che è prevalsa nella registrazione di "Mezzanine", trascinandosi fino a qui e che segna nel quarto capitolo la sorte del sound dei Massive Attack. Con "100th Window" scende la notte fonda auspicata in "Mezzanine".
Lontane sono le scansioni timbriche e raggianti del reggae e hip-hop, così come sembra essersi completamente dissipata nel nulla la componente dance. Imperversa, invece, il dub, che continua a essere smaltato della cosiddetta elettronica bianca, della darkwave, e che dentro a una ritmica imbalsamata pare lanciarsi vero l'oscurità in un galoppo (o trotto) impercettibile ("A Prayer For England", "Special Cases"), guidando l'ascoltatore in un tracciato non sempre disinvolto, pensato in ogni sua sfaccettatura e quindi meno accessibile nell'immediato, ma non per questo meno coinvolgente, anzi: le atmosfere impresse sono le più profonde raggiunte dai Massive Attack. D'altronde, come sta a indicare il titolo,"100th Window" si immerge in quel mondo sconosciuto e incontaminato che è il nostro inconscio e lo rappresenta, caricando canzoni lunghe e lente, tutte con tanto di preziose interpretazioni (lo stesso 3D in "Future Proof", Horace Andy in "Everywhen", Sinead O'Connor in "What Your Soul Sings"), di pennellate psichedeliche stese dalla mano di Robert 3D nel suo microcosmo oscuro ("Butterfly Caught"), oppure interponendo alla regolare trama ritmica e melodica improvvisi cambi di registro sonoro, quasi sempre preparati in un climax crescente ("Name Taken").

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A raccogliere l'esperienza del trip-hop più sensazionale dei 90, a rinfrescarla un po' e ad amalgamarla in "Felt Mountain" compaiono alle soglie del nuovo millennio i Goldfrapp, altro duo eclettico di Bristol costituito da Will Gregory, compositore di colonne sonore, e Alison Goldfrapp, che come cantante di provini ne ha già superati tanti, vista la sua partecipazione in "Snivilisation" ('94) di Orbital e in "Maxiquaye" di Tricky.
I Goldfrapp rielaborano ciò che di più prezioso ha offerto finora l'arte bristoliana: lo stile cinematografico dei Portishead e di conseguenza quella propensione per le musiche di Ennio Morricone e John Barry e le tonalità noir, l'utilizzo delle ambientazioni oniriche anticamente elucubrate dai Cocteau Twins, l'algida inflessione vocale di Bjork, e le riallacciano alla classica fiabesca tedesca (Wagner, Strauss e Bach).
Il sunto spazia dal trip-hop nel senso più classico a un "neo-dream-pop" che poggia sull'"elettronica d'ambientazione", facendo ricorso alla strumentazione classica per creare un effetto ambient fatato, da qui quindi l'accostamento di pianoforte e violini ai loop elettronici. E poi la voce di Alison Goldfrapp che cambia à-la Bjork, ma che ammalia à-la Nancy Sinatra e che un po' come per capriccio vuole a tutti costi catturare chi l'ascolta e condurlo lontano per i selciati di un folto bosco surreale, in cui prendono vita "Lovely Head", "Human", "Utopia" e tutte le altre canzoni di "Felt Mountain". Alison stessa, sfruttando le foto presenti nel libretto del cd, si immedesima in una piccola ninfa misteriosa che si nasconde insieme ad altre creature ignote nella foresta e che è dotata della virtù di sapere incantare i visitatori attraverso il suo canto tenue, inebriante, sfuggente.
"Felt Mountain" si conferma come un altro gioiello "made in Bristol" che ha saputo apportare novità al sound nostrano, proprio quando questo pareva essere giunto al tramonto della sua evoluzione. Dopo un debutto così brillante, sia la critica sia i fan appena conquistati vengono delusi dalle successive pubblicazioni dei Goldfrapp ("Black Cherry", '03, in parte riscattabile per tracce come "Deep Honey" e "Hairy Trees", che spirano ancora le fibre della bellezza irraggiungibile contemplata in principio; "Supernature",'05) che piombano nell'electro-pop/ electro-clash più commerciale, lasciandosi alle spalle una fastosa sperimentazione artistica.

Nel 2008 con "Seventh Tree" i Goldfrapp tornano a sorpresa sui loro passi iniziali. Senza nascondere la parentesi electro, "Seventh Tree" rimanda vagamente a "Felt Mountain" che rimane comunque ineguagliabile in termini di suggestione. I Goldfrapp spolverano il dream-pop accantonato dopo la conversione alle sonorità electro-pop e Alison, che nel frattempo ha smesso di indossare i panni della femme fatale tutta glitter e glamour di "Black Cherry" e "Supernature", torna soave a cantare in mezzo al brusio della natura e a evocare atmosfere idilliache e delicate, stavolta, pare, in fattezze umane. Il suo canto infatti inebria l'aria, libero e stupendo come ai tempi stimati, ma in lei non c'è più quell'austerità romantica che la faceva divina tra le alture alberate delle montagne: appare invece briosa e sorridente, con il visino da ragazza della porta accanto, e sembra amichevolmente suggerire le migliori ricette per la felicità, scorazzante su un prato fiorito tra una canzone che si potrebbe chiamare per l'appunto "Happiness" e un'altra ancor più sbarazzina dal titolo "Caravan Girl". Qualche espediente electro rimane e viene spruzzato qua e là, sciroppato con motivi folk ("Clowns", "Eat Yourself") e sixties ("Little Bird") in un minuscolo eden ritrovato.
Un ritorno sicuramente confortante per gli appassionati dei primissimi Goldfrapp, ma che ha dell'artificiale nel voler resuscitare un dream-pop che non è più quello di una volta, essendo "più pop che dream" e del paradossale, se si osservano i lati più faciloni del disco, come qualche tentennamento non esplicito per il refrain molto radiofonico, e che quindi manca dello spirito e della limpidezza che ha saputo regalare "Felt Mountain".

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Nel frattempo, si affacciano all'orizzonte promettenti realtà in bilico tra nostalgia e slancio nel futuro. E' il caso degli Stateless, che con l'album omonimo hanno posto le basi per una rifondazione del trip-hop tra paesaggi sonori rigogliosi.
Ma il 2008 è l’anno anche di un altro magistrale ritorno, un ritorno identificabile sempre con un marchio impresso su una copertina acquamarina e sempre più asciutta, P., e la P. puntualmente, anche se con un’attesa di 11 anni dal secondo e omonimo album, sta per Portishead. Il terzo manufatto dei Portishead in modo evasivo si intitola “Third” e già dal titolo leggiamo quella volontà nota dei Portishead di tralasciare, là dove si chiedono commenti o definizioni.
In contrapposizione agli usi e costumi dell’attuale mondo discografico, i Portishead ci riprovano: cercano di estrarre un sound nuovo, distinto, ben diluito, che scivola via alla comprensione di chi lo ascolta alla prima e si rinfila nei sotterranei intellettuali di una produzione a lungo meditata. Si scende verso un minimalismo acustico che fa risultare costantemente sorde le battute downbeat con cui erano partiti i Portishead - privi di quella magia da pop onirico e distesi su sfondi cupi e disperati - e che predilige elettronica, chitarra a fasi stridente, a fasi dolci e folkeggiante insieme a percussioni pressanti rispetto all’ardore da “hip-hop bristoliano” e che per questo evita tutti i suoi artifici: scratch, sample, pause prolungate.
L’animo folk che è scandito dalla chitarra acustica di Utley e sembra essere un lascito di “Out Of Season”, solo album di Beth Gibbons registrato con Paul Webb (ex-chitarrista dei Talk Talk), fuoriesce inconfondibile in “Deep Water”, oppure talvolta è spuntato da rintocchi elettronici in “Hunter” e “Nylon Smile”. La voce livida e tirata al limite delle sue corde di Beth scava ulteriormente una malinconia straziante che ricalca come un’ombra su un muro la figura umana indifesa in continua lotta con l’oppressione.
Così, come all’ultimo è avvenuto per i Massive Attack, i Portishead sembrano essersi spostati verso uno scenario darkwave, più crudo, screziato di chiazze gelide di elettronica nordica (“Threads”, "Small”) che nelle punte estreme pizzica ampiamente dalla techno à-la Kraftwerk (“We Carry On”), assumendo pure per l’occasione forti tendenze industrial (“Machine Gun”). Rimane comunque in alcuni brani la sensazione di ascoltare musica da viaggio alla comparsa dell’alternanza di vuoti e pieni (“Plastic” e “Magic Doors”), oppure di quelle distese elettroniche (“The Rip”) che, pur attenuandosi in un tono teutonico, confermano che si tratta pur sempre di trip-hop, solo arricchito con doverosi aggiornamenti.

