Nelle strade d’Italia sfilano i draghi che da giorni, con il fuoco dell’indignazione, riscaldano l’aria fresca dell’autunno del nostro scontento. Perché di certo non è l’autunno della nostra pazza gioia. Chi può negarlo.
A sfilare – si dice – è il 99% della società contro l’1% dei potenti. Queste percentuali sembrano descrivere una nuova divisione in blocchi del mondo ai tempi della crisi finanziaria globale, destinata a durare per molto (anche perché dura da sempre. Quando mai il grafico a torta della società è stato disegnato in modo molto diverso?).
L’1% sono i responsabili del disastro economico che accompagna quest’altro tramonto dell’Occidente, parola-simbolo di un benessere sempre meno diffuso, di prospettive di opportunità tremolanti come un miraggio all’orizzonte, di un futuro che è non più immagine nitida ma caleidoscopio di ansie, paure, disillusioni.
Se è difficile non provare indignazione verso un potere incapace, corrotto e sordo, è però altrettanto difficile che quelle succitate disillusioni non siano nutrite anche un po’ verso chi riempie le strade del mondo con serpentoni (e draghi) di cortei indignati.
Lo dico come se pronunciassi una bestemmia.
Il 99% in cui rientro – non fosse che per un fatto statistico! – si scaglia contro quell’1%, colpevole di ogni stortura di questa società. In realtà, se è per questo, quello che definiamo genericamente come “il potere”, pubblico o privato, copre anche meno dell’1% della popolazione.
“Come puoi pensare di avercela ugualmente con entrambi, quindi con te stesso?”. Me lo sento addosso il problema, non rinfacciatemelo grazie. E non è questione di avercela. Non è tifo calcistico.
Percentuali a parte e al netto della mia personale tendenza alla polemica e alla ricerca spasmodica del pelo nell’uovo, questa difficoltà di sentirsi pienamente in sintonia con la protesta non sorge dalla contrarietà verso le ragioni profonde e gli stati d’animo che la motivano, che sono anche miei, di chi cioè avrebbe tutti i motivi, ideali e materiali (se volete vi faccio vedere il mio conto corrente), per assediare il palazzo della politica e dell’economia per scrollare i loro inquilini dall’indifferenza che sicuramente nutrono verso lo stato del mondo che essi governano, pigiando su questo o quel bottone.
L’insoddisfazione generata dalla lettura di questo nuovo capitolo della storia dei movimenti globali, è motivata da ciò che vedo in quelle strade e in quelle piazze, dalle parole e dagli slogan che sento risuonare, dalle tesi che ascolto.
Ripeto: le ragioni ci sono tutte. Quello che contesto è che queste bastino per dire: ecco, da lì può nascere una speranza possibile per il futuro. “Change we can believe in”, diceva Obama. Cambiamento praticabile, a portata di mano. Contesto che si possano elevare indignazione e rabbia, di per sé, ad alternative allo status quo. Esse sono sentimenti, che non possono – lo scontento di cui si parlava all’inizio – non animare una protesta come questa. Ma se si vuole pensare un cambiamento, invece che vivere – subire – nuove cocenti delusioni, oggi non basta più. Proprio per niente.
Si parlava di parole e slogan. Ecco, mi piacerebbe immaginare un progetto che elevi a guida, in primo luogo, le parole, il linguaggio. La suggestione nasce proprio dall’auspicio che da questo movimento possa sorgere qualche opportunità positiva.
Se è finito il tempo dell’1% , deve finire anche il tempo in cui qualsiasi altra percentuale, piccola o grande, pensa di farsi carico e voce di un cambiamento collettivo – quindi anche mio, nostro – su presupposti e convincimenti sbagliati e idee confuse per l’avvenire. Non basta più, amici.
Io mi aggrappo alle informazioni, sono fatto così e non mi si cambia facilmente. Si chiama fact checking. Non è una religione. È il confine tra il mondo della confusione e quello della chiarezza, nei limiti delle capacità umane. Ma se si vuole niente meno che il cambiamento globale, mi pare che la verifica delle cose sia una pretesa ragionevole verso se stessi e gli altri. Tanto più se si vuole essere presi sul serio.
Si dice “non si possono pretendere dai manifestanti le soluzioni che i governanti non hanno trovato”. Non si pretende questo, ma qualche parola chiara sì. Il fatto che chi ci governa, a più livelli, abbia le idee confuse non può essere una giustificazione per avercele anche noi.
Se dobbiamo scendere in piazza a urlare “noi il debito non lo paghiamo”, dobbiamo prima capire cosa sia un debito pubblico, come sia stato creato, se sia possibile davvero non pagarlo o meno. Quali sarebbero le cONSEGUENZE DEL NON PAGARLO in tutto o in parte. Posto che in teoria è un debito di cui saremmo creditori proprio noi.
Se dobbiamo scendere in piazza a pretendere che l’1% attui un “default controllato”, dobbiamo sapere cos’è un default, cosa comporta un default controllato e se questo sia nel novero delle cose possibili e soprattutto auspicabili.
Se andiamo a prendere di mira la BANCA D’ITALIA e il suo quasi non più governatore, convinti che sia davvero all’origine di tutti i mali di questo paese – mentre l’altro giorno richiamava il governo sulla necessità di reintrodurre l’ICI – sarebbe doveroso informarsi su cosa sia e cosa faccia una banca centrale (e a questo proposito girano parecchie TEORIE COMPLOTTISTE che purtroppo non mancano di nutrire una certa parte della contestazione).
