Lo accoltellò davanti a un bar
di corso Lecce al termine
della partita di Champions
MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO
Trent’anni di reclusione. È la condanna inflitta ieri dal tribunale di Torino a Rocco Acri, 61 anni, il tifoso interista che la sera del 22 maggio 2010, dopo la finale di Champions League Inter-Bayern Monaco, uccise Edmondo Bellan, 62 anni, tifoso juventino, dopo un diverbio all’interno del bar «Blu Sky» di corso Lecce 52. Un colpo solo al cuore con un coltellino affilato. Una ferita mortale nella parte inferiore del pericardio. La corsa inutile in ospedale.
«Non volevo uccidere» ha sempre sostenuto Rocco Acri, difeso dagli avvocati Marco Moda e Antonio Rossomando. Finito alla sbarra con l’accusa di omicidio volontario, i suoi difensori hanno cercato con tenacia fino all’ultimo di dimostrare l’assenza di volontà in quella coltellata mortale, sostenendo la tesi dell’omicidio preterintenzionale. L’uomo è stato giudicato con rito abbreviato dal gup Sandra Casacci. La condanna a 30 anni è frutto dell’applicazione dell’aggravante dei futili motivi. E cioè il calcio. A scatenare la discussione fu uno scambio di battute sulla maglietta di sfottò esibita dal calciatore Marco Materazzi nei confronti dei juventini, sull’onda delle polemiche per lo scudetto 2006 assegnato a tavolino all’Inter. Una lite tra più persone. «In realtà - dice l’avvocato Rossomando - il diverbio non fu causato dallo scontro calcistico, ma dal fatto che Acri intervenne a difesa dell’amico barista, gravemente malato, aggredito dalla vittima. Il calcio tra i due non c’entra». Edmondo Bellan, hanno affermato i testimoni, quel giorno aveva bevuto qualche bicchiere. Si era comportato in modo aggressivo, soprattutto nei confronti del titolare del locale.
L’omicidio, secondo la difesa, si sviluppò in due momenti. Prima ci fu una colluttazione nel bar, con uno scambio di pugni con più persone per una lite calcistica, alla quale l’imputato intervenne ma non provocò. Poi, poco dopo, Acri e Bellan uscirono dal locale: uno dalla porta principale, l’altro da quella d’emergenza. I due si trovarono faccia a faccia sul marciapiede, così si scatenò un secondo round, senza testimoni. Acri prese il coltello e lo fece roteare in aria: «Soltanto per tenerlo lontano». La lama ferì l’avversario al braccio e si conficcò per pochi centimetri nel cuore. Bellan si accasciò a terra. Acri si volse e andò a casa. Fu arrestato dalla polizia. In casa aveva ancora il coltello. Alla moglie non aveva detto nulla del diverbio. Non sapeva di aver ucciso. Versioni divergenti. Il pm Marco Sanini ha sempre sostenuto l’accusa dell’omicidio volontario. Oltre ai futili motivi, gli ha contestato l’aggravante del mezzo insidioso, rappresentato dal coltello a serramanico. I difensori di Acri, invece, ricostruendo minuziosamente le fasi della vicenda, hanno affermato la mancanza di volontarietà. Quel colpo al cuore fu rapido, quasi una puntura, ma letale. Questione di centimetri. Per cercare di convincere i familiari della vittima, Acri scrisse mesi fa anche una lettera piena di dolore. Dall’accusa fu considerato un segno tardivo, inefficace. Il giudice, nonostante l’ulteriore approfondimento dibattimentale sollecitato dalla linea difensiva dell’imputato, ha accolto la tesi del pm, eliminando solamente l’aggravante del mezzo insidioso. «Faremo ricorso in appello» dicono agguerriti i suoi avvocati.
di corso Lecce al termine
della partita di Champions
MASSIMILIANO PEGGIO
TORINO
Trent’anni di reclusione. È la condanna inflitta ieri dal tribunale di Torino a Rocco Acri, 61 anni, il tifoso interista che la sera del 22 maggio 2010, dopo la finale di Champions League Inter-Bayern Monaco, uccise Edmondo Bellan, 62 anni, tifoso juventino, dopo un diverbio all’interno del bar «Blu Sky» di corso Lecce 52. Un colpo solo al cuore con un coltellino affilato. Una ferita mortale nella parte inferiore del pericardio. La corsa inutile in ospedale.
«Non volevo uccidere» ha sempre sostenuto Rocco Acri, difeso dagli avvocati Marco Moda e Antonio Rossomando. Finito alla sbarra con l’accusa di omicidio volontario, i suoi difensori hanno cercato con tenacia fino all’ultimo di dimostrare l’assenza di volontà in quella coltellata mortale, sostenendo la tesi dell’omicidio preterintenzionale. L’uomo è stato giudicato con rito abbreviato dal gup Sandra Casacci. La condanna a 30 anni è frutto dell’applicazione dell’aggravante dei futili motivi. E cioè il calcio. A scatenare la discussione fu uno scambio di battute sulla maglietta di sfottò esibita dal calciatore Marco Materazzi nei confronti dei juventini, sull’onda delle polemiche per lo scudetto 2006 assegnato a tavolino all’Inter. Una lite tra più persone. «In realtà - dice l’avvocato Rossomando - il diverbio non fu causato dallo scontro calcistico, ma dal fatto che Acri intervenne a difesa dell’amico barista, gravemente malato, aggredito dalla vittima. Il calcio tra i due non c’entra». Edmondo Bellan, hanno affermato i testimoni, quel giorno aveva bevuto qualche bicchiere. Si era comportato in modo aggressivo, soprattutto nei confronti del titolare del locale.
L’omicidio, secondo la difesa, si sviluppò in due momenti. Prima ci fu una colluttazione nel bar, con uno scambio di pugni con più persone per una lite calcistica, alla quale l’imputato intervenne ma non provocò. Poi, poco dopo, Acri e Bellan uscirono dal locale: uno dalla porta principale, l’altro da quella d’emergenza. I due si trovarono faccia a faccia sul marciapiede, così si scatenò un secondo round, senza testimoni. Acri prese il coltello e lo fece roteare in aria: «Soltanto per tenerlo lontano». La lama ferì l’avversario al braccio e si conficcò per pochi centimetri nel cuore. Bellan si accasciò a terra. Acri si volse e andò a casa. Fu arrestato dalla polizia. In casa aveva ancora il coltello. Alla moglie non aveva detto nulla del diverbio. Non sapeva di aver ucciso. Versioni divergenti. Il pm Marco Sanini ha sempre sostenuto l’accusa dell’omicidio volontario. Oltre ai futili motivi, gli ha contestato l’aggravante del mezzo insidioso, rappresentato dal coltello a serramanico. I difensori di Acri, invece, ricostruendo minuziosamente le fasi della vicenda, hanno affermato la mancanza di volontarietà. Quel colpo al cuore fu rapido, quasi una puntura, ma letale. Questione di centimetri. Per cercare di convincere i familiari della vittima, Acri scrisse mesi fa anche una lettera piena di dolore. Dall’accusa fu considerato un segno tardivo, inefficace. Il giudice, nonostante l’ulteriore approfondimento dibattimentale sollecitato dalla linea difensiva dell’imputato, ha accolto la tesi del pm, eliminando solamente l’aggravante del mezzo insidioso. «Faremo ricorso in appello» dicono agguerriti i suoi avvocati.