Per finire il giro del 2008 si giunge a un’altra inevitabile celebrità di Bristol, Tricky, che con “Knowle West Boy” annuncia non solo il suo ennesimo ritorno sulle scene, bensì anche quello nelle zone in cui è cresciuto e che, come potremmo concludere noi, hanno inciso sulla sua formazione musicale. Un disco, quindi, pensato come una riproposizione delle sonorità di “Maxinquaye”, e molti così lo desiderano vedere, se non fosse che ad ogni uscita di Tricky si ci aspetti sempre il ritorno a “Maxinquaye”.
Con “Knowle West Boy” tra le mani, andando a ripescare il trip-hop universalmente inteso, quello degli inizi, ne escono salve giusto due canzoni: “Joseph” e "Past Mistake", non a caso le più affascinanti, capaci di catturare in un attimo il nostro immaginario e farci risognare spezzoni del passato bristoliano. Gli altri brani sopraggiungono come tutt’altro: sovrapposizione tra reggae e dub (“Bacative”), rap viscerale (“Coalition”), rock latino santaniano ("C’mon Baby"), electrofunk
(“Council Estate”), brit-pop metropolitano (“Far Away”), in cui a fare da punta di diamante compare spesso la prestazione vocale osé di Veronika (Veronica Coassolo), ennesima eletta di Tricky, la seconda scelta in Italia.
Ad essi, però, sono applicati gli stessi accorgimenti su cui si basa l’intera discografia di Tricky: ammortizzare il carattere congenito di diversi generi musicali per friggerli insieme con l’aggiunta di un pathos incandescente come ingrediente amalgamante. E si tratta spesso e volentieri - la prima serie di album lo dimostra - di sofferenza calda, arrabbiata che brucia sul filo delle note. Non mancano la razionalità e la cura con cui materiali dissimili vengono selezionati e tessuti fra di loro. Metodo che si è rivelato nel tempo l’asso nella manica di Tricky, trainando verso l’alto la sua musica, ma anche un mezzo tendenzioso, ruffiano, con cui ha cercato di accattivarsi le simpatie un po’ di tutti.
Paladino della contaminazione etnomusicale, uno dei primi promotori della fusione di rock, elettronica e hip-hop (che ha fatto d’esempio agli ex-compagni, almeno così si dice alludendo a “Mezzanine" come reazione a “Maxinquaye”), grande trovata che si adatta alle esigenze di Mtv e fac-simile, Tricky ha osato di tutto: scavando sensazioni blues in un dub progressivamente più oscuro e disturbato con ”Pre-Millenium Tension”, "Angels With Dirty Faces”; per poi trasferire il Bristol sound a New York, camuffandolo nella forma e nei colori dell’hip-hop americano in “Juxpose”; slittando piatto e creativo nel mainstream a fianco star mediatiche (da Anthony Kiedis e John Frusciante a Flea dei Red Hot Chili Peppers, da Cyndi Lauper ad Alanis Morissette e Ed Kowalczyk) in “Blowback”; tornando infine solare verso superficie, fiancheggiato da una nuova musa, l’italiana Costanza Francavilla, capace di dare voce soffusa a qualche venatura ombrosa serbata da Tricky; si è lasciato nel tempo sfuggire la battuta lenta, incalzando ritmi più sonori, vivi in spartiti più sicuri, meno aggressivi e dark, ma anche meno avvincenti.
"Knowle West Boy" sembra uscire nel 2008 non tanto per raggiungere "Maxinquaye", bensì per compendiare più di dieci anni di attività musicale, per così dire variopinta, che affonda le sue radici proprio nel terreno di Bristol. Dentro, Tricky ha inserito tutto quello che poteva raccontare della sua musica: ogni pezzo immortala una tappa, uno stile con difetti e pregi annessi. Alla ricomparsa nel 2008 del trip-hop se “Knowle West Boy” è da intendere come epocale, lo è non tanto in quanto ritorno al passato, bensì come celebrazione di un genere musicale che ha segnato una generazione, influenzato la cultura musicale e che nel tempo si è dissolto proprio in quest'ultima. E lo stesso potrebbe valere per “Third” dei Portishead...

Dall’onda inoltrata che calma le acque in tensione, alla tempesta nordica di contrasti in accordo che sbatte contro le sfumature di una più leggera fruibilità. Nella sua progressione l’ipnosi bristoliana fatta suono è ormai qualcosa che s’aggira nell’aria e che in qualsiasi momento potrebbe venirti a trovare. Ma, soprattutto, è un denso cenno emotivo contenuto in un battito lento che continua a suonare a distanza di un’origine lontana, perché, per chi non se ne fosse ancora accorto, quella bristoliana è già divenuta leggenda.


Fonte: Ondarock

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Definizione e inquadramento storico, sociale e stilistico del termine "grunge"

Il "grunge" è una manifestazione culturale specifica del genere musicale rock propria della seconda metà degli anni 80 e della prima metà dei 90. Dallo stato di Washington, che è come dire da Seattle (che mai aveva avuto tanta celebrità), la "moda" si irradiò in tutto il mondo. La specie di musica rock in questione viene a codificarsi come l'ancoraggio alla forma-canzone tradizionale di cui vengono solo modificate le regole e i toni in funzione sistematicamente ribelle, depressa, pessimista e violenta (ma soprattutto in quanto nichilista e autodistruttiva: trasandata, sgangherata, decadente, in sfacelo) con una potenza però sempre a braccetto a quieti e cadute in lieve: un brano rock standard anni 70 (verso-ritornello-verso-ritornello-assolo) viene adesso eseguito con quella che passerà alla storia come la formula rumore+ritornello+rumore.