Se sfiliamo per le strade chiedendo “democrazia diretta”, vorremmo capire come questa nuova forma di governo funzionerà e di quali decisioni si prenderà carico. Perché, diretta o indiretta, la democrazia funziona sempre a maggioranza e l’esito è sempre una decisione le cui conseguenze ricadono su tutti. Certo “we, the people”, è un principio guida della democrazia moderna, ma sta scritto nelle Costituzioni, insieme a molte altre regole. Non è un urlo davanti alle telecamere. Non c’è dubbio che oggi la democrazia rappresentativa goda di cattiva salute e che nel nostro paese sia stata svuotata in questi anni dall’interno, da un potere autoreferenziale ed egoarchico che ha privato il Parlamento del suo ruolo principe. E in questo Draghi ha ben poche colpe. Le responsabilità sono di chi sappiamo. La democrazia diretta è una bella immagine, ma funziona a malapena nei condomini ed estesa ad ambiti maggiori non riuscirebbe a decidere cosa mettere nei distributori automatici di vivande.
Ma forse questi slogan vogliono essere solo sfoghi? Non dovremmo prenderli sul serio? Anche se sono frasi dettate dalla rabbia e dirette verso generici simboli del “marcio del potere”, non migliorerebbe molto le cose, denoterebbe superficialità. Se invece sono la sintesi di un programma allora è giusto analizzarlo e capire cosa ci sia di sensato e utile.
Detto fuori dai denti, sono stanco di farmi illudere, sia da chi detiene il potere, sia da chi, anche in mia vece, parla, grida, balla, manifesta. Hanno stancato gli slogan, le semplificazioni, non solo quelle di Berlusconi (su questo ancora imbattibile).
Perché poi, in quel 99% c’è di tutto. Il 99% che scende in piazza in Italia non è esattamente identico a quello che manifestava davanti a Wall Street. Da noi la protesta è identificata con il mondo del precariato giovanile, dello sfruttamento, di chi lavora nel mondo della conoscenza e del solidarismo, del comparto pubblico. Ma davanti a Wall Street c’erano anche gli ex benestanti che si sono riempiti le tasche di debiti e mutui per vivere al di sopra delle loro possibilità. Mi limito a questo solo, per accennare al fatto – antipatico a dirsi – che non sono del tutto convinto che chi sta fuori dalle stanze del potere dell’1%, sia sempre e comunque non responsabile di come stanno messi il mondo e il nostro paese. Il commerciante che non fa lo scontrino e il professionista che non fa fattura, non fanno parte dell’1% che sta nelle stanze dei bottoni, ma di certo hanno contribuito anche loro al dissesto delle casse pubbliche. Però magari inveiscono contro la casta.
Chiunque non faccia parte dell’1% avrebbe, in realtà, un buon motivo per manifestare in questi giorni. A sfilare accanto al giovane precario potrebbe benissimo esserci l’imprenditore di centrodestra, che ha poco da spartire coi draghi ribelli ma è incazzato con le banche parecchio anche lui, che vorrebbe abolire le tasse e che sogna di “ridurre il governo a dimensioni tali da poterlo gettare nel lavandino”, come dicono i libertarians americani.
Li unirebbe solo l’indignazione e la rabbia e i bersagli cui indirizzarle. Ma sul resto drago e imprenditore sarebbero ben poco d’accordo. Questo induce a riflettere su un tema che sarebbe interessante sviluppare, ovvero come questa crisi possa aver portato acqua al mulino di visioni del governo e dell’economia opposte. Il tema può essere sintetizzato dalla domanda “Vogliamo più Stato o meno Stato?”. Perché se manifestiamo contro la politica e le sue decisioni in economia, è legittimo chiedersi in quale misura non vogliamo più essere condizionati da essa (Stato, partiti e anche pubblica amministrazione) e in quale invece vogliamo solo che tutto questo funzioni meglio.
Insomma, sono la complessità e le contraddizioni dentro le cose, la società e le nostre vite, che inducono a riflettere di fronte all’indignazione globale. Riflettere, tutto qui, non condannare.
Un’altra – ultima – ragione potrebbe essere quella dell’efficacia, della capacità di incidere sul corso degli eventi. Cosa è rimasto dei movimenti globali/antiglobali degli ultimi dieci anni? Quali risultati hanno ottenuto? Quali riflessioni efficaci sono state sviluppate? Sarò cinico, ma mi pare che il mondo proceda, in meglio o in peggio, sostanzialmente indifferente alle varie ondate movimentistiche che si susseguono negli anni. La colpa non è certo dei movimenti, che nessuno davvero investe della responsabilità di rivoluzionare le cose. Di testimoniare, forse. Indicare strade. Probabilmente questa incapacità di elaborazione di un pensiero affligge un po’ tutti, non solo i movimenti di protesta, ma anche l’economia, la filosofia politica, la cultura in generale.
Senza andare troppo oltre, il messaggio vuole essere questo. Non è più tempo di slogan, idee confuse e semplificazioni calcistiche della realtà. Se cambiamento dev’essere, si studi, si ragioni, si discuta. Dopo aver chiuso le tende davanti alla Banca d’Italia, apriamo i libri. Non ritiriamoci ognuno nelle nostre torri d’avorio percentuali.