Gli abiti della moda-grunge, consistenti in jeans strappati (ripresi dai gruppi heavy-metal californiani di inizio 80 che a loro volta li avevano ripresi dai newyorkesi Ramones) e camicia da lavoro aperta con sotto una maglietta logora, sono lo specchio del senso esistenziale del grunge, che nelle sue forme più estreme constata la svalutazione di tutti i valori con la conseguente apatia, indifferenza più o meno irriverente, angoscia di una vita per cause di forza maggiore autolesionisticamente vissuta. Come uno dei voti di fede dei frati è la "povertà" per un sostanziale disprezzo del mondo davanti al Superiore, così su un infantile e naif disprezzo del mondo si imbastisce lo stato grunge che nega ogni manifestazione di sfarzo in quanto da una parte sciocca illusione del credere eterno ciò che è transeunte e dall'altra tradimento delle origini dalle povere, squallide e sotterranee giungle periferiche cittadine.
Come ogni fenomeno, è opportuno circoscrivere il grunge non solo temporalmente ma anche spazialmente: il punk vuole Londra e la fine dei 70; l'hardcore, come il rock n'roll, vuole l'America, e in particolare la sua striscia più occidentale (California). La condizione sine qua non, propriamente e proficuamente, non può darsi e non si è dato grunge è Seattle e gli anni 1988-1991. C'è poco da ridere, ma che la pizza è di Napoli è una verità più profonda di quanto si pensi.
Tecnicamente il grunge fu la naturale prosecuzione e banalizzazione dello sperimentale hardcore e post-punk californiano di inizio anni 80 (Adolescents, Mission of Burma, Flipper, X, Legal Weapon, Bad Religion, Dead Kennedys) al quale apportò elevate dosi di semplificazioni avvicinando le sue parti più metal all'hard-rock e quelle più orecchiabili al pop e restituendo il tutto in una miscela fondamentalmente punk, riproposta col piglio di chi non conosce né vuole rivoluzioni ma, rassegnato e senza speranza o aspettativa alcuna, resiste finché il dovere della sopravvivenza allenterà la sua morsa obbligante.
La cosa più importante è che il grunge fu la musica dell'"urlo". Quell'urlo di diretta derivazione garage-rock, quell'urlo di Detroit, di Iggy Stooge. Espediente musicale per trent'anni imbrigliato e lasciato alla sporadicità, viene in questo movimento a raggiungere il suo apice in termini di radicalità e ricorrenza. Diventa un qualcosa d'obbligo: e dev'essere sofferto, primitivo, incontrollato, stonato e totale. Esso è il simbolo del grunge-medio e dell'essenza del grunge che quindi arriva all'essenza del rock: il grunge-medio è un pulcino-felino, gracile e velenoso più che per autodifesa per tutelarsi dal fatto che a distruggersi vuole essere solo lui e a suo modo: nessuna interferenza (da qui la ribellione) salvo quelle naturali-sociale e inevitabili cromosomicamente congenite all'individuo: quelle per le quali appunto l'unica "onestà" in termini di reazione di fronte all'esperienza vita è l'autodistruggersi.
Il grunge fu poi il movimento per eccellenza della "pulsione suicida" vissuta come un'ineluttabile certezza nonché unica fonte di nobiltà e preziosità. Pulsione e riflessione a esso derivanti essenzialmente dalle speculazioni a vario titolo fatte (dal dark alla new wave all'heavy metal) ma comunque sempre ossessivamente e programmaticamente come non mai durante tutti gli anni 80. Dall'autodistruzione, l'apatia, lo sdegno, lo schifo per tutto: screziati qua è la dal ricordo fantasioso di momenti trascendenti e pregni d'America.
Il grunge fu l'unico movimento a concepire programmaticamente la distruzione degli strumenti sul palco che così, dopo oltre 30 anni di tale pratica, acquistò un nuovo, apocalittico, significato. Dalla distruzione di se stessi (simbolo: vestiti trasandati: eccola la derivazione punk) a quella del mondo a cui non si partecipa né che si auspica, bensì si vede come inevitabile.
Ovviamente tali concetti, conclusioni ed espedienti erano (e molto più estremamente) stati raggiunti oltre che dal punk dei Sex Pistols, dall'hardcore tutto, del quale il grunge si è sempre sentito un figlio minore (sia perché è anch'esso un fenomeno squisitamente americano, sia perché i nuovi grunge erano cresciuti con l'ascolto di Black Flag e compagnia): acquistano tuttavia un monito sinistro in quanto vengono efficacemente e originalmente ribaditi proprio nel momento finale dell'atto rock che quindi, nel suo estremo saluto, non si smentisce per nulla.
Se è vero che il grunge usò "il vecchio trucco di prendere una novità del rock (il noise-hardcore) e contaminarla con il pop per riuscire così a vendere quella novità alla massa dei consumatori casuali" (cit. Scaruffi decontestualizzata), nella genesi della storia del rock il grunge fu importante soprattutto perché dopo oltre un quinquennio di sistematica decostruzione della forma-canzone (pur con altre cause ed effetti sotto quest'aspetto similare a ciò che era successo tra la fine degli anni 60 e l'inizio dei 70) fondamentalmente tramite l' "effetto-noise" si tornò (anche, perché l'"alternativo" continuerà fino agli anni '90 inoltrati) con altrettanta sistematicità a comporre canzoni con un'economia conchiusa e coerente che, nonostante la deformazione espressionistica a forza di rumori taglienti e sgradevoli, urla rauche, cadenze metalliche, poteva dirsi "vecchio stile": quasi (negli effetti e nelle cause: i sociali nei quali si è immersi) cantautorale-country cioè, del tipo chitarra-voce-messaggio.
Anche la durata dei brani è solitamente radiofonica: 3-4 minuti. Non più, o molto meno, la "metafisica" formale e contenutistica dei capolavori di inizio decade (Swans, Sonic Youth), ovvero quando v'è non più una metafisica "matura", "grande", "difficile", ma immediata in tanto in quanto basata sulle piccole grandi sensazioni/sentimenti dell'adolescente americano, più o meno in sentore di esclusione sociale o difficoltà nell'inserimento nella medesima. Gli amori difficili, i complessi di personalità, la cattiveria altrui, il comunque inoppugnabile spirito di sopravvivenza: in un concorrere ingenuo quanto infantilmente smaliziato verso la sintesi dell'"attimo di vita" storicamente-biograficamente-geograficamente (e tanto più toccantemente in quanto "bizzoso", in quanto "nonostante": è questo il suo "contro") e non eternamente-universalmente (speculativamente) concluso. Eccola l'essenza e la "spensieratezza" (mancanza di contemplazione dell'assoluto) del grunge.
Tornando alla storia del rock: questa ha permesso, e proprio nel momento della sua definitiva dipartita, a un "bambino" di prendere tutti i suoi migliori e con fatica elaborati arredi e di spaccarli, di giocarci, di piangerci sopra. Più "rock" di così non poteva essere. Niente marce funebri, per le proprie esequie, ha voluto il rock, ma "grunge", quello con "l'odore di spirito adolescenziale". Neanche alla fine il rock si è smentito; vilipendendo per di più la massa pop(olare) che si è illusa di protrarne la vita a suo piacimento (vedi il post-'91).
Il grunge non fu una rivoluzione né culturale né musicale in quanto non ebbe caratteri né improvvisi né attivi, come il punk invece sì. Cambiare le cose è la negazione stessa del grunge: sinonimo di apatia, fatalismo, depressione, nichilismo, così introitato da fungere come aria quotidiana sopportabile con nonchalance; nonchalance come quella riservata alle numerose morti per overdose da eroina, di cui vi fu un grande e ultimo, estremo, sistematico revival negli anni-grunge, anni in cui la nicotina delle sigarette (a proposito della nonchalance) doveva spirare sopra a ogni cadavere così mietuto: e non per disprezzo del singolo quanto della morte (conseguenza di quello della vita) in quanto tale. La distinzione tra essere e non-essere deve dirsi freddamente e razionalmente abbattuta. Questi i motivi a cui vanno aggiunti quelli di peculiarità musicale di cui sopra, a posteriori programmatici e limpidamente distinguibili collocandoli nel loro svolgersi storico, per i quali è possibile ed è doveroso parlare del grunge come movimento concreto ed autonomo.
Inoltre, il grunge è stato l'artefice del sound, e qui mi riferisco alle sue manifestazioni pop su larga scala, anni 90: come la new wave lo fu di quello (popolare) anni 80. Tanto notturno il secondo quanto solare il primo che in ogni caso, indipendentemente dalla singola ambientazione, concepisce o ricorda l'alternanza giorno-notte. Il sound anni 90 è un sound chiaro, deciso; e lo è non solo per le migliorie (pur notevoli) tecniche in fase di registrazione. Lo è (anche quello più soft e acustico, sì) per via dell'heavy metal, che ha avuto nei confronti del suono, la funzione di una lezione di canto per le corde vocali o una corsa per i polmoni: estese e allargati questi, raggiunto il tetto massimo, è possibile con tanto più disinvoltura ed efficacia scandire tutte le variazioni più tenui. Ebbene, dato il diaframma tra il mondo metal e quello pop, il grunge è stato in tutti i sensi il filtro tra i due: e se negli anni 90 è stato possibile ascoltare canzoncine (ma anche sferragliate heavy prima inimmaginabili) con una resa fonica ed esecutiva insperata, fresca e moderna, si deve a tutto questo.
Se nella versione soft dal grunge derivano volenti o nolenti personaggi come Alanis Morisette, i Cranberries (che pure hanno prodotto un inno come "Zombie") o i No Doubt (che pure hanno dato il fantastagoricamente estraniante "Tragic Kingdom" nel 1995) ma anche il cantautorato chiaro-noise di Jeff Buckley, PJ Harvey e (addirittura) Lisa Germano; in quella hard, oltre che Korn e Deftones particolarmente, tutto il ridicolo nu-metal attuale (da quest'ultimi immediatamente ispirato) che ha interpretato il commerciabile piano/forte del grunge anziché con la conciliazione di melodie classic-rock e distorsioni hardcore o metal, con la conciliazione (peraltro già ampiamente vista) del metal più heavy (pur depotenziato rispetto al death) con il rap o la disco; agevolato in tutto ciò soprattutto, se non solo, dai grandi sviluppi delle tecniche di registrazione e amplificazione.
Tutti ad inizio degli anni 90 suonavano più forte e duro: come a fine 70 (volete una prova? I Litfiba sono il gruppo, almeno italiano, in assoluto più camaleontico nel rispecchiare le mode in voga nel momento, quasi scientificamente sociologo in questo: bene, prendetevi i suoi album di quel periodo.); e anche coloro che facevano soft o rimanevano impantanati nel suono new wave 80 o prendevano le loro strumentazioni adattandole alla chiarezza immediata efficace e pura derivante (paradossalmente solo a prima vista) dal bagaglio tecnico dell'heavy-metal suddetto.
Chi vorrà fare rock-classic anni 70 (Creedence Clearwater Revival) non potrà che farlo rileggendolo col filtro del grunge-sound più o meno melodico: una miriade di "only-one-song band" da merenda pomeridiana in controsole ne derivarono: 4 Non Blondes, Joan Osborne, alcuni insignificanti nomi, buoni però per i rispettivi hit "What's up" (1993) e "One of Us" (1995).
Anche il new-punk di inizio 90 sarà richiesto dopo che le orecchie giovanili si erano riabituate a mezzo grunge a certe sonorità: da qui Offspring, Rancid, NOFX, Green Day.
Infine, pure ripescando nel glam o nel garage dei 70 si dovrà farlo col senno del grunge: a vario titolo: Marilyn Manson, Placebo, Ash, Feeder, Muse.
Tutto il brit-pop, la spoliazione da un grunge melodico del rumore e la rimanenza esclusiva di una insincera e spesso brutta melodia: Blur ("Song Two"), Radiohead ("1° album"), ma anche Oasis, Verve, e gli ultimi arrivati: retaggi grunge (soprattutto dal punto di vista fonico, ma anche per una certa cultura jeans-strappato) usati per quello che sono stati usati.
Questa massa contemporanea di arricchiti, negli ultimi dieci anni ha dimostrato solo una cosa: morto il grunge, morto il rock, o si fa post-rock (i supremi Fugazi, Jesus Lizard, Jon Spencer, Morphine, Lisa Germano), o è molto meglio e molto più onesto non usare, offendendoli, chitarre, bassi e batterie.
Il grunge, come ogni moda, riportò in auge tutti i più o meno dimenticati (indipendentemente dal loro quasi sempre altissimo valore) e ora rivendicanti la rispettiva importanza per il movimento: da Neil Young a Iggy Pop, dagli Stooges ai Velvet Underground, senza contare la miriade di gruppi alternativi (Pixies, Husker Du, gli stessi Sonic Youth: parte di quello che le loro tasche hanno incassato è dovuto anche alla vendibilità di Nirvana e compagnia). Non solo: gruppi più o meno storici hanno temporaneamente raddrizzato la loro rotta verso il grunge-sound: a loro modo vi si sono impegnati dai REM ai Faith No More ai Red Hot Chili Peppers. È tragicomico constatare tali dinamiche.
Il grunge da solo (e in modo numericamente più consistente di quanto avevano fatto Stooges e MC5 per Detroit), in una manciata di anni, fu in grado di creare in Seattle (città tra l'altro in quel periodo economicamente e socialmente in crescita: oggi considerata la più prospera e vivibile d'America) un polo alternativo alle due racchette da ping-pong Los Angeles e New York.
Una domanda: com'è che la società così auto-protettiva e auto-conservatrice ha avuto così in larga scala bisogno di un suono e atteggiamento autodistruttivo, suicida, in sfacelo, violento? Risposta: vedi il punk nel 1977 (i bisogni fisiologici si ripetono, essendo impellenti: specie quelli di riciclo e di capro espiatorio).
Una ingenuità infantile, ma forse fisiologica, del grunge fu quella di voler presentare al mondo Seattle come una grande e solidale comunità di artisti tutti intenti a esplicare le loro (per altro sterili) filosofie esistenziali (di contro a una poetica invece, quando individuale, molto toccante). Dire di tutte le collaborazioni tra i vari gruppi e i vari musicisti di Seattle è impossibile (non vi è un solo gruppo o un solo musicista che non abbia interpellato o non sia stato interpellato artisticamente da altri). Immaginate comunque (e l'immagine non è gratuita, anche per un più o meno velato significato letterale) un gruppo di 10 persone, variamente legate da rapporti di parentela, che si accoppiano l'un altro senza remore o ripensamenti eccessivi, che fanno tutto insieme, e che confinano il mondo in Seattle: da un punto di vista della (ri)produzione (e qui si torna alla metafora, intendendo questa produzione per "artistica") la consanguineità darà sì ai figli (album, canzoni) una notevole "fratellanza", ma indebolirà anche i loro fisici (ripetitività, banalità). In ogni caso, la cosa ha funzionato almeno per un quinquennio, tra la fine degli 80 e l'inizio dei 90.
Negli effetti, il grunge si risolse come primo esempio di punk americano e come l'hardcore prima e l'heavy metal poi fu risucchiato dal "grande-sistema-americano" che se ne servì come sottofondo o sottocultura à la page per dar sfogo a mezzo di un'evasione controllata e inoffensiva alle pulsioni primitivamente indipendentiste dei propri figli adolescenti. Se il rock fu la musica dei giovani, la sua versione grunge fu la musica dei giovani-adolescenti per eccellenza e come nessun altra: tale componente, mai sottolineata, va scritta a caratteri cubitali ogniqualvolta si voglia trattare tale manifestazione.
Inoltre, storicamente il grunge coincise con la crisi dell'heavy-metal inteso come speed e thrash che tra il 1988 e il 1992 almeno conobbe una flessione e di popolarità e di idee inarrestabile. Gli album metal di quel periodo di valore non sono album metal nel senso specificato, ma grunge, death o epic. Quando il metal popolarmente e propositivamente risorgerà, il grunge starà per inerzia esaurendosi: quando il metal risorgerà non sarà però né speed né thrash bensì progressive-fantasy, o comunque non più esistenzialista, ma dedito all'uso di doom, death e dark per elucubrare mondi paranormali. Infine, quando ritornerà il metal esistenzialista con Korn e Deftones (dai quali il nu-metal) sarà essenzialmente un derivato del grunge.
Causa la sua diffusione nelle camerette dei minorenni, causa che denota la sua immediatezza di messaggio e di comprensione, necessaria a certi livelli per una qualsiasi fruizione, il movimento fu usato dall'opinione pubblica nel modo più spietato possibile. Innanzitutto, fu fatto "movimento" quando non lo era, quindi voluto come "rivoluzionario", infine gettato nel cestino allorché venne a noia come musica alternativa alla dance da discoteca. Heavy metal e hardcore poterono tirarsi fuori da tale ignominia grazie a un'utenza, almeno per il nucleo fondante, d'elite e non-commerciale. Anti-pop(olare) appunto: ma un antipopolare vero e indigeribile al popolare; non come quello grunge che, per quanto sincero fosse nelle sue dinamiche alternative e di fronda, ebbe la fortuna/sfortuna di poter essere reso canticchiabile e quindi fagocitato da una società/popolo che consente all'anti-pop la parola soltanto quando questa (di critica) viene preventivamente autorizzata e assimilata dal pop stesso. Vige la suprema regola per cui non ci sia peggior sordo di chi non voglia sentire.
Come "chi sta bene" fa la beneficenza e fa in modo che vi sia sempre qualcuno cui farla per potersi vedere oggettivato o autorizzato quel suo stare bene e in definitiva stare meglio, così gli i primi straccioni grunge provenienti da situazioni familiari e sociali disastrose e irreparabili (ma non era questo altro che il retroterra di tutto il cosiddetto "rock alternativo" americano: in verità il rock tout court, dal noise al metal, cioè quello propositivo, innovativo, vitale pur e proprio perché significante morte) vennero per qualche giorno (ripuliti) accolti a tavola delle buone famiglie, furono (mentre mangiavano e venivano rivestiti) costretti a prestare i loro strumenti ai figli di buona famiglia, che poterono così cantare il malessere della porta accanto e cantare tanto più quanto a maggiore distanza vedevano e non di fatto partecipavano.
La prima parte della metafora (i grunge-straccioni) si riferisca alla fine degli anni 80; la seconda (i figli dabbene che giocano a fare il male) ai primi 90.
Per quanto non sia riuscito a evitare l'invito a tavola, il massimo rappresentante del grunge, Kurt Cobain (Aberdeen, WA, 1967), lo rifiutò l'8 aprile del 1994.
Storia del grunge


Soltanto la specie rock heavy-metal può vantare una genesi così lunga e travagliata come quella del grunge. Per andare a trovare i primi esempi sistematici di piano-forte-piano, rumore-melodia-rumore, con ampio uso dell'urlo gracile e (proprio per questo e tanto più lancinantemente in quanto viene usato in tutta la sua puerile estensione) estremo allo stesso tempo, dell'uso di espedienti garage (e hard-rock) a ritmiche punk e tempi metal (ovvero di garage-punk metallicamente sostenuto), bisogna andare al post-punk/hardcore di inizio anni 80 e a specifiche canzoni che, come colpi di genio, illuminarono alcuni album del periodo. Estrema alienazione adolescenziale, sconforto urlato, brusco piano-forte, si trova in quella che virtualmente può essere considerata la prima canzone grunge della storia: "Ballad of Jerry Curlan" degli hardcorer losangeliani Angry Samoans (vedi "Back From Samoa", 1982). Al di là del vertiginoso sperimentalismo nonché della perfezione contenutistico-formale perpetuamente gravida di significati stimolanti che ne fa una delle canzoni più preziose della storia, per l'estremo urlo da pulcino-felino all'apicale dell'esistenza e per quel noise-garage post-punk (e già Pixies) va considerata proto-grunge "In the night" degli inglesi Bauhaus (vedi "The Sky's Gone Out", 1982).Sempre in quel fatidico 1982, un altro dei brani più importanti in assoluto della storia rock, tra hardcore e heavy-metal, con una violenza metallicamente devastante mai immaginata prima, andava di diritto a reclamare un posto d'onore tra le miniere d'ispirazione per il grunge più estremo e heavy: la compositivamente suprema e urlatissima come non mai "Riot" degli hardcorer di San Francisco Dead Kennedys (vedi "Plastic Surgery Disaster", 1982), un capolavoro di economia razionale applicata alla esplicitazione delle frustrazioni animali. Caso a sé per la sua importanza nella disamina grunge è costituito non dal concittadino più illustre, Jimi Hendrix, che oltre alla inevitabile influenza chitarristica, in fase compositiva con il suo rhythm and blues non ha offerto nulla a tali posteri, ma da un unico brano di questi: 2'51'' di distorsioni oscure e ferocissime, ubriache e autoflagellanti pur nel loro innalzarsi oltre le cose: ribellione totale forza plastica e attanagliante come mai prima del 1967; il brano è "Purple Haze". Senza voler mettere tutto nel proto-grunge, ma da un lato per dimostrare (come troppe poche volte si è fatto) la lunga strada verso il sound degli anni 90 e dall'altro per esemplificare il suo debito verso il garage-rock più estremo e lancinante, è doveroso citare quello che può considerarsi il massimo esempio del garage-rock tutto: chitarre essenziali quanto commoventi e noise, quanto limpide, voce a bisbigliare come a deprecare tutto, batteria al più tribale Keith Moon: "So cold" dei Rocket From The Tombs di David Thomas (vedi "The Day The Earth Met The", 1975). Infine, il caso Husker Du che da solo, con il suo programmatico rumore+melodia+ urlo, post-adolescenziale, gracile-lancinante, estremo-commovente, basta (facendo parlare di hardcore-pop) a giustificare una influenza diretta: si veda da "Wheels" ("Everything Falls Apart", 1982) a "Pride" o "Broken Home Broken Heart" ("Zen Arcade", 1984), sublimazione del tragico-collegiale-indie con sferragliate noise, il grido fino allo sfibrare (e come nessuno), il ritornello tanto più toccante. Era d'altronde (e in altri estremi) già lezione dei Metallica quella del gioco piano-forte per stimolare l'immaginazione sentimentale degli animi tanto più coinvolti e presi dall'alternarsi dei due toni tanto antitetici quanto così bene esplicanti nella sua interezza fatta proprio di tale compresenza la contraddizione insita al reale.Tra questi anni e il grunge, nel mezzo ci sono due cose. Due culture entrambe americane, entrambe dei diseredati e disperati, ed estreme, nichiliste, nuove, pure d'atteggiamento-reazione diversissime: da una parte (ed è il proprio il caso di dirlo, anche geograficamente, essendo a Los Angeles) l'heavy-metal (Metallica), dall'altra il noise (Sonic Youth, New York). Per segnalare la differenza di decibel ed epos tra queste due correnti, potremmo dire che la prima è l'autodistruzione al "maschile", la seconda al "femminile", dando ai due aggettivi connotati simbolico-primitivi.Vari e irripetibili gruppi (tutti americani) nella loro odissea di maledizione messa musicalmente, come effetto collaterale nel perseguire il proprio orizzonte, prepararono anche quello grunge, sussumendo, prima di questo, la variante metal e quella noise al nichilismo: Social Distortion (che furono, anche culturalmente-socialmente, i più immediati precursori del grunge, oltre i primi a fondere punk e hard-rock), Butthole Surfers, Black Flag, Dinosaur Jr., Frightwig.Doveva essere l'ennesima punta di diamante tra costoro; si rivelò invece il più diretto genitore del grunge: eppure era heavy-metal, e devastante, quello dei Melvins (vedi il capolavoro programmatico e d'avanguardia "Gluey Porch Treatments", 1987). I Melvins si formarono ad Aberdeen (WA) nel 1985 proponendo uno spregiudicato e particolarissimo esempio della recente invenzione dei Metallica: il loro era un heavy che prendeva tanto dalla percussività thrash (Motorhead) quanto dalla distorsione noise (Flipper, Sonic Youth) e dall'oppressione assordante industrial (Swans), sorrette nel loro inquadramento, tribalmente e ossianicamente vissuto, da un fragoroso e mai visto incedere ritmico a ralenty (il doom oscuro dei Black Sabbath) e da un urlato classificabile tra i primi esempi di death-metal. Col senno di poi, i Melvins facevano grind-core (per non dire, ma sarebbe la pura verità, "stoner-rock", loro copiato dai vari Queens Of The Stone Age), che impreziosivano tramite variazioni di tempo vertiginose (merito di un batterista eccezionale: Dale Crover) e distorsioni chitarristiche possentemente acute e ricorsive (vi vendeva l'anima il leader: Buzz Osborne). Ciascuno dei componenti dei Melvins di questo primo album, rivoluzionò l'uso e le potenzialità dello strumento di pertinenza, con un impatto futuro non inferiore a quello che offrirono Rolling Stones e Who. L'atteggiamento e l'humus culturale/sociale proprio del gruppo erano quelli punk-hardcore (Black Flag e Misfits soprattutto). Una modestia irridente e strafottente quando non autoparodistica, alcuni riff gagliardi e beffardi, potevano far ricordare gli hard-rocker per eccellenza, i Kiss (prima loro passione giovanile). Detto questo, va giustificato. È possibile farlo tramite una duplice distinzione. L'insieme più grande è quello dell'underground musicale americano coast-to-coast, quello della musica rock alternativa a cui (per ritorsione con quella programmaticamente "commerciale") va ridotta la musica rock, come impalcatura avente una propria dinamica e sviluppo interni, tout court. Nella prima metà degli anni 80 questa grande famiglia fu essenzialmente unita nell'elite della propria offerta che, se vogliamo toglierle il metal e ridurla all'indie o underground tecnicamente intesi, spaziava dal noise all'hardcore vicendevolmente e per osmosi influenzandosi nonché offrendo così il pretesto per essere messa in un unico calderone "alternative rock". Nella seconda metà degli anni 80, con quello che oggi è chiamato "grunge", vi fu uno scisma (per squilibrio di popolarità) all'interno del retroterra comune underground: alcuni si dedicarono a un underground post-hardcore essenziale (rifacentesi alle vecchie radici rock) e orecchiabile che fece faville tra il pop(olo) e le farà numericamente ancor più a inizio anni 90 (quando sarà propositivamente morto): ecco il "grunge"; altri persistettero nell'ombra a complicare sapientemente e con risultati eccezionali ed estremi come non mai il grande ribollire di idee di inizio 80 (ecco tutta una serie di gruppi hardcore-noise che decreteranno con le loro invenzioni disumane la fine anche del rock d'avanguardia mentre il grunge si occupava di quella del pop: Fugazi, Jesus Lizard, Pussy Galore, Squirrel Bait, Big Black, Rapeman, Laughing Hyenas, Pixies). Infine, e siamo giunti al nostro merito, anche il grunge è adocchiabile in due fronde distinte: una più estrema, più heavy tanto nel metal quanto nel noise, che inserisce l'orecchiabilità classica in un contesto sostanzialmente post-industriale il quale la violenta aspramente tanto maggiormente; un'altra più, molto più, rock-classic, nei migliori dei casi ispirata dal Neil Young elettrico-noise prima che dai Sonic Youth (a sua volta di quello in parte debitori). I Melvins, nel loro "estremamente", patrocinarono la parte industrial-heavy del grunge; per la seconda, per la componente hard-rock-classic è possibile individuare il diretto precedente nei Green River (attivi in WA dal 1983 al 1988: vedi "Come On Down", 1985).Nel 1988 il bassista dei Melvins Matt Lukin, il cantante Mark Arm e la seconda chitarra Steve Turner dei Green River formano a Seattle i Mudhoney, primo gruppo grunge della storia (il termine "grunge", da "grungy": sgangherato, cadente, in sfacelo; fu, come al solito, affibbiato da un giornalista che recensiva le prime prove del gruppo in questione; complemento migliore non poteva essergli rivolto) che sublima incarnandola in tutto e per tutto la definizione delle stile in questione su approntata (vedi il capolavoro "Superfuzz Bigmuff Plus Early Singles", edito nel 1990 ma contenente materiale più che altro del 1988). I Mudhoney provenivano dai bassifondi e conoscevano a fondo la media-borghesia che contestavano più che socialmente esistenzialmente, più bizzosamente che propositivamente, più a parole che a fatti, più per disperazione che serietà o volontà: di sicuro con la grande forza della serietà. Altri saranno i gruppi grunge costruiti a tavolino, soprattutto al di fuori dell'America, qui, per ora (e siamo a fine 80), si assiste a una profusione sorprendente quanto spontanea e naturalmente emergente dopo anni d'incapacità-impossibilità espressiva dati da una parte dalla difficoltà intellettuale del noise, dall'altra dall'inconsistenza di certo pop sintetico, dall'altra ancora dalla troppa consistenza dell'heavy metal, una profusione - si diceva - di una miriade di gruppi di giovanissimi pronti, come non accadeva dai tempi del rock n' roll o del punk/hardcore, a dare tutta la propria anima per tentare di rendere a un pubblico coetaneo il loro sentimento vitale di un attimo. Nonostante tutto, il grunge porta sole, così come nonostante tutto, pianga o rida, un bambino porta sempre sole: e nella sua bocca la parola morte diventa così amica e diafana da perdere ogni connotato pauroso o fisico per perdersi a sua volta nella contemplazione ammirata di giovani vite dedite a passare e passare come ribelli destinati alla compassione solidale e all'unica arte loro possibile: il rock. Questo non altro, nei brani dei Mudhoney, raggianti anche nella tenebra perché appunto "giovani", spregiudicati in una violenza anche nell'acustico ma costitutivamente candida e a cui sembra poter e dover perdonare tutto, nel loro distruggere strumenti, nei loro vestiti strappati e capelli lunghi trascurati (per inciso il boom dei capelli lunghi e dei jeans strappati di inizio anni 90 si deve, indipendentemente dalla lunghezza dei capelli e dal fatto che sopra i jeans vi siano giubbotti di pelle o meno con borchie o meno, all'heavy metal e al grunge, quest'ultimo solo profeta nelle frange pop). Con i Mudhoney fa la comparsa in grande stile l'etichetta indipendente nel bene e nel male madrina del grunge di Seattle, la Sub Pop (già con i Green River); nonché il produttore Jack Endino, alcova del grunge con i suoi Reciprocal Recording Studios di Seattle e intermediario d'obbligo tra band e Sub Pop. Il grunge non era ancora partito con i Mudhoney, che subito dovette rivedere e decidere se ampliare o delimitare la propria definizione e natura. Se infatti i Mudhoney erano dei Sonic Youth per minorenni, i concittadini Soundgarden (vedi il granito di "Badmotorfinger", 1991) si proposero, nel medesimo contesto del grunge nascente, come gli eredi più autorevoli dell'hard-rock classico in un salto temporale che nella sua profondità si rifaceva direttamente agli anni 70 (le chitarre dei Soundgarden sono nero-peso Black Sabbath; le voci quando retoriche, ridondanti e tecniche Led Zeppelin), pur attualizzati tramite la durezza e pienezza metal di inizio 80. In una parola, i Soundgarden saltavano i Sonic Youth e con essi tutto quell'underground "adolescenziale" protagonista del grunge. I Soundgarden non volevano "decostruire" niente (in questo senso sono agli antipodi di tutti quei gruppi sperimentali americani summenzionati e detti "alternativi"): proporre anzi granitiche e autosussistenti canzoni a se bastanti e a se piacenti (salvo poi mezzo per esprimere messaggi nichilistico-sovversivi). I Soundgarden (riff di chitarra, tonalità di voci, tempi di batteria) devono tuttavia essere considerati pienamente grunge: anzi, per un discorso di decibel, possono essere considerati, facendo parte di quel grunge più vicino all'heavy meatal e all'hardrock anziché (quando non in questi incluso) al punk in senso lato, i primi discepoli degli heavy-metal Melvins. I Soundgarden si prendevano sul serio ed erano epici quando non magniloquenti; richiedevano un seguito "adulto" e "vissuto", più "trapassato" (da alcunché) che "sognante" (alcunché); più sopravvissuti che sopravviventi e non in grado di approdare al primo stadio. Erano tecnicamente preparatissimi e di questo compiaciuti. Lavoravano la musica più che viverla in sbarazzino. Reclamavano la storia dei popoli più che le storie individuali da collegiali disadattati. Legati non solo per amicizia ma anche per la dimensione più cantautorale ai Soundgarden, gli Screaming Trees (vedi "Uncle Anesthesia", 1991, prodotto da Chris Cornell: per la serie "la grande famiglia grunge") di Mark Lanegan proponevano in sostanza un power-pop (molto influenzato dal rock classico anni 70 di Young e Springsteen, ma anche da certe retoricità e fisime dylaniane), come un grunge "coi-fermi", fatalmente "depotenziato" e fossilizzato nell'ovattata dimensione prealbare o pomeridiana di confetture country e vezzeggiamenti infantili più o meno trascendenti. È quindi l'ora dei Nirvana. I Nirvana (1987-1994, Aberdeen-Seattle, WA) sono il grunge in tutte le sue forme e quanto detto a proposito di questa musica si deve solo a partire da codificazioni seguite all'interpretazione della musica dei Nirvana. Oggettivamente: presero il feto grunge e lo fecero diffondere in tutto il mondo, facendolo diventare uno dei fenomeni almeno musicalmente più considerevoli di sempre e arricchendo così le tasche non solo proprie ma anche dei loro involontari ispiratori altrimenti sconosciuti, nonché quelle dei tanti imitatori pronti a gettarsi sulla prima moda. I Nirvana erano Kurt Cobain (1967-1994) e questi l'ultimo martire del rock se non quello, data la risonanza della sua figura e i modi della propria vita ma soprattutto il suo posto storico di "ultimo", per eccellenza. Un altro gruppo, anche questo verso i confini americani più nordici e guardanti al Canada, ma dall'altra sponda, rispetto alla Pacifica di Seattle, i Pixies (1986-1992: vedi il capolavoro "Doolittle", 1989) di Boston (MA) stava operando un garage-indie mai sentito prima e per l'unicità e qualità irripetibile e insfruttabile a fini di plagio. Non sfruttabile se non da chi avesse saputo coglierne il messaggio (naif, delicato, inafferrabile, lieve e pur arrembante, dall'accelerazione improvvisa e devastante, estremo sia nel piano che nel forte, sempre iperveloce, da urla candidamente viscerali) e quindi traslitterarlo nel proprio vocabolario. Anche questo fece Cobain, oltre a seguitare nei suoi studi su Melvins, Butthole Surfers, Sonic Youth, Husker Du, Sex Pistols, Neil Young, Stooges, ma anche hard-rock classic (dai Black Sabbath ai Kiss) o il David Bowie più power-pop, prima di giungere al suo capolavoro assoluto. Nel 1989 esce questo e si chiama "Bleach". È possibile dire che non si era mai sentito niente del genere prima: opera di sintesi tuttavia, non opera nuova, summa essenziale e derivata dalla personalità più sensibile e comunicativa di quel manipolo di giovanissimi (Cobain ha appena 22 anni e parla inevitabilmente di "vissuto") esperti nell'esperire e avvertire i più lievi afflati di quel contesto, loro contesto, di irripetibile e irrimediabile fugacità e per questo valevole un pensiero od un sospiro. Come una sostanza impalpabile, dal centro americano, quegli afflati (l'effetto classe scolastica/ prima delusione amorosa nel pianoro del pur solare, e in quanto tale, maledettismo post-moderno fatto di nicotina e rock e pomeriggi di speranza per le sere ed eccitazioni più o meno collettive) si diffondevano diminuendo tuttavia progressivamente la loro intensità allontanandosi, ai giovani adolescenti di tutto il mondo (anche se non di tutti i tempi: qui la cosa è e deve essere per avere il suo valore strettamente contestualizzata in un giro di dieci anni massimo: 1985-1995). "Bleach" è un album di garage-rock spintissimo; massimo nel genere, e, data la qualità senza inflazione delle canzoni, massimo del rock tutto. Il suo ideale punto di riferimento è il "Fun House" degli Stooges di 20 anni prima: altro unicum, per valore e importanza, nella storia del rock. Come "Fun House", parla un linguaggio essenziale, micidiale e pur, o proprio per questo, sublime, sublime in quanto trascendente oltre la contingenza del particolare e toccante tutte le corde di ciò che di essenziale e fondante si trova al mondo. Mondo a-temporalmente inteso, dato che abbiamo a che fare con un'opera generata e riferentesi esclusivamente dalla e alla contemporaneità. Gli espedienti tecnici possono essere talora punk talora hardcore talora metal talora (in un caso) addirittura folk: Black Flag, Black Sabbath, Sex Pistols, Neil Young. Tuttavia l'atmosfera predominante e conciliante nel suo conferire coerenza al tutto è proprio quella "garage": minimalista, diretta, devastante, perché questo è il suo messaggio, irredenta, in un parola: dettata dalla vita e non dall'arte, qui, veramente, mero mezzo quando non antagonista da scoraggiare nelle sue pretese di accademicità. I dodici brani, rigorosamente autonomi e a sé stanti, nel flusso dei 42 minuti scorrono in una democrazia dei valori che sembra renderli indistinguibili. Per calibrata economia interna di ognuno e di ognuno in rapporto all'altro, per dominio di colore (nero: vedi anni 80) che sembra avere un horror delle altre tonalità, per cioè qualità estese a tappeto compattamente, risulta impossibile far emergere la bontà di un brano su quella degli altri. E questo accade o per i dischi eccelsi o per quelli spazzatura. "Bleach" è la sintesi perfetta di Melvins (noise-metal) e Mudhoney (grunge con picchi melodici); è con tutto il suo "garage" l'album grunge più importante. Il grunge tutto e Cobain in particolare, predica un "surrealismo storicizzato": l'oltre-fisico è possibile solo a partire da un certo contesto preciso e irriproducibile; la fuga solo dalla prigione; la follia dalla sanità. I contrari, poi, permeano un unicum fatto non di contraddizione, ma di sopportazione e infine di trascendenza (più o meno gratuito). Musica d'evasione il grunge, più di ogni altra: e non di sconvolgimento o riflessione. Tuttavia, o proprio per questo, sarà destinata come poche altre ad avere un impatto sociale (e nelle frange adolescenziali in primis: nel futuro quindi) immane. "Nevermind" (1991) fin dal titolo ("non importa": svalutazione di tutti i valori) è la Bibbia del grunge tutto, o meglio:0 potremmo dire che se "Bleach" è il Vecchio Testamento del grunge (riservato numericamente allo studio di pochi e dei più conservatori; insomma qui il popolo ebraico è rappresentato dalle fronde più hard e heavy, più underground, del grunge, più Melvins), "Nevermind" sono i vangeli per la larga diffusione e predicazione universale. Nel mezzo potremmo mettere anche Cobain come Cristo, che tra l'altro se l'è più o meno cercata, e dividere i primi seguaci del grunge (quelli, più che altro di Seattle, che vedevano i Nirvana ancora come un complesso, e underground-garage, autore di "Bleach") dai secondi (il resto del mondo) larga parte dei quali si interessava soprattutto ai ritornelli melodici che in "Nevermind" abbondano, pur accompagnati da testi infinitamente nichilisti e scorati (la voce di Cobain soprattutto, tra il fragile e lo sgolato, Francis Black in altri toni, e riconoscibile tra mille, è tale) e da assalti al fulmicotone. La differenza principale tra il primo e il secondo album dei Nirvana la esemplificano le copertine: una nera, l'altra azzurra; una imperniata nel male disperato, l'altra che ci riflette sopra; una interna, l'altra esterna; una strettamente autobiografica e per primo per chi l'ha fatta, l'altra "generosa" nel comunicare a tutti dove trovare i momenti di superiorità e d'evasione pur all'interno di situazioni catastrofiche (la vita). La dimensione suicida non viene tuttavia mai meno: se nel primo album si compie l'atto nel catrame, nel secondo tra le nuvole dell'azzurro; come dire che è tolta anche la speranza di un qualcosa differente dall'inferno. Nirvana sembra fatto da uno che è già morto e come angelo custode si presenta ai giovani e sensibili perdenti di tutto il mondo per svagarli, caricarli, asciugare loro le lacrime; o ai soddisfatti e appagati, impiegati per gettarli il pungolo della maledizione e farli tremare di comprensioni socialmente peccaminose. L'influsso (sia ben chiaro: se il riferimento di "Bleach" è "Fun House" quello di "Nevermind" è "Nevermind the Bollocks") dell'hardcore melodico e collegiale degli Husker Du (vedi l'assoluto "Zen Arcade", 1984) e del power-pop dei Cheap Trick si fa più presente, mentre il Sabbath e il Purple di "Bleach" retrocede alle barbe delle composizioni sul versante hard-rock più Kiss e Neil Young (già saltuariamente e a vario scopo presente in "Bleach"). Il chitarrismo ritmico, spreciso e a "wall of sound" di Cobain è quello che traghetterà il noise negli anni 90: un noise in chiaro e scuro ma sempre limpido, fresco, epidermico, fatatamente giovane (vedi la raccolta di inediti "Incesticide", 1992). I Green River erano stati fondati dal chitarrista Stone Gossard e dal bassista Jeff Ament. Dopo la dipartita di Mark Arm, continuarono il discorso con il progetto Mother Love Bone (1988-1990: vedi "Aplle", 1990). Venuto meno (prima vittima-grunge: overdose di eroina) il cantante del gruppo, Andrew Wood, i due si lanciarono in un patetico e orrendo album-memoria assieme al cantante e al batterista dei Soundgarden: Chris Cornell e Matt Cameron. Per l'occasione, il quartetto si chiamò Temple Of The Dog. Integerrimi e instancabili, Gossard e Ament reclutano per i loro nuovi Pearl Jam un benzinaio-surfista originario di San Diego dalla voce in grado di non invidiare nessuno: tecnicamente impressionate ed evocativa, oltre che roca e limpida assieme (tra Buckley, Thomas e Morrison): Eddie Vedder farà del calore delle sue corde una spalla da offrire come consolazione/ beneficenza a chiunque ne abbia bisogno. I Pearl Jam si riveleranno progressivamente come i più legati all'hard-rock classico americano anni 70 (gli Springsteen e Young elettrici, soprattutto) sfornando una serie di classici più o meno retrò. I Pearl Jam non servono a niente (per l'evoluzione del rock), ma sono rimasti gli unici, negli anni 90, in grado di scrivere canzoni (al massimo e inevitabilmente però vino nuovo in botti vecchie e vecchissime) con un'infaticabile continuità, una canzone hard-rock melodica dietro l'altra. È, la loro, la qualità della quantità: sono una fede; ma suonano (è proprio il caso di dirlo) come il soccorso di Pisa o il dopo-i-fuochi: obsoleti, per ostinazione e petulanza talora maleodoranti. I Pearl Jam: testi banalmente di rivalsa e di buoni sentimenti, riff atavici, ritmi fritti e rifritti. Tuttavia, ripeto, l'hard-rock è quello: e i Pearl Jam sono rimasti gli unici a saperlo fare. Oggigiorno vi sono alcuni che continuano a fare il ciabattino: sanno farlo, ma a chi interessa più? In ogni caso: 1) un elenco di almeno 15 brani degni di nota e trascinanti; 2) un album ("Vs", 1992) estremamente devastante e senza compromessi: primitivo, totale, animalesco, panico, crudo; sono meriti incontestabili dei Pearl Jam (tra l'altro, prima dell'attuale senilità, intrattenitori formidabili dal vivo).A continuare sulla linea devastante-inascoltabile-perforante dei Melvins ci pensarono (sia pur deviati da un sentimento molto melodico) gli Alice In Chains (vedi il letterale "Alice In Chains", 1995: dove Alice è più una pornostar che una bambina): pesanti, metallici, brutalmente lenti, percussivi. La loro è la nenia del disfacimento in liquefazione. I più a vario titolo pervertiti e politicamente scorretti di tutto il grunge che, in mezzo a tanti maledetti verso se stessi ma pieni di carità e compassione verso il prossimo, suonano come una stonatura indigeribile del genere. Melodici sì, ma solo per offendere di più: come i proventi delle vendite fossero usati per sbeffeggiare l'acquirente credulone. L'album "Alice In Chains" del 1995 è stato clamorosamente ignorato dalla critica. Si tratta di un capolavoro post-rock (che riflette cioè, alienato tecnicamente e concettualmente, sul rock passato senza prospettiva per il futuro): l'industrial-metal tra "Prong Pantera" del precedente lavoro (1992) viene dilatato in un soffuso che perde in violenza quanto acquista in umore cupo, allucinato, oltremondano, drogato, afflitto, defunto; come se si contemplasse con distacco il proprio cadavere. La resa di questa sulfurea, post-moderna, drogata, inquietante, di un certo qual fantasy-cowboy Alice si deve soprattutto a Layne Staley che reinveste lo strumento voce, approntando una rivoluzione sfinente. Il cantato è nenioso e corale, impassibile e apatico come non mai, dilatato: sembrano i cori Beatles messi al ralenty e imbalsamati dal maestro dell'alienazione Ian Curtis. Ne risulta una costipante veglia onirica e oscuramente visionaria, con una radicalità e totalità che richiamano quella del doom onnipresente sabbathiano. Ecco una tragedia (in senso teatrale) orgiastica, mannara, con il demone dell'infanzia, trasposizione hard del blues acido e noise di Nick Cave, del quale si riprende però solo la componente passiva (il fuori dal mondo) e non quella attiva (la compassione). In questo album non ci sono anime, ma cose: cose fluttuanti in uno spazio fantasmagorico cabalisticamente segnato da simboli insignificanti.

A inizio 90 la macchia d'olio del grunge si espande prima in tutta l'America quindi in tutto il mondo: Stone Temple Pilots, Smashing Pumpkins ("Mellon Collie and the Infinite Sadness" del 1995, con il brano "Bullet With Butterfly Wings", massimo esempio di grunge americano fuori Seattle), Silverchair, Bush, Mad Season, Creed, Blind Melon, Stiltskin sono solo alcuni dei nomi.
La cosa artisticamente più interessante che ha a che fare col grunge, e che può in parte essere considerata come grunge al femminile, è il movimento delle "riot grrrl". Qui le cose si fanno complesse; le spiego così: 1) il termine riot grrrl nacque per disegnare i sommovimenti appunto di neo-femministe (giovanissime) ad inizio 90; 2) queste erano però femministe sui generis, ben lontane dalle "suffragette", predicavano in sostanza la gestione della famiglia come una band punk: in realtà volevano dire che era necessaria la furia punk per sovvertire i binari di soprusi, noia, ingiustizia, squallore, tradimenti, qualificanti la vita domestica; 3) avessero potuto, non so se avrebbero voluto la famiglia tutta casa e chiesa, però questa per contrasto richiedevano, dato che l'ordine delle cose era l'opposto: ma forse lo spirito di contraddizione prevaleva sul resto; 4) in ogni caso il punk alle riot grrrl fu dato, ovviamente da altre riot: e il punk d'allora era grunge; 5) tuttavia tecnicamente e anche concettualmente (stupri, abusi domestici, lesbismo) tutto era partito a inizio anni 80 quando le Frightwig di San Francisco (vedi "Cat Farm Faboo", 1984) ebbero una grande idea: fare garage-punk al femminile di protesta anti-maschile, solo che non riuscirono a trovare i mezzi per attuarla, ogni loro riff, cadenza o ritmo, come anche tema trattato, sarà ripreso successivamente, ma amplificato, allargato, reso espressionistico; le Frightwig suonavano nell'effetto come Siouxsie and the Banshees con in più una voce tra le prime sistematicamente urlatrici della storia del rock tutto: Cecilia Lynch, che da sola teneva banco; 6) nel 1982 Wendy Williams dei Plasmatics aveva interpretato in modo assoluto il garage-metal "Stop": ferocia e riff assoluti per il brano più influente su tutto il movimento riot e non solo; 7) dal 1985 a Los Angeles ci pensarono le L7 a fare quello che le Frightwig non erano state in grado di fare: un album dietro l'altro con una violenza dietro l'altra; inventarono il grunge, chiamato per l'occasione fox-core, parallelamente ai maschietti ma poterono pubblicare la loro invenzione soltanto col successo di questi (vedi "L7" e "Smell The Magic": 1990, 1991); 8) sempre su quella costiera, da San Francisco, proposero un fox-core tribale, edipico ed estremo fin dal 1987 le Babes In Toyland (vedi il capolavoro "Fontanelle", 1992): il nichilismo da storico diventa cosmico, l'urlo di Bjelland è brado, quindi eccelso e totale; 9) il fox-core che già faceva scuola e gruppo o confraternita a sé, trapassa nel riot e quindi nel grunge con le Hole (vedi "Live Through This", 1994) di Courtney Love. L'ultimo album grunge ideologicamente e contenutisticamente propositivo e innovativo è targato 1991 ("Nevermind" è la traduzione, come temine, filosofica di "grunge"). Da allora, niente più di nuovo sotto il sole, per quanto riguarda il panorama rock: tutto quello che di "nuovo", interessante, stimolante e significativo è stato fatto con chitarra-basso-batteria non a caso è stato chiamato "post-rock". Il grunge, in talune sue brezze apparso così fresco e nonostante tutto spensierato, semplice, diretto: il grunge, il bambino, ha storicamente costituito le campane che suonano a morto per il rock. Prima di interrogarsi sul valore della vita e sul fatto che simbolo di morte sia un vecchio piuttosto che un neonato, si guardi la copertina di "Nevermind". Alla risposta si apponga il significato di quest'ultimo titolo o parola.

Fonte: Ondarock

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L'Hip-Hop è nato più o meno nel 1970,
tutti i media lo avevano giudicato solo una moda passeggera...
Tutto è nato negli U.S.A miscela esplosiva di Blak-music, soul, funk e R&B(Rhythm and Blues);
l'Hip-Hop in poco tempo si è letteralmente espanso in tutto il mondo,
chiaramente ogni nazione l'ha reso suo, cercando di adattare il tutto al loro stile di vita
La cultura dell'Hip Hop è variegata: comprende l'amore per la musica ritmata dal d.j.
attraverso lo scratch,
il cut e il rap, per gli sports "da strada" quali lo skate boarding,
per l'arte metropolitana del graffitismo, per la break dance.
Principalmente l'Hip-Hop ha due grandi divisioni la East-coast e la West-coast.
La costa est è caratterizzata dal casino, la musica e molto più "grezza",
I b-boy hanno una mente completamente diversa dai loro compagni della W-coast,
hanno molti più problemi e casini.Principalmente i b-boy della E-coast sono più poveri,
non lo fanno per soldi, e anche se ne hanno non gli mettono in mostra.
La West-coast è molto diversa,
La musica è molto più melodica, e la gente è molto più tarnquilla.
Esaltano la ricchezza, si mettono in mostra con macchinoni, catene d'oro,
denti d'oro e anelli tempestati di diamanti.
In Italia è apprezzata di gran lunga la East-Coast.
L'Hip-Hop è formato da 4 elementi: Mcing, il Djing, il Writing e il Breaking;
ognuno completa l'altro e tutti assieme formano il vero Hip-Hop, q
uello che spakka di brutto per intenderci.
Parola chiave del Hip Hop è "free style", ovvero l'arte dell'improvvisazione,
non come mancanza totale di regole,
ma come interpretazione soggettiva ed originale delle regole stesse.
Tutto ha avuto inizio dal breaking, ovvero doveva esserci qualcuno che faceva basi per poter far ballare il breaker, è da questa necessità è nato
il Dj, subito dopo si è sviluppata anche la figura dell'Mc, ovvero colui che canta sulle basi; l'unico "personaggio" forse indipendente è il Writer, cioè colui che disegna.
Ognuno ha il suo compito, proviamo ad analizzare ogni singolo elemento:
L'Mc a.k.a. Master of Ceremony (maestro di cerimonia): è colui che canta, solitamente mette in rima quello che espliciti.
Altra specialità è il free-style ovvero la capicità di improvvisare, durante basi casuali fatte solitamente con la sola bocca, vere e proprie canzoni in rima riguardanti le situazioni o i pensieri che si stanno vivendo nello stesso momento.
Gli Mc's solitamente si sfidano in gare di free-style per dimostrare la loro bravura; molte volte è proprio da questa improvvisazione che nascono poi i pezzi più curati che troviamo nelle varie cassette. La parola chiave dell'Hip Hop è dunque "free style", l'arte dell'improvvisazione, non come mancanza totale di regole, ma come interpretazione soggettiva ed originale delle regole stesse.
Il Dj e/o Bit-Maker: è colui che appoggia tecnicamente l'Mc, è lui che prepara le basi, cerca e trova le sonorità più adatte per il pezzo finito, lo mixa, lo remixa e lo arricchise con scratch, insomma tutto quello che sentiamo oltre alla voce dell'Mc in un pezzo Hip-Hop è opera del suo Dj.
Il Writer: è colui che dipinge e teggha (firma col suo nome "d'arte" qualsiasi tipo di suoperficie), lo sente per necessità, solitamente dipinge con tecniche di Aerosol-art, colpisce muri, tetti, garage... insomma tutto il devastabile.. ultimamente in Italia è in voga dipingere i treni. Nello stivale vantiamo di molti writer veramente validi che possono competre in tutto e per tutto con quelli degli U.S.A.
Il Breaker: è colui che balla, si può presupporre che tutto l'hip-hop sia nato intorno a questa figura, come già detto in precedenza.
Balla la Break-Dance, fà evoluzioni spettacolari è solitamente è protagonista nelle Jam (ovvero le feste tipiche dei b-boy, occasioni di unione e scambi culturali).
Così come nel rap si improvvisa su una base musicale fissa,
nell'abbigliamento nascono infinite variazioni su una regola-base,
conseguenza diretta dello stile di vita di questa cultura: la comodità.
Il basic wear è rappresentato da pantaloni over-size, cappelli da marinaio,
boots indistruttibili, T-shirt sportive, scarpe e tute da ginnastica personalizzate con scritte,
tags e pops (cioè con disegni tipici del graffitismo).
Tutto ciò’ non fa solo parte della così detta moda rap,
ma ogni singolo indumento ha un ruolo ben preciso nella cultura hip hop;
come si può’ notare tutti i più famosi rapper non usano il proprio nome,
ma utilizzano uno "street-name" per mantenersi in incognito tra le gente.
L’esigenza di non essere riconosciti, parte dal ruolo del Writer, che,
dipingendo illegalmente sui muri, usava vestire comodo: i vestiti larghi,
le tute e le scarpe da ginnastica,
erano utili (e lo sono tuttora) per correre liberamente
quando venivano scoperti mentre imbrattavano i muri;
gli occhiali scuri, molto grandi e i cappelli portati bassi sulla fronte,
per evitare di essere riconosciuti nella notte.
infatti è proprio la notte che accompagna gli artisti delle tele metropolitane,
quando tutti dormono loro entrano in azione armati di vernice spray e…fantasia.


Fonte: mondohiphopclub

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Il rap[SUP][1][/SUP], termine derivato dall'acronimo delle parole inglesi Rhythm And Poetry, è uno stile di vita sorto negli Stati Uniti d'Americaverso la fine degli anni sessanta e diventato parte di spicco della cultura moderna. Il termine è stato inventato dal cantante Joe Tex. Il rap è la componente vocale della cultura hip hop e consiste essenzialmente nel "parlare" seguendo un certo ritmo; questa tecnica vocale è eseguita da un MC (freestyler), mentre il DJ (turntablist, beatmaking, scratching) accompagna l'MC. Gli stili di ballo hip hop (specie la breakdance), il graffiti writing, il rapping e il DJing sono i quattro elementi della cultura hip hop, nata presso la comunità afroamericana e latinoamericana[SUP][2][/SUP] di New York nei primi anni settanta, come un riadattamento americano del DJ style, uno stile di reggae giamaicano ritenuto il principale precursore di questo genere.

Tipicamente il rap consiste di una sequenza di versi molto ritmati, incentrati su tecniche come rime baciate, assonanze edallitterazioni. Chi scandisce tali versi, cioè il rapper, lo fa su una successione di note ("beat") realizzata tramite il beatmaking, suonata da un DJ e fornita da un produttore o più strumentisti. Questo "beat" è spesso creato usando un campionamentopercussionistico di un'altra canzone, generalmente funk o soul. Inoltre molti altri suoni sono di frequente campionati, suonati con un sintetizzatore o una drum machine oppure creati con strumenti veri. A volte un brano rap può essere strumentale, e ciò viene fatto a scopo dimostrativo da un DJ o un produttore. Le tematiche dei testi variano a seconda dei numerosi sottogeneri.
A partire dai primi anni novanta l'hip hop è diventato parte di molte classifiche musicali ed oggi è diffuso in tutto il mondo, in vari stili. Sebbene questo genere musicale abbia varcato i confini delle produzioni underground per diventare di forte successo commerciale con artisti come Eazy-E, Tupac Shakur, The Notorious B.I.G., Eminem, Snoop Dogg, Nas e Jay-Z per citarne alcuni, negli Stati Uniti rimane vasta e fortissima la presenza di produzioni indipendenti. Ciò dimostra come il rap sia sì un fenomeno musicale, ma soprattutto una componente di una cultura oramai radicata all'interno del territorio statunitense. Questo genere si divide in varie correnti, tra cui il gangsta rap, l'hardcore rap, il G-funk, l'alternative rap ed altri sottogeneri ancora.
Per poter rappare, a differenza degli altri generi musicali, non è necessario possedere una voce eccellente. Molte canzoni rap assomigliano degli scioglilingua parlati molto velocemente.
Uno dei primi fenomeni musicali afro-americani furono i gospel e gli spiritual, canti consolatori di ispirazione cristiana. I testi delle canzoni spiritual trattavano argomenti presi dalla Bibbia, con un intento di immedesimazione nelle vicende di Gesù e degli ebrei, in modo da poterne trarre consolazione e forza di sopportazione.
Da queste basi nacque il blues, da cui prendono il nome le "blue notes", ad uso dei vari strumenti. Gli argomenti del blues erano più nostalgici e tristi, come testimonia la radice del nome ("blue", nostalgico).
Dalla fusione tra jazz e blues nacque poi il Boogie Woogie. Esso fu introdotto da alcuni pianisti blues come "Pine-Top", che fu il primo musicista di colore a registrare le proprie canzoni su un disco. Uno dei più importanti compositori di Boogie Woogie fu il trombettista-cantante Louis Armstrong, che iniziò la sua carriera con la Creole Jazz Band of Chicago di King Oliver, e presto si mise in luce per le sue capacità di improvvisazione. Se si ascolta una canzone di Armstrong, si nota che spesso canta sillabe senza senso in libertà, che servono ad imitare il suono di uno strumento: questa forma di canto ha il nome di scat.
Molto vicino al Boogie Woogie è il soul, un altro genere musicale nero, che ha molti elementi di contatto con lo stesso blues: essenzialmente, le differenze risiedono nel fatto che nel soul si trattano maggiormente temi sentimentali. Giunti al soul, si è ad un passo dall'arrivare al rap e al Rhythm and blues.
Nei quartieri neri si comincia a cantare un genere con influenze blues e swing. Questo genere viene chiamato "Rhythm and blues" o, più comunemente, "R&B".
Negli anni novanta, nei ghetti americani ci fu una forte ondata di malavita, caratterizzata da omicidi, lotte fra bande, spaccio di droghe e microcriminalità diffusa. Inoltre, a causa delle varie rivoluzioni, si ebbe un afflusso nei ghetti di persone provenienti daPorto Rico, Cuba, Messico, Colombia, Perù e altri paesi sudamericani. In particolar modo i portoricani introdussero la moda di scrivere sui muri con bombolette spray; fu così che nacque l'arte chiamata Aereosolart o writing, volgarmente conosciuta comearte dei graffiti o graffitismo.
Le principali ere storiche dell'hip hop/rap sono la cosiddetta Old school hip hop (1970-1985), dagli esordi al debutto in mainstream, e la Golden age hip hop (1985-1993), in cui iniziarono a riscuotere successi sia il movimento East Coast che quello West Coast. Allora cominciò anche la storia moderna del genere, con la nascita di Gangsta rap e G-funk, di derivazione West Coast. Gli anni dal 1993 ad oggi riguardano l'Hardcore hip hop, il "Bling-bling", gli stili underground e i successi in ambito mainstream, che definiscono in larga parte l'hip hop moderno.
Verso la metà degli anni settanta, presso le feste di strada di New York, personaggi come DJ Kool Herc cominciarono a campionare e separare le sezioni ritmiche di vari brani, di generi come funk, soul, R&B e disco music. Le radici di queste canzoni risalgono a metà degli anni settanta, quando il celebre cantante e compositore James Brown citò Little Richard e la sua band tra i primi a praticare il funk su basi rock. Siffatti brani furono usati per i breakbeats dai DJ, reiterandoli all'interno delle serata in maniera da creare sequenze ritmiche senza soluzione di continuità, grazie all'utilizzo di due copie dello stesso disco, da cui era possibile isolare il "break" e ripeterlo con due coppie di giradischi collegati al mixer. I DJ del periodo avevano come principale obiettivo l'intrattenimento, facendo ballare la gente ai party, nei giardini pubblici o lungo le spiagge semplicemente esibendosi con il loro DJ set e mixando basi e dischi. Con l'aumento di popolarità di questa musica, i cantanti iniziarono a parlare sui ritmi campionati e divennero noti come "MC", abbreviazione di "Master of Ceremonies". Essi avevano una rima facile e la capacità di seguire il DJ anche durante i passaggi più impegnativi, utilizzando le proprie abilità liriche sulle parti non cantate dei dischi. Il primo ruolo dell'MC era quello di introdurre il DJ e la sua musica e di attirare l'attenzione del pubblico. Gli MC iniziarono ad introdurre frasi non cantate nelle canzoni, ad invitare l'audience a ballare, a salutare gli spettatori, ma anche a pronunciare giochi di parole ed aneddoti. Alla fine questa pratica si affinò e divenne nota come rapping. Tutto ciò non aveva però il benché minimo peso discografico, trattandosi di improvvisazioni e non di prodotti confezionati in studio.
L'uscita del disco della Sugarhill Gang è quindi significativa perché contribuì a diffondere questo genere, relativamente nuovo, presso una vasta schiera di persone che non erano direttamente coinvolte nel clima culturale newyorkese e delle zone limitrofe, ovvero la patria del genere; da lì in poi fu molto più facile far conoscere questo modo di fare musica.
Negli anni novanta l'hip hop iniziò a diversificarsi e a svilupparsi in una forma più complessa. Nello stesso tempo si svilupparono notevolmente tecniche più sofisticate, come loscratching e i campionamenti. Nel 1980 arrivò al successo un altro grande nome, Kurtis Blow. Seguì Grandmaster Flash con i suoi Furious Five, nel 1982, che aprirono la strada al rap impegnato a partire da The Message, brano scritto da Melle Mel.

Dal 1994 ai nostri giorni

Negli anni novanta si assistette anche ad un violento confronto tra le due maggiori correnti gangsta, West Coast ed East Coast. Tale scontro interessò Tupac Shakur e The Notorious B.I.G., e finì con le loro dipartite rispettivamente nel 1996 e nel 1997.
All'inizio dei novanta si intravedono anche i primi palesi tentativi di commercializzazione del genere rap, da qualcuno definitoentertainment (intrattenimento): ne sono responsabili personaggi come MC Hammer e Vanilla Ice, il fenomeno ha vita breve nelle forme in cui era stato concepito, e l'hip hop inizia a tornare alle origini, riscoprendo le sonorità dei generi che l'hanno "creato" come il jazz e ilR&B, dando origine a gruppi interessanti come i Common, Mos Def, The Roots, Dream Warriors, gli US3, o i Gang Starr di Guru (autore fra l'altro del progetto Jazzmatazz), e a collaborazioni con artisti del calibro di Herbie Hancock e Ronnie Jordan.
Nel 1996 i Bone Thugs-N-Harmony, da Cleveland (Ohio), pareggiarono i Beatles per il singolo a più rapida ascesa in classifica ("Tha Crossroads"). Quattro anni dopo, l'album The Marshall Mathers LP di Eminem vendette nei soli USA più di 11 milioni di copie e vinse unGrammy Award.
Il rap negli Stati Uniti, paese dove è nato, è oggi diventato a tutti gli effetti un genere affermato come gli altri. La sua versione più commerciale ha un'ampia fetta di mercato musicale e quindi sottostà alle regole che governano il mondo discografico: la vivacità lirica e la profondità dei testi lasciano più spazio a produzioni orecchiabili, hits capaci di vendere molto, essere ballate nei club, tirare la volata ad interi dischi. Nonostante questo, la versione più prettamente underground di questo genere continua ad essere veicolo di idee, oltre ad avere grandi capacità di denuncia sociale. È quindi sempre più evidente la frattura tra il rap commerciale ed il rap underground. Ne è una riprova la diversa carriera fatta da due tra gli MC più importanti di New York, Nas e Cormega.


I rapper oggi e le gare di freestyle

Componente particolarmente rilevante della cultura rap è il freestyle e le sfide, riconducibili nella cultura italiana Poesia a braccio
Ogni "freestyle" è generalmente composto da un tempo determinato per ogni rapper, nella quale quest'ultimo deve cercare di coinvolgere e convincere il pubblico delle proprie migliori qualità. Così crea delle rime in improvvisazione, di solito fondate sull'autocelebrazione, sullo sviluppo di un tema oppure, durante le gare, sul ridicolizzare ed offendere ironicamente il proprio avversario.


Impatto sociale

Il rap fa parte della cultura hip hop, movimento che include anche breakdance, graffiti writing e organizzazioni criminali (gang) oltre che gergoed abbigliamento propri. La popolarità di questa musica ha contribuito alla diffusione della sua cultura d'origine, negli Stati Uniti e in minor misura all'estero.

Stile di vita

Alla fine degli anni novanta, nel rap si è molto diffuso il "bling bling", incentrato su simboli di ricchezza ed elevazione sociale come denaro, gioielli, auto di lusso ed abiti firmati. Anche se I riferimenti alla ricchezza esistono sin dalla nascita dell'hip hop, la cultura "bling bling" è molto più radicata nei fortunati lavori di quel periodo (nella fattispecie, i video musicali) di Puff Daddy e della Bad Boy Records; rilevante è stato anche il ruolo della No Limit Records, di Master P. Gli artisti Cash Money, furono ritenuti gli epitomi di stile ed attitudine "bling bling". Sebbene molti rapper, specie quelli gangsta, senza pentimento mirano ed inneggiano al bling bling, altri artisti soprattutto undeground l'hanno apertamente criticato. Da loro, infatti, non sono rare le accuse di materialismo a questo stile di vita.

Influenza sui giovani

Il successo di rap e suoi sottogeneri ― ancora una volta, in questo caso, il gangsta ― ha anche avuto un forte impatto sociale sui comportamenti dei giovani di oggi. L'attitudine a volte egoista, ritratta in testi e video di alcuni artisti di genere, ha spesso avuto conseguenze negative per i fans. I modi di fare di certi artisti non rispecchiano il resto dell'hip hop, e gli effetti dei loro testi sui giovani di questa cultura sono molto dibattuti. Molto spesso i ragazzi adottano la personalità "gangsta", molto edonista e modaiola, senza essere parte di una gang. Simili comportamenti inducono più volte a comportamenti antisociali, come la persecuzione del proprio pari, l'avversione alla buona educazione, il rifiuto dell'autorità, e a crimini minori come il vandalismo. Un'evidente sottocultura "pseudo-gangsta", si è molto diffusa tra i giovani del Nord America.

Linguaggio

Il rap ha un gergo distintivo, che include parole come yo, flow e phat. Grazie al successo del genere negli ultimi decenni, molte di queste parole sono state assimilate in vari dialetti differenti in tutto il mondo. Oggi anche chi non ascolta rap, ne usa a volte il gergo. Vi sono anche parole come homie, anteriori all'hip hop ma spesso associate. Talvolta espressioni come what the dilly, yo sono diffuse da una singola canzone (in questo caso, "Put Your Hands Where My Eyes Could See" di Busta Rhymes), ma sono solo usate per poco tempo. Particolarmente importante è lo slang di Snoop Dogg ed E-40, che aggiungono -izz ed -n a metà parola. Questa pratica fu usata per la prima volta da Frankie Smith, nel suo linguaggio senza senso (il singolo "Double Dutch Bus", del 1980). Si è diffusa anche tra quelli che non sono fan del rap, che addirittura non conoscono la derivazione di -izz.

Problemi con la censura

Negli anni recenti l'hip hop ha incontrato con la censura più problemi che il resto della musica, per l'uso di imprecazioni. Riceve anche strali, perché a volte è anti-establishment, e molti brani parlano di guerre e colpi di stato che alla fine rovesciano il governo. Per esempio "Gotta Give the Peeps What They Need" dei Public Enemy fu editata senza il loro permesso, rimuovendo le parole "free Mumia"[SUP][3][/SUP]. L'uso di parolacce in molte canzoni ha generato sfide nella loro trasmissione, sia nei videoclip (specie su MTV) che in radio. Di conseguenza molti brani rap sono trasmessi censurati: le volgarità vengono tagliate dalla registrazione (ma senza intaccare il background), oppure i testi sono sostituiti con altri non offensivi. Il risultato – che spesso rendono incomprensibile il testo o contraddice la produzione – è quasi diventato una costante del genere. Spesso questa censura è stata presa in giro in film come Austin Powers: Goldmember (2002), in cui un personaggio – che prende in giro un video hip hop – canta un intero verso censurato.

Fonte: ypnos92



 
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Riferimento: Storia dei generi musicali

Con tutto il rispetto, okay, c'hai messo l'impegno, quello che vuoi, ma ora, oggettivamente parlando: secondo te qualcuno verrebbe mai in questo thread a leggere la storia di un genere musicale? E' illeggibile data la formattazione del testo. ^^
Secondo me è un topic inutile.